Berlinguer, il santino che se ne fa oggi è ipocrita e trasformista

Giorgio Cremaschi



L’11 giugno 1984 moriva Enrico Berlinguer, dopo quattro giorni di agonia. Era stato colto da un ictus devastante in piazza a Padova, mentre svolgeva un comizio per le elezioni europee. E soprattutto mentre continuava senza risparmio la sua lotta contro il decreto, con cui il governo di Bettino Craxi aveva tagliato di quattro punti la scala mobile dei salari, il meccanismo automatico, uguale per tutto il mondo del lavoro, che adeguava i salari all’inflazione.

Oggi sembra fantascienza se si pensa ai lavoratori, soprattutto precari, soprattutto giovani. Ma allora il lavoro era a tempo indeterminato e i salari aumentavano con l’aumento dei prezzi e con quello dei profitti. Troppo per i padroni, la finanza, il potere che volevano portare in Italia ciò che Reagan stava realizzando negli USA e la signora Thatcher in Gran Bretagna: il liberismo, la distruzione dei diritti del lavoro, la dittatura del mercato.

Le classi dominanti italiane volevano la resa dei conti con il movimento operaio e le conquiste sociali del paese, per questo avevano anche iniziato ad usare la costruzione europea, la finanza globale e la moneta. Nel 1981 Andreatta e Ciampi avevano deciso di separare Tesoro e Banca d’Italia, costringendo lo stato a ricorrere al finanziamento di mercato per una parte delle sue spese, quando prima esse venivano assorbite dalla banca centrale. La servitù attuale del debito pubblico cominciò allora.

Nell’autunno del 1980 il sindacato ed i lavoratori erano stati sconfitti alla FIAT, ma il movimento operaio conservava ancora forza e diritti: la distruzione della scala mobile dei salari fu una picconata decisiva a tutti e due.

Enrico Berlinguer aveva drasticamente cambiato linea rispetto alle scelte moderate del PCI degli anni 70. Allora anche la situazione internazionale aveva spinto il PCI a quelle scelte. Nel 1973 il golpe di Pinochet contro Allende in Cile, con lo sfacciato sostegno degli USA, aveva stabilito un pesante ricatto su tutte le sinistre occidentali. O state buoni o vi facciamo fuori, era il messaggio del Dipartimento di Stato USA.

Berlinguer aveva allora lanciato il cosiddetto “compromesso storico”, cioè l’accordo con la DC. Non basta il 51% per governare, veniva affermato. Con questa scelta nacquero la politica di unità nazionale, l’austerità, il moderatismo sindacale. Berlinguer era al centro di questa politica, assieme a Giorgio Napolitano e a Luciano Lama. Questa politica portò ad una drammatica rottura con i movimenti studenteschi e giovanili del 77/78 e anche tra la classe operaia registrò crescenti dissensi. C’è una vignetta di Forattini su La Repubblica del dicembre 1977 dove un Berlinguer infastidito prende il the, mentre dalle finestre chiuse rimbalza il clamore dei metalmeccanici che scioperano contro il governo di unità nazionale. Sette anni dopo l’immagine di Berlinguer era opposta, in una fotografia questa volta: in piazza con in mano l’Unità mentre si svolge una gigantesca manifestazione operaia contro il decreto Craxi.

In sette anni Enrico Berlinguer da statista unitario era diventato un capopopolo settario che distruggeva l’unità della sinistra e la credibilità del sindacato confederale.

Cosa era successo? Che Berlinguer aveva radicalmente cambiato linea sulla base di una onesta valutazione dell’esperienza di unità con la DC. Una serie di sconfitte amministrative pesanti, pesanti ma certo non grandi come quelle attualmente subite dai cinquestelle, portarono Berlinguer a considerare impossibile la prosecuzione dell’accordo politico con la DC, e, pur avendo contro Napolitano e gran parte della CGIL, nel 1979 il segretario del PCI ruppe con la politica di unità nazionale. E lo fece partendo da due questioni che si sarebbero rivelate strategiche fino ai giorni nostri. Il PCI disse no allo SME, l’accordo monetario che preparava l’Euro, e disse no all’installazione di nuovi missili USA, che rilanciava il ruolo aggressivo della NATO.

Poi Berlinguer andò ai cancelli della FIAT affermando che il PCI avrebbe sostenuto una eventuale occupazione della fabbrica, dichiarò l’alternativa del PCI alla DC, contestò quella che allora appariva come scarsa democrazia e burocratizzazione dei sindacati ed infine andò allo scontro frontale con Craxi. Non solo sulla questione morale, ma sulla QUESTIONE SOCIALE, anzi sulla questione operaia. Berlinguer divenne il leader più amato dagli operai perché disse no al taglio dei salari. E disse questo suo no a Craxi, a Cisl e Uil, a tutto il mondo delle imprese comprese le cooperative, agli stessi tentennamenti della CGIL, paralizzata dalla minaccia di scissione dei socialisti.

Tutto questo oggi viene cancellato e la storia politica di Berlinguer viene ridotta ad un santino ipocrita che serve a fare prediche di buon costume ai politicanti attuali.

Vogliamo ricordare che nel congresso di Verona del PSI Berlinguer venne colpito da una marea di fischi? Fischi che con ancora più rabbia furono restituiti a Craxi dal milione di persone presente ai funerali del segretario del PCI?

Tra Craxi e Berlinguer c’era odio, come tra De Gasperi e Togliatti. Quanta ipocrisia oggi per coprire il trasformismo imperante!

Negli anni settanta essere berlingueriano era inteso come sinonimo di moderato e migliorista. Negli anni 80 all’opposto berlingueriano era quasi sinonimo di settario operaista. Enrico Berlinguer ha avuto la grande capacità di cambiare radicalmente politica, e per questo chi oggi usa solo una parte della sua vita per cancellarne l’altra, l’offende.

Io non sono mai stato berlingueriano, ma quando una mattina del giugno del 1984 sentii alla radio che Berlinguer stava morendo, provai uno dei dolori più intensi della mia vita, assieme a milioni di operai che anche in quei giorni lottavano contro Craxi, i suoi decreti e tutto quello che si stava preparando, e che subiamo oggi.

(15 giugno 2019)



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