Balthus e il sesso dei bambini
Mariasole Garacci
La petizione che chiede al Met di New York di rimuovere un dipinto di Balthus è stata giustamente criticata da molti in nome dell’assoluta autonomia dell’arte dal giudizio morale. Resta però un malinteso su questo pittore che è stato capace, con spregiudicatezza e poesia, di illuminare una verità tradizionalmente trascurata a favore di una visione tutta culturale dell’infanzia innocente.
C’è un perbenismo moralista, forte di battaglie giuste e ineccepibili -da quella contro la cultura che produce una narcisistica e consumistica ossessione per la preda femminile giovane, quella contro il costume delle molestie sessuali, fino a quella contro la pedofilia-, che manifesta un comprensibile disagio di fronte a qualcosa che per molti, a più di un secolo dai Tre saggi sulla teoria sessuale di Sigmund Freud, è ripugnante riconoscere: che bambini e fanciulli sono soggetti con pulsioni erotiche profonde, disordinate, vitali. Che, insomma, hanno una dimensione sessuale. Come se riconoscerlo equivalesse a fare di loro lecito oggetto del nostro desiderio, a lasciarsi andare a una patologica e degenerata anarchia, a non poter distinguere tra la sessualità di adulti formati, dotati di tutti gli elementi psicologici, intellettuali ed emotivi dell’età e dell’esperienza, e quella di creature immature, esplosive e magmatiche da lasciare libere di attraversare intatte le delicate fasi della loro formazione.
Balthus -artista complesso, conturbante e sgradevole come lo è il linguaggio rivelatore dei sogni e dei desideri- ha raccontato questa dimensione misteriosa, incantevole e crudelmente tenera dell’infanzia e della prima adolescenza con una sincerità e spregiudicatezza che vengono spesso liquidate come “pedofilia” da chi, semplicemente, fraintende l’oggetto della sua poetica e proietta sull’artista la sensualità dei soggetti. Più di una volta Balthus è stato accusato di oscenità, o censurato preventivamente per timore di turbare l’opinione pubblica. Come successe con il dipinto del 1934 intitolato La lezione di chitarra, chiaramente ispirato alla quattrocentesca Pietà di Villeneuve-lès-Avignon di Enguerrand Quarton e al Ritratto di Gabrielle d’Estrées e di sua sorella la duchessa di Villars, entrambi al Louvre: nel 1984 il quadro, appartenente a una collezione privata, fu ritirato dalla retrospettiva del pittore organizzata al Centre Pompidou e al MoMA, per ricomparire in pubblico soltanto nella mostra a Palazzo Grassi a Venezia, nel 2001. E’ interessante notare che, recentemente, il tema del sesso femminile fatto vibrare come le corde di uno strumento musicale sia stato rielaborato, forse di proposito, da una giovane illustratrice francese di talento come Marion Fayolle, in una edulcorata versione eterosessuale, colorata a pennarello come un disegno infantile, che depotenzia con ironia il tono crudele reso quasi insostenibile per veridicità dall’espressione di sadismo e di tormento unito a piacere dipinto sul volto delle protagoniste del quadro di Balthus.
A lanciarsi, per fortuna solo metaforicamente, contro un quadro ritenuto offensivo, come già nel 1914 fece materialmente e armata di coltello la suffragetta Mary Richardson contro la Venere allo specchio di Velasquez, è stata stavolta una giovane donna di nome Mia Merril, che con una fortunata petizione online ha chiesto al Met di New York di censurare il quadro Thérèse Dreaming dipinto da Balthus nel 1938. L’opera, che raffigura una ragazzina di dodici o tredici anni in solitario abbandono su una poltrona, con le gambe socchiuse e la gonna sollevata sulle mutandine bianche, secondo Mia Merril “romanticizes the sexualization of a child”. Nella petizione si spiega che, “considerato l’attuale dibattito intorno alle molestie sessuali e alle accuse pubbliche che aumentano di giorno in giorno, mostrando alle masse questo dipinto senza il corredo di alcuna spiegazione il Met sta nobilitando, forse involontariamente, il voyeurismo e la riduzione dei bambini a oggetti”.
Da più parti la petizione è stata criticata con accenti diversi, ma sempre insistendo sull’autonomia dell’arte da ogni giudizio morale. E’ senz’altro giusto rivendicare sempre questo principio, di contro a un’incomprensione del linguaggio artistico frutto di una pervicace e gretta ignoranza che si pasce di ideologismi, che si scandalizza e si sente sfidata dalle distinzioni poetiche, dalle sfumature di senso; che rivela il materialismo tonto di chi non sa chiudere il becco e avvicinare l’occhio al caleidoscopio con cui l’arte ci fa vedere, per usare parole di George Bataille, “ciò che eccede la nostra possibilità di vedere”, pensare “ciò che eccede la nostra possibilità di pensare”, ricordare ciò che nostalgicamente risuona da lontano; che si fa confondere e offendere dal solo sospetto dell’invisibile. L’invisibile che l’arte è in grado di materializzare evocando quelle larve della nostra fantasia e dei nostri ricordi che varcano indisturbate le soglie dischiuse tra i vari livelli della realtà, della coscienza e dell’immaginazione.
Mi sembra, però, che giustificare l’opera di Balthus in nome della libertà dell’arte convalidi l’errore di interpretazione dei suoi detrattori. Non si tratta qui della necessità di ribadire che l’arte può esplorare, in virtù di una consapevole regressione dell’Io a favore dell’espressione di derive inconfessate della psiche, anche le sfumature esistenziali più scandalose come una morbosa attrazione per pubescenti lolite in calzettoni: Balthus ha illuminato e interpretato una verità che prima e dopo di lui è stata dimenticata e trascurata dall’arte a favore di una visione tutta culturale dell’infanzia innocente, e l’ha riconosciuta come soggetto poetico. Superfluo indagare sull’uomo, questo moderno e spregiudicato allievo di Piero della Francesca che amava i gatti e Baudelaire; soppesare l’erotismo della sua pittura con le memorie della ragazzine che hanno posato per lui, e in seguito dichiarato l’innocenza delle sedute nello studio del vecchio artista. Provarci non eliminerebbe l’ambiguità del personaggio, perché vale solo la pittura, l’opacità quattrocentesca dei rosa, degli azzurri e degli ocra polverosi, delle superfici ruvide alla caseina su cui si proiettano luci radenti, il mistero dei volti lambiti da ombre morbide e degli sguardi ora assorti, ora schioccanti, ma sempre inconsapevoli e rivelatori. Questo lo sanno tutti coloro che ricordano di aver giocato, da bambini, in una stanza abbandonata dagli adulti, lallando tra sé e sé avvinti dal proprio stesso incanto e dalla propria solitudine, inseguendo una striscia di sole che si allunga sul pavimento, e che lasciano sopravvivere questa parte di sé senza vergognarsene e senza risolverla.
Ma anche il luogo letterario dell’arte quale terreno della libertà assoluta è frutto di un pregiudizio che deriva dalla funzione ancillare e subordinata che il nostro sistema culturale tradizionalmente attribuisce all’arte: è un dispositivo che, mentre apparentemente tende a liberare l’espressività
nel territorio della creatività, serve in realtà a definire il lecito e l’accettabile in una foucaultiana creazione di limiti costitutivi. Quei limiti, cito il filosofo francese, “con i quali una cultura respinge qualcosa che per lei sarà l’Esteriore” e giunge così a definire se stessa. Altrettanto sclerotico che scandalizzarsi delle provocazioni del linguaggio artistico è relegare nella licenza dionisiaca e anarchica dell’arte l’irrisolto delle nostre coscienze, attribuendo a questa dimensione espressiva delimitata dai nostri distinguo intellettuali una funzione liberatoria e in qualche modo rituale che ci dispensa poi, nella vita quotidiana, dall’accogliere e accettare la crisi e l’eresia. Immaginare gli artisti come dei santi, dei giullari folli o delle puttane, con cui permetterci a tempo e luogo la licenziosità e la fantasia che abbiamo scacciato dai nostri sistemi di vita, serve a mantenere il controllo sulla vita al di qua del baratro.
(23 dicembre 2017)
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