Bellocchio: “Il mio cinema contro il Potere”

Giacomo Russo Spena

“Il traditore? Chi cade nella trappola della paura con cui certi partiti ottengono consenso. La sinistra? Ha tradito i suoi elettori”. Dalla politica alla genesi del suo nuovo film su Tommaso Buscetta – in questi giorni nelle sale con grande successo – Marco Bellocchio racconta a MicroMega il suo cinema di impegno civile: “Non sono mai stato alla moda. Per piacere bisogna essere compatibili con il Sistema”.

intervista a Marco Bellocchio

“Nella vita ho fatto alcune scelte coraggiose, altre invece più dettate dalla paura ma, come in ogni film, ci vuole il corpo di un soggetto”. Il coraggio, la paura, il futuro. Marco Bellocchio ci aspetta nel suo ufficio di Roma, sulla Nomentana, il luogo di produzione di idee e lavori. Ad accoglierci nessuno sfarzo, ma pile di sceneggiature, fotografie in bianco e nero e vecchi poster sul muro. Il posto emana un profumo di cinema. Iniziamo a conversare. Il regista, quasi ottantenne, non ha fretta, prende le sue pause, riflette. Mai banale nelle risposte. Accompagnato da un clamoroso successo in sala e accolto da 13 minuti di applausi a Cannes, discutiamo del suo “Il Traditore” []: il film sulla vita di Tommaso Buscetta, il primo pentito di mafia che – arrestato ed estradato in Italia dalla polizia brasiliana – deciderà di collaborare col giudice Giovanni Falcone e di tradire Cosa Nostra.

Il film è una puntuale ricostruzione storica innervata a una dolente vena melodrammatica, almeno dal mio punto di vista, della vicenda del super pentito Tommaso Buscetta. Perché nel 2019 una pellicola su Buscetta? Come nasce l’idea?

La genesi è casuale, nasce da una proposta del produttore Beppe Caschetto. Non sapevo molto della vita di Buscetta, se non genericamente che era un pentito di mafia, ho cominciato così ad informarmi leggendo libri – e ce ne sono su di lui – e parlando con giornalisti e scrittori che lo avevano conosciuto. Da questo approfondimento, ho ideato un film che girasse intorno alla sua figura. Ho personalizzato la storia, l’ho fatta mia, senza tirare Buscetta nel mio mondo piccolo-medio borghese di provincia. Esattamente il contrario: sono io che sono calato nel suo mondo, cercando – e questa è stata la preoccupazione se non un’angoscia che mi ha accompagnato durante le riprese – di girare immagini che non fossero convenzionali né superficiali. Non volevo fare l’ennesimo film su Cosa Nostra, non ce n’era bisogno.

Dal film traspare una narrazione un po’ troppo indulgente della figura di Buscetta. Non si corre il pericolo di trasformarlo in un’icona? Parliamo pur sempre di un mafioso…

Ha collaborato con la giustizia e Falcone ha accettato la sua collaborazione ponendo dei limiti e dei confini all’interno dei quali Falcone stesso ha trovato informazioni estremamente utili che gli hanno permesso di istruire il processo che sappiamo. In questo senso, tra l’uno e l’altro c’è una profonda lealtà. In una scena Falcone rimprovera Buscetta: “Senta, questa idea, non dico cavalleresca, della vecchia mafia comunque nobile è una cosa falsa”. La risposta è eloquente: “Noi avevamo dei patti e io li ho rispettati”. La collaborazione è dentro quei confini. Poi Buscetta lo ricorderà spesso nella sua vita che ha sempre detto la verità, una verità parziale, ma la verità: “In tanti interrogatori non mi sono mai contraddetto”. E la sua collaborazione, durata più di dieci anni, è stata preziosa per colpire il clan dei Corleonesi.

Ha considerato Buscetta “un uomo coraggioso”.

Lo dicono tutte le testimonianze, ha affrontato gli eventi della vita. Anche dei grandi criminali possono essere coraggiosi. Il coraggio di per sé dipende a cosa lo applichi, a quale ideale. In questo senso, certo, non è un eroe né un santo né un martire. Non è Salvo D’Acquisto che per salvare degli innocenti offre la sua vita. Fino all’ultimo ha cercato di salvare la sua di vita per ottenere un solo fine: morire nel proprio letto. Questa è stata la sua grande vittoria.

C’è una frase di Falcone che resta impressa allo spettatore: “Ho più paura dello Stato che della mafia”. È un modo per denunciare i rapporti e la trattativa Stato/mafia?

È una tesi che ha dei riscontri. La grande battaglia di Falcone coi Corleonesi è stata vinta – nel maxiprocesso si giunge a numerose condanne – ma il secondo livello viene appena scalfito. Pensiamo all’incriminazione di Giulio Andreotti o alle stesse dichiarazioni di Buscetta che nell’ultimo libro intervista con Saverio Lodato – intitolato appunto “La mafia ha vinto” – sostiene che a Falcone è stato impedito di giungere all’altro livello: a Roma.

Lo Stato ha volutamente abbandonato Falcone e Borsellino perché aveva qualcosa da nascondere?

Lo Stato ha utilizzato i mezzi necessari per sconfiggere e ridimensionare la mafia ma, sicuramente, non c’è stato raccontato tutto. Esistono dei buchi neri, delle omissioni né sappiamo esattamente come si è giunti all’arresto di Riina. Buscetta, utilizzando un gergo napoletano, lo definisce “un’anima malata”. Cioè un pazzo. Secondo lui, la mafia aveva una sua razionalità ed aveva come fini il potere, il danaro e il controllo. Le bombe di Riina rappresentavo una logica estranea a quel codice.

Chi è il traditore?

È una parola che può essere interpretabile.

Potrebbe essere l’italiano medio con cui alla fine, nonostante tutto, essere comprensivi?

Beh, è una lettura consona che ci sta. Ma il tradimento deve essere collegato ad un altro concetto ormai egemone nella società: la paura. Io ho paura quindi tradisco le mie convinzioni e mi getto tra le braccia di chi promette di difendermi. Eppure la paura è un delirio, è un fantasma che non esiste. Oggi viviamo con la paura per gli immigrati e per i rom quando c’è una sproporzione immane tra la realtà e la fantasticheria per la quale certi partiti ottengono consenso speculando sulla guerra tra poveri.

Chi ha paura è un traditore?

Non entrerei in un ambito morale, però di fatto lo è. Non dimentichiamo che poi esiste un altro discorso, più politico, che riguarda la sinistra e il tradimento.

I partiti di sinistra avrebbero tradito i propri elettori?

Mi pare palese: in tanti hanno abbandonato la sinistra e il Pd perché hanno tradito le loro aspirazioni andandosi a rifugiare in altri movimenti che ne sono l’opposto. Leggevo, ieri, che a Capalbio, simbolo della sinistra chic, vince la Lega. È chiaro che siamo in un’epoca di cambiamenti.

Il prossimo film potrebbe realizzarlo sul tema della paura? Sulla paura come strumento di consenso e di governo?

È un’idea, ma va trovato un personaggio che innesti una storia. Ci penserò…

Lei, invece, ha mai tradito?

In un certo senso sì: ho rifiutato un certo tipo di educazione cattolica/democristiana e di formazione per abbracciare un’idea di cambiamento, personale e sociale. Però esiste anche il “tradimento” nella vita privata – tradire un amico, ad esempio – e ne sono un fermo oppositore. Adesso persino Giuda e Iago sono interpretati in senso positivo in un discorso di annullamento della negatività e di male assoluto. Non ne sono convinto.

È rimasto deluso per Cannes?

C’è un momento in cui ti dispiace perché pensi di aver fatto un buon lavoro e ti rattristi per non aver avuto riconoscimenti ufficiali, ma te ne dimentichi subito perché sei confortato dai risultati di pubblico n
otevoli e inaspettati.

Pensa di essere un regista “scomodo” e che questo abbia influito nel mancato riconoscimento a Cannes?

È chiaro che la mia vena, i miei pensieri e le mie immagini sono contro il Potere, insomma. Come ho già detto altre volte, sono di un anarchismo moderato, e non distruttivo, però non credo di essere mai stato alla moda. Per piacere bisogna essere compatibili con quel Sistema.

Si sente un anticonformista?

Di fondo sì, ma col tempo ho cercato di fare i conti con la mia vita, col mio tempo e con il danaro perché siamo pur sempre una categoria che vive del proprio lavoro. In Unione Sovietica i registi erano controllati però avevano il loro stipendio ed erano dentro le istituzioni. Preferisco, invece, com’è oggi con tutti i rischi annessi. Nessun rimpianto.

Il Traditore è un film di denuncia sociale ma senza retorica e soprattutto – ed è importante – non è ideologico. Si considera uno dei pochi registi rimasti a fare cinema impegnato?

Di certo sono sensibile all’impegno civile. Una volta il cinema si occupava maggiormente della società: esisteva il cinema politico, di denuncia, di inchiesta ed aveva una certa efficacia. Negli anni, con l’avvento della televisione, qualcosa è cambiato.

Ma, secondo lei, esiste ancora il cinema impegnato in Italia?

Una volta il cinema impegnato si occupava dei politici, dei partiti e, più in generale, dei grandi temi sociali, ora si preferisce narrare i soggetti percepiti come più deboli e indifesi. Mi spiego. Mi stupisce, ad esempio, come tanti giovani registi si occupino di immigrazione, e non per moda, lo fanno perché evidentemente esiste un’attrazione verso questa tematica che ci conduce, alla fine, ad un film di impegno. Si ispirano di fronte a tragedie o ad annosi casi di cronaca. Penso al film su Stefano Cucchi o alle tante pellicole sulla criminalità giovanile. In altre forme rispetto al passato, ma sì, rientrano nel filone dei “film impegnati”.

Lei ha quasi 80 anni e il suo cinema si caratterizza per una grande poliedricità. Nella sua lunga carriera troviamo film legati alla storia politica di Italia (Buongiorno notte, Vincere, Bella addormentata, I pugni in tasca) altri più romanzeschi (Sangue del mio sangue, La balia) oppure film anche più introspettivi e privati (Sorelle, Sorelle mai). Qual è il filo conduttore che tiene insieme queste pellicole apparentemente così diverse?

Scrivo le sceneggiature dei film e pur partendo da storie diverse cerco sempre di trovare delle immagini che si accendano su quello che è il mio modo di riprendere, guardare e affrontare i temi. Le riprese rappresentano, per me, un costante risveglio e il momento della verità: mi confermano una vitalità che finora, in modo diverso e con risultati diversi, c’è sempre stata.

Lei ha diretto grandissimi attori. Tra questi si può annoverare il nome di Pierfrancesco Favino?

Il risultato, estremamente positivo del film, dipende anche dalla sua grandezza, non c’è dubbio. Ha fatto un grande interpretazione: lui è stato un creatore nel senso che ha dato un carattere e una personalità a Buscetta che è frutto del suo talento di attore ma anche dalla sua attenzione e del suo studio del personaggio. Lui su Buscetta sapeva e sa una serie di informazione a me ignote. Non ho dovuto plasmarlo, la fusione di due esperienze e di due conoscenze ha prodotto un grande risultato, sì un grande risultato. Lui si merita tutto questo successo.

(6 giugno 2019)





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