Autonomia differenziata? “Curnuti e vastuniati” (Perché per la Sicilia è meglio l’indipendenza)
Biagio Bossone
e Massimo Costa
Il dibattito sull’Autonomia di queste settimane si sta incentrando su aspetti che in realtà centrali non sono. Potranno le Regioni del Nord occuparsi di questa o quella funzione amministrativa prendendola in carico dallo Stato con le relative risorse? Se l’autonomia differenziata fosse solo questo sarebbe anche ozioso parlarne. Forse ci si potrebbe chiedere quali funzioni possono essere distribuite senza attentare all’unità dello Stato, ma non è questo il discorso che rileva.
Il vero problema è un problema di risorse. Di soldi, a dirla volgare: la riforma è a somma zero o comporta uno spostamento di soldi? E, in quest’ultimo caso, da chi a chi?
Abbiamo perciò dato un’occhiata alla parte finanziaria degli accordi preliminari fra Governo e Regioni, ma tutto appare demandato a successivi accordi tecnici, Un principio tuttavia vi è solennemente affermato: le Regioni potranno prendere una quota rilevante dei tributi “maturati” nel territorio.
Si badi, non si dice “riscossi” nel territorio, bensì soltanto maturati. Forse, i lettori non coglieranno immediatamente la sottile distinzione; essa è però alla base della moderna fiscalità globale. Per chiarirla in una battuta: se un’azienda veneta realizza profitti a Lubiana, non potrà mai obiettare al governo sloveno – che ne tassa il reddito – che la sua sede sociale si trova a Padova.
Quindi, le cose sono due: o al Nord si sono fatti male i conti, o si sta preparando la più colossale truffa ai danni delle regioni del Sud della Storia d’Italia.
Che vuol dire “maturate”?
I criteri in base ai quali si misurano il reddito o i consumi o qualunque altro presupposto d’imposta su base regionale sono due: o in base ai costi sostenuti o in base ai ricavi ottenuti (ovvero una ponderazione dei due criteri). Se si distribuisce in base ai costi, per la Lombardia (dove hanno sede legale le più grandi imprese italiane diffuse su tutto il territorio) sarebbe un bagno di sangue. Se si distribuisce in base ai ricavi, considerando che la maggioranza relativa dei ricavi delle imprese “nordiche” sono realizzate nel Mezzogiorno, si tratterebbe della più formidabile redistribuzione di risorse a favore del Mezzogiorno che ci sia mai stata dall’Unità d’Italia ad oggi. Sotto questo aspetto i mirabolanti residui fiscali del Nord, di cui si legge e che vengono millantati sul web, sono soltanto un miraggio.
Si consideri il caso della Sicilia. Ai sensi dell’art. 37 (mai attuato, badiamo bene) dello Statuto siciliano, le imprese non residenti dovrebbero versare le loro imposte in Sicilia sotto l’accertamento di un’Agenzia delle Entrate siciliana. Quest’articolo varrebbe da solo circa 3 o 4 miliardi l’anno (a tanto ammontano i prelievi tributari sui redditi prodotti in Sicilia da imprese non residenti) su un bilancio regionale di 15 miliardi circa. In pratica, con l’attuazione dell’art. 37, la Sicilia azzererebbe tutto il proprio debito in soli 15 mesi. Aggiungete l’IVA, moltiplicate per tutto il Mezzogiorno e vedete un po’ di che si tratta: si tratterebbe di spostare, a bocce ferme, circa 40 miliardi di spesa pubblica dal Nord al Sud! E ci siamo limitati alle imposte sul reddito e all’IVA.
In termini pratici ciò significherebbe condannare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna al default in un solo anno di autonomia. Possibile che nessuno abbia fatto bene i conti?
La realtà crediamo sia invero ben altra: negli accordi c’è scritto “maturato”, ma i tavoli tecnici (potremmo scommetterci) leggeranno “riscosso”.
Ma, se ciò accadrà, sarà la costituzionalizzazione di una nuova “apartheid”. Un’apartheid in cui non solo lo Stato centrale italiano resterà completamente svuotato, ma sarà costituzionalizzato il travaso fiscale di risorse dal Mezzogiorno al Settentrione, con tutto ciò che comporterà in termini di ulteriore devastazione economica, sociale, umana, di quelle che ormai molti chiamano le “colonie interne” dell’Italia.
Come la si gira si gira, dire che oggi, anziché una spaventosa Questione Meridionale, esiste una Questione Settentrionale, è pura follia. Anche il “compromesso”, faticosamente cercato dal volenteroso Conte, appare del tutto insano. Qui ci vuole solo un netto NO, detto forte e chiaro, di fronte alla più aberrante, iniqua e insostenibile delle riforme finanziarie dell’Italia. Chi sta dicendo NO oggi tra i grandi partiti italiani? Di fronte alla Lega (quella vera, “per l’indipendenza della Padania”, non quella al traino, per “gonzi”, del Centro-Sud) che dice SÌ, abbiamo un SO (o sì sottotono) dello stesso PD che ha siglato questi accordi, e tutt’al più un timido NI del Movimento 5 Stelle.
Tollereremo che ciò che oggi rimproveriamo a Google (che produce risorse in Italia ma vuol pagare fuori le imposte) diventi invece la regola per l’Italia, con cittadini di serie A e altri di serie Z?
A queste condizioni, per quale ragione dovrebbe mai continuare ad esistere l’Italia: per consentire alle Regioni della Pianura Padana di continuare ad arricchirsi a spese del resto del Paese e poterle anche disprezzare? (“Curnuti e vastuniati” si dice in siciliano, equivalente al più noto napoletano “curnut’e mazziati”).
Ma se ciò accadesse, da Siciliani ci domandiamo, che senso avrebbe restare uniti a una “mezza” Italia, o peggio al solo Sud continentale?
La Sicilia è la Regione che oggi paga più di tutte l’unità politica del Paese. Nonostante le leggende metropolitane, tranne un quarto della spesa sanitaria e poche briciole per i Comuni, la Sicilia non riceve più alcun trasferimento dallo Stato (quelli che vengono computati come tali non sono altro che i tributi erariali raccolti in Sicilia stessa).
La Sicilia (Regione, Province, Comuni, la quasi totalità di enti pubblici) sopravvive letteralmente con i 2/3 circa dell’IRPEF e 1/3 circa dell’IVA riscosse nel territorio (ZERO di quelle maturate nel territorio e ZERO delle accise maturate nel territorio). Con quelle risorse provvede a tutto, ivi incluse le pensioni dell’Assemblea Regionale Siciliana e gli stipendi dei mitici forestali, e tutto ciò a spese solo del contribuente siciliano e non certo di quello italiano. A questo si aggiunga un contributo al risanamento del debito pubblico erariale quadruplo pro capite rispetto a quello delle altre regioni, e secondo in valore assoluto solo a quello della Lombardia. Contributo pagato persino dalle ex province che, caso unico in Italia, nulla ricevono dallo Stato italiano.
L’apparente paradosso nasce da un’applicazione "zoppa" dello Statuto: in teoria, la Sicilia dovrebbe assumersi la quasi totalità delle spese e prendersi la quasi totalità delle entrate; in pratica, questo è stato attuato solo dal lato della spesa (con poche eccezioni residue, come la scuola), mentre dal lato delle entrate lo Stato tiene ben stretti i cordoni della borsa. Poi, i pochi tributi raccolti in Sicilia e devoluti alla Regione sono computati come "trasferimenti erariali" e da qui nasce l’illusione di una regione mantenuta dal centro. Mantenuta, sì, ma con le stesse tasse raccolte in Sicilia.
Non s’intende difendere il malgoverno locale e le inefficienze, che nessuno nega, e in cui peraltro tutta l’Italia appare straordinariamente unita da Bolzano ad Agrigento. Si tratta di riconoscere che le Isole per prime non avrebbero più alcuna ragione di restare unite al “Bel Paese”. Sia nel caso questo si trasformi in una macchina infernale che raccoglie dappertutto per dare alla sola “Padania”, sia in quello in cui l’unità politica del Paese venga meno e che lo Stato restasse un troncone.
In fondo, la Sicilia è stata per 1000 anni circa uno stato a sé, quasi sempre con un proprio Parlamento (il Regno di Sicilia). Potrebbe benissimo riprendere un discorso interrotto nel 1816 con un colpo di stato, dopo il quale non è che le cose siano andate poi così bene.
E l’Italia allora? Come diceva Metternich…
E allora o si pone termine a questa follia o si avvia un pacifico processo di dissoluzione dello Stato italiano.
Tertium non datur.
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