Bansky ha acquistato una barca – la Louise Michel – con la quale si adopera per salvare 219 migranti. Questo è il fatto in grado di scatenare reazioni molto varie. Da un lato gruppi di radioascoltatori di RadioTre lamentano l’azione invocando un ritorno all’arte. Molti si augurano che lo street artist più amato smetta di rendere visibile le contraddizioni del mar Mediterraneo mentre tutti sembrano sapere cosa dovrebbe o non potrebbe fare un artista. In generale, sia l’ascoltatore medio che tra gli addetti ai lavori, tante sono le voci che stanno cercando di mettere sotto scacco la sua azione tacciandola come facile operazione di marketing. Altri, più permissivi la “accettano” a patto che poi l’artista si faccia carico anche di altro. Tentano di negoziare la sua presa di posizione imponendogli cose al limite del ridicolo come quella di trovare loro anche un lavoro! E poi ci sono i critici d’arte che leggono l’operazione umanitaria come senso di colpa d’essere diventato un artista molto ricco, tanto da imporgli di confondere arte e vita. E ciò – assicurano – non fa di lui un artista.
La questione è che la critica d’arte in questione fa uso di termini come “arte e vita” in un modo molto discutibile, probabilmente perché il postmoderno le ha rese vuote parole nei libri di testo oppure perché c’è stato un profondo scollamento dell’arte contemporanea dall’etica. La questione è che proprio quella disciplina fin troppo intellettualistica ed eterea, fatta di parole come la critica d’arte, oggi si sta associando al semplicistico sguardo dell’analfabeta funzionale, misconoscendo le categorie filosofiche più complesse di questo nuovo millennio come quelle di finzione e realtà. Evidentemente la critica d’arte studia poca filosofia oppure fa solo uso di quella che giustifica l’appartenenza.
In generale però tutti dimenticano che questo è il caso di un essere umano che mostra interesse verso altri esseri umani. Solo che questa volta è un’azione; una performance (se si vuole) diversa ma assimilabile al ritratto del piccolo migrante che chiede soccorso, dipinto da Bansky in un muro di Dorsoduro a Venezia durante la Biennale. Qui quel bambino e quei corpi scuri che stramazzano in mare sono veri e l’artista oltre ai palloncini dipinti ha evidentemente voluto fare anche il salvagente.
Questa però, non è questione artistica da affrontare segnalando le reazioni di un pubblico restìo all’arte e dunque di un pubblico che si chiede se questa sia arte o no e non è nemmeno una chiacchiera da salotto tra gruppi di collezionisti e critici d’arte. Piuttosto qui è da leggere il fatto di cronaca. La politica di un mare di fronte alla Libia che continua a essere difficile.
Bisognerebbe leggere la nostra etica politica, sia come nazione che come uomini, di fronte al fatto che il centralino dei migranti (l’Alarm Phone), continui a denunciare il mancato soccorso agli SOS di molti gommoni.
Ciò che rende inaccettabile la nave di Bansky è caso mai la volontà di rendere visibile il dettato del capitalismo culturale. La sua libertà di slacciarsi da ciò che inchioda all’opera un artista sempre meno capace di esprimere opinioni personali. Questa motonave sta combattendo una battaglia contro chi intende irreggimentare la volontà e la dignità dell’artista. Contro chi impone all’arte di non occuparsi di vita, costringendola a stare nella sua sfera d’interesse senza imbattersi in quella politica che domina e sottomette gli uomini.
Contro chi ha bisogno che gli artisti facciano il loro gioco all’interno dell’ambito loro concesso con un lavoro prescritto e avendo come unico scopo il profitto.
Certamente, si concede a Bansky di fare appello alla morale, ma solo da lontano e ipocritamente. Vogliamo vedere una sedicente libertà d’artista, ma solo fin dove arrivano i confini stabiliti. Di fatto si chiede all’artista di rifiutare la contaminazione dell’estetica attraverso l’etica perché egli a nostro avviso non dovrà sottomettersi al tempo e allo spazio e, nelle sue espressioni più estreme, dovrà perfino opporsi ad ogni forma di lavoro.
La critica d’arte, in quanto disciplina delle immagini dovrebbe conoscere le potenzialità di queste ultime, specie quando prendono di mira l’egoismo degli interessi privati, mettendo in mostra in prima serata la miseria crescente di alcuni popoli contro una società dalla ricchezza senza precedenti. Altri artisti in passato e molti anche in questi ultimi anni hanno riflettuto molto sulle teorie dello sfruttamento. Questa barca di Bansky però è molto di più, anche in termini di marketing artistico. Intanto perché si fonda sulla morale e si basa sull’azione e dunque in quanto tale finisce per imporre all’artista di metterci la faccia tagliando corto così, con una metà abbondante di acquirenti, specie di quelli che non vogliono storie!
È un’azione priva di qualsiasi riferimento d’ispirazione cristiana. È un’azione laica perché quella di Bansky è critica sociale; è il rifiuto dell’immoralità. È nausea di fronte a quell’assurdo neutralismo morale che giustifica l’individualismo degli artisti. Dunque, se è vero che rispetto al principio di accumulazione di occasioni per capitalizzare la propria fama, quella di Bansky è un’operazione di marketing a tutti gli effetti, ciò che è profondamente mutato è l’organizzazione della sua produzione e la logica che sta a monte e che giustifica tutta la sua operazione. Sono le trasformazioni in queste ultime due dimensioni che circoscrivono il nuovo profilo dell’artista incidendo anche sull’uso del capitale economico dell’artista contemporaneo.
(3 settembre 2020)
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