Beni confiscati, così il decreto sicurezza favorisce la mafia
Mariano Di Palma
Nel provvedimento si stabilisce che le proprietà sequestrate alla criminalità vengano riassegnate al “miglior offerente”, ovvero spesso gli stessi mafiosi. Anziché sostenere il riuso sociale si punta quindi a fare cassa su un patrimonio pubblico, derivante dalla restituzione ai cittadini di un maltolto. La logica del libero mercato colpisce come una clava il principio del valore della cooperazione.
La storia del movimento antimafia è lunga, quasi quanto quella delle mafie. Negli anni abbiamo conosciuto questo movimento con diversi nomi: lotta per la terra, per il lavoro, per la libertà dei braccianti e degli operai di fine ‘800 e inizio ‘900; l’abbiamo poi ritrovato nelle vertenze politiche e sociali del Mezzogiorno durante il secondo dopoguerra. Sindaci e consiglieri comunali, giornalisti, uomini e donne di partito, uomini e donne di chiesa, preti, sindacalisti, attivisti: tante, troppe persone, hanno perso la vita per denunciare, opporsi, reagire alla violenza del potere mafioso nei territori, soprattutto del Sud Italia. Quel sangue nelle strade sparso dalle guerre di camorra negli anni ‘80 mobilitò una giovane generazioni di studentesse e studenti in Campania; la forza delle idee e la schiena dritta di tanti magistrati in Sicilia consentì di sviluppare quei processi che hanno palesato potere, affari, intrecci, relazioni, violenza spietata dei mafiosi.
Il movimento antimafia si fa un movimento civile e di popolo e, del resto nella storia, ogni volta che l’impegno diventa collettiva è sempre generativa di idee straordinarie e di cambiamento. È così che nel 1995 più di un milione di cittadini firmò una petizione popolare, promossa da una rete di associazioni appena nata di nome Libera, perché il Parlamento italiano approvasse una legge sul riuso sociale dei beni confiscati alle mafie e ai corrotti. La “spinta popolare” fu così forte che la legge venne approvata, come raramente accade in questi casi. Il manifesto pubblicato nel 1996, a seguito dell’approvazione della legge, diceva a caratteri cubitali: la mafia restituisce il maltolto. Quella proposta di legge era il modo concreto per trasformare, in esperienza civile e sociale, quei beni che iniziavano da diversi anni ad essere sequestrati e confiscati ai mafiosi grazie alla legge Rognoni – La Torre (1982), approvata pochi mesi dopo l’omicidio di Pio la Torre, onorevole siciliano del Pci. La legge 109/96 non è un semplice atto legislativo: è una fra le più importanti conquiste democratiche, il risultato più importante della lunga storia del movimento antimafia.
La legge sul riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie rappresenta una novità fondamentale sul piano del contrasto alle organizzazioni criminali. Le mafie non sono semplicemente un problema di sicurezza, ma un potere economico, un fenomeno sociale e culturale e quindi il contrasto non può essere più esclusivamente di tipo repressivo, ma deve organizzarsi e sedimentarsi nella società un modello di potere, di economia, di vita radicalmente alternativo all’oppressione mafiosa. La legge 109/96 individua questa possibilità nella forma del riuso sociale: in questo modo è possibile determinare un riscatto civile, costruire opportunità di sviluppo, attivare una controtendenza economica e culturale sui territori ad alta densità criminale. Una legge così importante da diventare modello anche sul piano europeo nel contrasto alle mafie, tanto che nel 2014 viene varata la Direttiva 2014/42/UE, ispirata ai principi della 109/96.
Quando attraverso lo strumento della decretazione di emergenza si approva il dl 113/18, cosiddetto decreto sicurezza o decreto Salvini, si sancisce un’inversione di rotta rispetto al percorso fatto dalla legislazione antimafia dal 1982 ad oggi. Basta leggere il decreto per accorgersene e confrontarlo con la legge 109/96. La vendita è effettuata al miglior offerente è un principio completamente differente dal riutilizzo pubblico e sociale. La legge prevedeva già la vendita come extrema ratio e configurava alcuni soggetti specifici a cui effettuarla nel caso in cui non si riuscisse a destinare i beni confiscati alle mafie. Oggi la vendita invece sarà possibile effettuarla seguendo il criterio del libero mercato, della migliore offerta, che non nulla ha a che vedere con l’idea di riscatto che è insita dentro un progetto sociale. I pericoli sono molteplici leggendo a fondo il decreto. Innanzitutto le modalità di vendita. Il decreto sicurezza rimanda alle norme sulla contabilità dello stato in materia di vendita di patrimonio pubblico. Facendo un lavoro di ricerca accurato scopriremo che queste prevedono: per i beni con valore superiore ai 400.000 euro la vendita attraverso lo strumento dell’asta pubblica. Nel caso dei beni con valore inferiore ai 400.000 euro – parliamo, ad esempio, potenzialmente di appartamenti di centinaia di metri quadro nei centri città, di beni agricoli fino a 20 ettari – si potrà procedere attraverso lo strumento della trattativa privata. Infine i beni una volta acquistati hanno un divieto di alienazione di appena cinque anni. Basteranno dunque appena cinque anni dall’acquisto del bene confiscato perché il bene venga rimesso in vendita dal privato che lo ha acquisito.
Ad oggi i beni confiscati ancora non destinati ai comuni, in gestione all’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati (ANBSC) sono circa 16.874. Un patrimonio pubblico enorme. Se si dovesse iniziare a procedere con la messa in vendita di questi beni andremmo incontro a due rischi. Il primo è che il bene possa essere acquistato dal mafioso a cui è stato confiscato. La legge prevede controlli, ma il pericolo che prestanome dei clan possano fare operazioni simili non è una fantasia; non lo è soprattutto se consideriamo che dopo cinque anni il bene può essere rimesso in vendita dal privato che lo ha acquisito. Le maglie di controllo della legge, a quel punto, sarebbero ancora più deboli e il rischio che ritorni nelle mani dell’illegittimo proprietario sono ancora più forti. Il secondo rischio è quello di una privatizzazione di una enorme fetta di patrimonio pubblico, derivante dalle confische ai mafiosi. I beni confiscati diventerebbero un elemento per fare cassa e non per costruire occasioni di sviluppo e crescita sociale. Ad acquistare i beni potrebbero essere grandi aziende, privati immobiliari che rischierebbero di schiacciare le esperienze nascenti e perfino quelle consolidate di riuso sociale. Se qualsiasi miglior offerente può spendere sul mercato il valore sociale di un bene confiscati, o di un prodotto di un bene confiscato, la competizione del mercato rischia di spezzare il principio del riuso sociale, mandando in mille pezzi una storia straordinaria. A quel punto a fare la differenza non saranno più i progetti sociali, le intelligenze, le innovazioni, ma le risorse e le somme investite; e tra un gruppo di giovani che vuole costruire una piccola cooperativa sociale e una grande azienda su questo terreno non ci sarebbe più partita.
Infine le procedure di vendita rischierebbero di essere più veloci e convenienti. Mentre la destinazione di un bene confiscato ad un ente locale impiega tempo ed energie, la vendita sarebbe uno strumento più veloce e più conveniente. Il dl Salvini prevede infatti che il 20% dei proventi della vendita dei beni sia destinato all’ANBSC e che il 30% di queste risorse sia utilizzato per la contrattazione integrativa del personale. Sia chiaro: l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati ha bisogno di personale e risorse. È una piccola struttura che gestisce un patrimonio enorme. Tuttavia stabilire il criterio dell’auto-sussistenza, funzionale tra l’altro ad aumentare i salari, è un meccanismo chiaramente politico per spingere l’Agenzia a mettere in pratica la nuova normativa sulla vendita.
Perché difendere il riuso sociale dei beni confiscati?
Il dibattito aperto attorno ai beni confiscati è più grande di quello che viene percepito generalmente dall’opinione pubblica. C’è grande interesse attorno a questo enorme patrimonio pubblico. Basti pensare che il presidente dell’Eurispes due mesi fa, promuovendo un dibattito sul futuro dei beni confiscati, ha asserito: “l’enorme patrimonio accumulato con le confische dei beni della criminalità organizzata e delle mafie deve essere messo a frutto e gestito con criteri manageriali, come si farebbe con una azienda o un insieme di aziende, facenti capo ad un unico soggetto finanziario. Insomma, una vera e propria holding”.
Questa holding in virtù di un capitale sociale, che il presidente dell’Eurispes ipotizza si aggiri attorno ai 30 miliardi di euro, sarebbe più grande addirittura di Eni, Enel, Assicurazioni Generali, Intesa San Paolo, Poste Italiane e Leonardo messi insieme. Insomma la privatizzazione non è solo una paura o un’ipotesi, ma si agita nel dibattito pubblico e la normativa attuale sembra aprire la strada a questa direzione. La storia invece del riuso sociale dei beni confiscati è tutt’altra e andrebbe valorizzata e moltiplicata. Gli ultimi ventitrè anni di azione dell’antimafia sociale sono, con tutti anche i suoi alti ed anche i suoi bassi, indubbiamente una pagina importante nel nostro Paese. Non solo parole, ma anche esperienze concrete e tangibili. Vediamo i numeri: sono circa 800 le realtà che riutilizzano beni confiscati, per un totale di diverse migliaia di particelle catastali, censite dalla rete di Libera all’interno del portale Confiscatibene.it. Circa 226 sono le realtà produttive tra cooperative sociali e esperienze di innovazione, welfare e partecipazione che hanno reso i beni confiscati luoghi in cui creare nuove opportunità di lavoro. Il resto sono divisi soprattutto tra associazioni, fondazioni, enti pubblici, sedi scout, enti di formazione, scuole, enti ecclesiastici.
Certamente 800 realtà possono sembrare ancora poca cosa rispetto a decine di migliaia di beni confiscati ancora non destinati o riutilizzati. Tuttavia la domanda è un’altra da porsi: ma è davvero finita qui? Davvero sono solo 700-800-1000 le esperienze di riuso sociale dei beni che si possono costruire in Italia? Prima di metterli in vendita, prima di gettare la spugn
a, lamentandoci che i beni immobili sono fermi da anni a marcire inutilizzati, siamo sicuri che tutti gli attori abbiano fatto il necessario per il loro riutilizzo? I beni confiscati sono presenti in tutta Italia, da Nord a Sud. La Lombardia è la quarta regione per numero di beni confiscati. È il segnale che le mafie sono un problema nazionale e non solo meridionale.
La maggior parte dei beni è nel Mezzogiorno tra Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. Siamo sicuri che non si possa immaginare una politica pubblica di riuso di quelle migliaia di beni? Siamo sicuri che in territori in cui è forte ancora l’emigrazione giovanile verso Nord, in cui la disoccupazione giovanile sfiora e supera spesso il 50% non sarebbe giusto programmare politiche di nuova occupazione, attraverso la cooperazione sociale sui beni confiscati? Si potrebbero creare migliaia di posti di lavoro basati sull’agricoltura sociale, sull’innovazione, sulla ricerca tecnologica, su nuovi insediamenti produttivi, su modelli di welfare dal basso, di economia civile. Si potrebbero migliorare e generare nuove occasioni di welfare a partire dal diritto all’abitare per finire all’accoglienza. La verità è che non si è fatto abbastanza, non si è avuta una visione pubblica e ora si rischia di scaricare l’opportunità avuta, trasformandola in un problema di gestione. La lotta alle mafie non può ridursi ad un’azione repressiva. Le mafie non scompaiono solo con gli arresti, si rigenerano sempre se non c’è un tessuto economico e sociale nuovo, credibile, alternativo. Isaia Sales nel suo ultimo libro Storia dell’Italia mafiosa scrive che “negli Stati moderni nessuna forma di potere, soprattutto se violento, può affermarsi, consolidarsi, durare tanto a lungo se non è in relazione permanente con il potere ufficiali, costituito, istituzionale. […] Se le mafie, quindi, durano da due secoli, ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato con esso.”
Il rischio continua ad essere questo: fin quando non si capirà cosa sono le mafie, perché sono nate, quali sono i rapporti, i legami, gli intrecci, ridurremo sempre il loro contrasto ad un’azione di ordine pubblico. Quando sceglieremo invece la strada della Liberazione del Paese dall’oppressione mafiosa e della corruzione inizieremo a costruire le condizioni culturali, economiche e sociali in quei territori, in quei quartieri che hanno subito il peso della violenza mafiosa, che hanno pianto sui corpi delle donne e degli uomini a loro cari, perché ritorni la giustizia, la dignità e la libertà. Ce lo chiedono le tante, troppe vittime innocenti delle mafie e a noi tocca continuare, con memoria ed impegno.
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