Auguri giustizialisti a Eugenio Scalfari

Angelo Cannatà



Il 1993 è davvero un anno importante, il consenso intorno alla magistratura – e alla giustizia – raggiunge livelli altissimi e in Italia c’è attesa, speranza, voglia di liberarsi di malaffare e corruzione. Eugenio Scalfari va a Milano, nel palazzo di giustizia, a incontrare Borrelli, D’Ambrosio, Di Pietro, Colombo, Davigo. I cinque di Mani Pulite. “Di incontri importanti ne ho avuti parecchi nel corso della mia lunga vita professionale – scrive – ma confesso che questo riesce ancora ad emozionarmi: la gente quando pensa ad una possibilità di rinascita morale del Paese, è a loro che si riferisce, alle loro facce e ai loro nomi diventati ormai famosi”. Le facce: “Di Pietro ha le sembianze e i colori del contadino meridionale”; “Davigo ha un volto sorridente e furbissimo”. Furbissimo qui significa: svelto, intelligente, lucido. Eccetera. In queste parole c’è l’approvazione del fondatore di Repubblica per l’opera di giustizia – guai a chiamarla giustizialismo – dei magistrati di Milano.

C’è però qualcosa di più in quest’articolo del 26 gennaio 1993. Qualcosa che spiega l’ammirazione – la cotta – che molti abbiamo avuto per Scalfari. Egli pone domande (quelle giuste), senza curarsi di tutelare questo o quel partito: “Avete avuto ostacoli politici?” “Diciamo che l’omertà tra corrotti e corruttori non si sarebbe spezzata se il quadro politico non fosse cambiato il 5 aprile.” Poi riassume: e qui va letto con attenzione: “Parliamo delle nuove procedure del processo penale e chiedo se esse abbiano facilitato o reso più difficile l’inchiesta. Rispondono che senza la nuova procedura, che accresce i poteri d’iniziativa del Pubblico Ministero, un’indagine come quella sarebbe stata impossibile”. La verità è che Scalfari parteggia per quei giusti – guai a chiamarli giustizialisti – e concorda: i giornali hanno avuto un ruolo (decisivo): “La stampa e l’opinione pubblica ci sono state di grande aiuto. L’omertà criminosa non si rompe se il clima circostante non isola i colpevoli con un giudizio morale che precede la doverosa specificità del processo giudiziario”. Non sappiamo se quest’idea – chiara e distinta – sia del furbissimo e lucido Davigo (l’intervista è collettiva), ma gli somiglia molto. Certo è che Scalfari così engagé – che va nel palazzo di giustizia per omaggiare la magistratura; che attacca i potenti; che mette a disposizione la sua “struttura d’opinione” (questo era Repubblica: una struttura d’opinione che creava consenso) – è difficile non amarlo. Scrive: “Il sentimento pubblico chiede cose molto ragionevoli: 1) I giudici portino in fondo il loro lavoro; 2) L’immunità parlamentare sia abolita; 3) L’interdizione dei colpevoli dai pubblici uffici sia totale e perpetua. (…) Questo ci sembra il minimo, se il concetto dei delitti e delle pene non dev’essere ridotto alla farsa” (17 febbraio 1993). Domanda: si tratta di verità contingenti, o sono valide anche oggi? Che un reato – penale, civile, amministrativo – debba avere una sanzione, è giusto anche nel 2017? Se Lotti, papà Renzi, e Madia – su piani diversi, certo – si muovono nell’illecito la stampa deve parlarne? Va espresso un giudizio morale o no? Davigo è coerente, oggi, con le tesi del 1993 (la stampa deve sensibilizzare l’opinione pubblica; la politica lega le mani alla magistratura). Ne parla nel recente libro scritto con Ardita – Giustizialisti, Paper First – dove, in pagine di estrema chiarezza (“Delinquere in Italia conviene”, “La politica e i magistrati”) mostra la situazione della giustizia: le inchieste degli anni 90 “sono rimaste nella memoria dei politici (…) ma solo come paradigma per impedire che possano ripetersi le condizioni che le portarono alla luce” (p. 65). Sono pagine interessanti, lucide, piene di passione per il diritto. Anche Scalfari, sono certo, conserva la cura di sempre per la legalità, celebre la denuncia del golpe De Lorenzo. E’ la sua creatura – Repubblica – che a nostro avviso, da qualche tempo, ha attenuato/sfumato l’attenzione per la legge. Troppi silenzi. Peccato. Molte campagne giornalistiche in nome del diritto potevano nascere – in sintonia tra giornali – con grande giovamento del Paese. Invece: quanti conservano (con orgoglio) la passione per la giustizia, vengono definiti giustizialisti. E’ per questo che Davigo – “sorridente e furbissimo” – ha titolato il suo libro “Giustizialisti”: ne rivendica il ruolo contro ogni denigrazione (“molte volte si grida al processo politico anche quando l’accusa è di avere chiesto voti a un esponente mafioso” p. 185); Scalfari ne approva, sono sicuro, i temi essenziali: li ha trattati più volte nei suoi editoriali. Mi accade di criticarlo, talvolta, il Fondatore, su qualche tema specifico, ma conservo per lui la stima di sempre. A Davigo per il suo libro e a Scalfari per gli splendidi 93 anni – li compie oggi – auguro tutto il bene possibile. Buon compleanno, Eugenio.



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