L’attesa di tempi migliori: il documento di Economia e Finanza e l’assenza di misure per la crescita
Guglielmo Forges Davanzati
Sembra di trovarsi in una condizione macroeconomica per molti aspetti simile a quella che Hegel definiva “la notte delle vacche nere”. Sebbene l’insediamento del Governo Conte 2 abbia coinciso con la riduzione dello spread e, dunque, con minori interessi monetari da pagare ai creditori dello Stato italiano, non si rilevano apprezzabili cambiamenti soprattutto per quanto attiene alla prosecuzione delle misure di moderazione salariale e della conseguente deflazione. Sia chiaro che la deflazione (ovvero il rallentamento del tasso di inflazione) comporta riduzioni del tasso di crescita, dal momento che, da un lato, induce i consumatori a posticipare gli acquisti, attendendosi ulteriori riduzioni dei prezzi, e, dall’altro, spinge le imprese a posticipare i loro investimenti, in considerazione del fatto che i costi sostenuti sono minori dei profitti attesi.
La nota di aggiornamento al documento di Economia e Finanza (NADef) recentemente pubblicata si muove nella direzione corretta, soprattutto mediante la pressoché obbligata sterilizzazione dell’aumento dell’IVA. Ma non va oltre, affidandosi a un recupero dell’evasione fiscale verosimilmente sovrastimato, come osservato da molti commentatori. Ciò è probabilmente dovuto all’urgenza con la quale questo esecutivo intende procedere e, ancor più, al tentativo (a quanto pare al momento di successo) di ripristinare rapporti ‘di buon vicinato’ con le Istituzioni europee.
Occorrerebbe maggior coraggio nel riformare il mercato del lavoro (pare insufficiente, in tal senso, la riduzione del cuneo fiscale), nel senso di renderlo meno ‘flessibile’, per esempio attraverso clausole più stringenti in ordine alla somministrazione di contratti a termine, precari, non solo perché – come ampiamente dimostrato sul piano teorico ed empirico – la precarizzazione del lavoro riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro (generando effetti di demotivazione dei lavoratori), ma anche perché una maggiore regolamentazione del mercato del lavoro potrebbe spingere le imprese a provare a recuperare competitività attraverso l’introduzione di innovazioni: cosa di cui l’economia italiana ha davvero bisogno.
L’esperienza storica, sebbene ovviamente in un contesto istituzionale profondamente mutato, può insegnare a comprendere che nei periodi nei quali l’intervento dello Stato, non solo sotto forma di regolamentazione ma anche di azione diretta nella fornitura di servizi di Welfare, è stato più incisivo, si è avuta una più equa distribuzione del reddito e tassi di crescita relativamente più sostenuti di quelli attuali. Ci si riferisce, fra i tanti possibili esempi, all’Italia di inizi Novecento, quando, soprattutto per impulso del lucano Francesco Saverio Nitti, si avviò un programma di espansione dell’azione pubblica a tutela della salute, si realizzarono opere infrastrutturali e di riassetto idrogeologico (in Basilicata nel 1904, in Calabria nel 1906) e si attuò la legge speciale per Napoli (nel luglio del 1904). Si trattò di interventi non sempre di successo, ma che comunque alleviarono condizioni di estrema povertà – soprattutto al Sud – e che avviarono il processo di modernizzazione del Paese e il suo lento e faticoso aggancio al salto tecnologico della prima e della seconda rivoluzione industriale. La riuscita manovra di riequilibrio dei conti pubblici, attraverso il rinnovo di titoli fissi in scadenza a tassi di interesse più bassi, ebbe l’esito di creare un clima di fiducia sui mercati internazionali, riattivando la crescita economica e facendo aumentare il gettito fiscale.
Il fisco, appunto, costituisce un elemento cardine – nelle condizioni date – per provare a far ripartire l’economia italiana. Dopo le ‘riforme’ degli scorsi decenni, che lo hanno reso sempre meno progressivo, occorrerebbe mettere mano al sistema tributario per accentuarne il profilo di giustizia distributiva, come peraltro sancito dalla nostra Costituzione.
La NAdef è poi estremamente timida nei confronti di un settore strategico per la crescita economica, ovvero la ricerca e sviluppo. È vero che un recente provvedimento del MIUR ha avviato un percorso di riduzione dell’ipertrofia normativa che paralizza il settore (ci si riferisce al venir meno dell’obbligo di acquisto di beni e servizi tramite mercato elettronico, dunque ampliando la libertà di scelta dei fornitori) ma è anche vero che Università, fondazioni, centri di ricerca rimangono drammaticamente sottofinanziati in modo selettivo, a danno soprattutto di quasi tutte le sedi meridionali. D’altra parte, si può registrare il dato per il quale le èlites italiane hanno sempre mostrato disinteresse per l’istruzione.
È celebre, a riguardo, la domanda retorica che si pose Alessandro Manzoni: “quando saranno tutti dotti, a chi toccherà coltivare la terra?”. Si calcola che nel 1901 il tasso di analfabetismo si assestava a quasi il 50% rispetto al totale della popolazione residente e a ciò si può aggiungere che all’atto dell’unificazione esisteva un sistema di istruzione gratuita e obbligatoria, il cui finanziamento era però lasciato ai comuni, che, soprattutto nel Mezzogiorno, non disponevano di finanziamenti sufficienti[1].
Il punto politico in discussione riguarda, ancora una volta, l’assenza di una visione strategica per lo sviluppo del Paese. Va precisato che l’economia italiana è di fatto in una traiettoria recessiva da molti anni (alcuni analisti datano il cosiddetto declino economico italiano all’inizio degli anni novanta) e il principale indicatore riguarda il continuo calo del tasso di crescita della produttività del lavoro, peraltro quasi sempre inferiore alla media europea quantomeno nell’ultimo decennio.
La bassa crescita della produttività del lavoro è fondamentalmente imputabile al calo degli investimenti pubblici e privati. Proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulle recenti vicende della nostra economia.
Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari. Aumenta considerevolmente il tasso di inflazione, soprattutto a seguito dello shock petrolifero del 1973. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est. Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione comincia a essere ridotta.
L’arrivo della crisi del 2008 fa deflagrare tutti i problemi sedimentatisi nei decenni precedenti e si innesta su una struttura produttiva divenuta progressivamente sempre più fragile e caratterizzata da piccole dimensioni aziendali, forte dipendenza dal credito bancario, specializzazione in settori tecnologicamente maturi (turismo, agroalimentare, beni di lusso).
Negli anni più recenti, nessun Governo ha provato a invertire la rotta, ovvero a rendere il nostro sistema produttivo più forte e più competitivo su scala internazionale attraverso investimenti in innovazione. Per contro, gli investimenti pubblici si sono continuamente ridotti e si è continuamente ridotta la spesa pubblica in ricerca e sviluppo (a f
ronte peraltro di una spesa privata in ricerca e sviluppo di dimensioni irrisorie). Ciò è probabilmente da imputare all’estrema difficoltà di recuperare il terreno perso (è difficile re-industrializzare un Paese dopo decenni di politiche di de-industrializzazione), alla convinzione che l’Italia possa crescere in virtù della presunta eccellenza del ‘piccolo è bello’ e delle sue produzioni artigianali, alla scorciatoia politica di rinunciare a interventi sulla struttura produttiva con investimenti pubblici il cui effetto si vedrebbe nel lungo periodo. Si aumenta dunque la spesa corrente, quella che maggiormente si presume abbia effetti sull’acquisizione di consenso.
Si arriva al 2018. Il cosiddetto Governo del cambiamento, a trazione leghista, fa propria la convinzione che questi problemi dipendano dai vincoli europei, sulla scia di una ormai decennale elaborazione teorica per la quale le condizioni materiali di vita dei cittadini italiani migliorerebbero se si potesse fare a meno dell’euro. Si tratta di una tesi errata e che non coglie la reale portata del problema (economico e politico). Va ricordato che le svalutazioni della lira (7 casi dal 1979 al 1992) si sono sempre accompagnate a cali di produttività, per effetto della possibilità accordata alle imprese di competere con un cambio favorevole rinunciando a innovare. A ciò si può aggiungere il fatto che, poiché soprattutto negli ultimi decenni le imprese italiane esportatrici sono localizzate prevalentemente a Nord, le svalutazioni della lira hanno di norma prodotto un ampliamento dei divari regionali.
Il Governo del cambiamento ripropone una linea di politica economica eccessivamente sbilanciata sulla spesa corrente: trasferimenti monetari alle famiglie (reddito di cittadinanza e quota 100 in primis) – rispetto alla spesa per investimenti.
La scelta di allocare gran parte delle risorse pubbliche disponibili per spesa corrente – oltre a essere finalizzata all’acquisizione di consenso in un’ottica di breve periodo – risponde anche alla base elettorale dei partiti del Governo Conte 1[2]. Si tutelano, in tal modo, gli interessi della piccola impresa che opera su mercati locali, che non esporta e che produce prevalentemente beni di consumo per i quali non occorrono innovazioni. Assecondare questi interessi significa far sopravvivere imprese che diversamente fallirebbero nella competizione globale e soprattutto – dati i vincoli del bilancio pubblico – rinunciare a politiche alternative, in primis di incentivazione alle innovazioni, che costituirebbero il presupposto per il rilancio dell’economia italiana.
Il Governo Conte 2 non sembra in grado di abbandonare le line di policy ereditate: si tratta di un fattore di inerzia, probabilmente di assenza di coraggio e di una visione di lungo periodo, di certo si tratta di un temporeggiare in attesa di tempi migliori, sperando innanzitutto nella cessazione delle guerre commerciali e nella ripresa del commercio internazionale.
[1] V. Tullio De Mauro (1970). Storia linguistica dell’Italia unita, ripubblicato nel 2011. Roma-Bari: Laterza.
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