Berlusconi, Bertone e la mostra “Il Potere e la Grazia”
Riceviamo e pubblichiamo questo intervento sulla mostra “Il Potere e la Grazia – I Santi Patroni d’Europa”, a Roma a Palazzo Venezia fino al 10 gennaio 2010.
di Basilio Buffoni
L’immagine del Cardinale Bertone, Segretario di Stato vaticano, e di Silvio Berlusconi, presidente del consiglio, insieme ad inaugurare la mostra “Il potere e la gloria” a palazzo Venezia a Roma, rimane nella mente di molti. Era il giorno della sentenza della Consulta contro il lodo Alfano.
E’ un’immagine che ha qualcosa a che fare con la mostra che i due inauguravano? Una mostra sui Santi Patroni d’Europa, come recita in tutte maiuscole il sottotitolo della manifestazione. Entrambi non sono santi: Berlusconi per propria ammissione, Bertone se non altro per carenza di almeno un requisito fondamentale, l’aver concluso il proprio cammino terreno.
Ma probabilmente l’immagine è appropriata; vediamo come.
Il tema è ambizioso e complesso: il rapporto tra grazia e libertà, la sacralità del potere e la sua desacralizzazione, a cui anche il messaggio cristiano contribuisce, il potere della santità, che risiede nell’intercessione tra gli uomini e Dio, il rapporto tra culto ed immagini, il contributo del cristianesimo e della santità all’identità delle nazioni europee e dell’Europa stessa.
L’ambizione è sottolineata dalla numerosità, fino alla ridondanza, degli apparati organizzativi: un comitato scientifico di tredici qualificatissimi esperti, un comitato d’onore di 44 onorevolissimi componenti, una fitta colonna del catalogo dedicata ai ringraziamenti. Di europeo non c’è molto, neppure tra i prestatori delle opere: quasi tutte istituzioni italiane, alcune ungheresi e polacche, e la Tret’jakov di Mosca.
Come svolge la mostra il tema che abbiamo detto? La mostra si struttura innanzitutto in una sequenza di modelli di santità, legati ai tempi ed alla caratteristiche che storicamente viene ad assumere il rapporto tra potere e grazia, tra politica e fede.
Si parte dai martiri: quei cristiani contro cui il potere politico usa fino in fondo la propria forza, fino alla violenza dell’assassinio e della condanna a morte; santi la cui vicenda personale è dominata dalla testimonianza conclusiva e fatale della propria fedeltà alla grazia.
Sono i santi dei primissimi secoli, quando non a torto il potere imperiale vede nell’annuncio evangelico una forza sovvertitrice e rivoluzionaria.
Le raffigurazioni di martirio scelte per la mostra sono pacate e curiosamente poco violente: Giovanni Battista non è decollato, ma fiero e robusto predicatore nel dipinto di Tiziano, San Paolo di Domenico Beccafumi è assiso in trono, con la spada ed il libro; l’eroico, ma anche florido ed elegantissimo San Floriano è ritratto nel sereno commiato dai parenti e nella serena accettazione della morte per annegamento.
Quasi che la violenza del potere contro la grazia debba restare comunque fuori dagli schermi, non essere mostrata del tutto, non urtare la sensibilità e la devozione di chi osserva.
Il problema è che per tutta la mostra non si può fare a meno, anche dopo i martiri dei primi secoli, di ritrovare martiri in tutte le epoche successive. Anche se cambiano le categorie, l’uccisione dei profeti e dei testimoni della fede rimane una costante: l’assassinio di Tommaso Becket nella cattedrale, lo squartamento di San Stanislao, raffigurato come aggraziata leggenda gotica nell’altare portatile di legno di tiglio che viene da Cracovia, il ricordo di Tommaso Moro nella copia del ritratto di Holbein che viene da Palazzo Barberini.
Ma sin dai tempi più antichi la santità è anche altro: è ad esempio la (misurata) generosità di San Martino, che divide il proprio mantello, per darne una parte (limitata) al povero (e tenersi, nell’immagine del maestro svevo in mostra insieme ad altre due versioni dello stesso episodio, la molto più ricca tunica di damasco dorato).
E la santità è anche quella di monaci ed eremiti – il secondo modello di santità che viene proposto – che rifiutano in modo radicale non solo il potere, ma anche la convivenza civile e la commistione con il secolo: il potere però li cerca, come Totila ed i gentiluomini della sua corte in una delle scene della vita di san Benedetto descritta da Neroccio di Bartolomeo, o li assedia e li tormenta, come i diavoli che tentano sant’Antonio nell’immagine terribile del Parentino.
Il rapporto con il potere diventa più complesso ancora quando incontriamo quelli che vengono definiti di Cavalieri di Dio: i santi guerrieri leggendari come san Giorgio e san Michele, impegnati contro le popolazioni pagane, i santi patroni della Reconquista contro i musulmani, primo fra tutti san Giacomo; fino ad arrivare a Giovanna d’Arco e ad Alexsandr Nevskij, impegnati in conflitti di cristiani contro cristiani.
Certo la serenità del San Giorgio di Mantegna, che si staglia contro l’educato paesaggio veneto, è anche e soprattutto metafora della vittoriosa lotta contro il male, ma le pose eroiche dei santi condottieri provocano qualche disagio. Anche se diversi di essi – il san Giacomo del Tiepolo, il san Floriano del maestro di Uttenheim, ad esempio – hanno uno sguardo non privo di malinconia e di dubbio.
Ancora più complesso parlare e mostrare i santi re e principi: soprattutto quando dai re che divengono santi malgrado la loro carica, o rinunciandovi, o morendo martiri nell’opera di conversione dei propri popoli, si passa ai re che vengono canonizzati senza martirio, in virtù dell’esercizio del potere, come, primo tra tutti, santo Stefano re d’Ungheria; e poi san Ladislao, e Luigi IX di Francia, ritratto – forse meglio commemorato – da El Greco.
Per uscire dalla difficoltà in mostra in questa sezione parecchi, bellissimi, cortei di re magi, che probabilmente re non erano, fino ad arrivare a Luigi di Francia che, come anacronistico “re magio”, adora la Sacra Famiglia tra angeli musicanti e che spargono rose.
L’ottica complessiva della mostra è un’ottica tridentina: anche se il concilio di Trento non è mai citato esplicitamente, le opere scelte sono in grande maggioranza della seconda metà del ‘500, direttamente influenzate dalle indicazioni del concilio, anche di tipo artistico ed espressivo.
In questo modo creando un (doppio) anacronismo: le immagini dei santi dei primi tempi della cristianità, del medio evo, anche dell’umanesimo, sono mostrate attraverso il filtro dell’ideologia tridentina, e con la inevitabile ed evidentissima distanza tra i tempi in cui i santi citati sono vissuti e la sensibilità cinquecentesca. Ed un secondo anacronismo, quello di privilegiare una chiesa potente in mezzo ai potenti, una chiesa ricca – non solo di grazia, ma soprattutto di beni terreni e di potere -, rispetto alla chiesa di prima del concilio tridentino e alla chiesa del Vaticano secondo, che in questa mostra non appare in alcun modo.
Il rapporto tra fede cristiana e costruzione delle nazioni, che è stato centrale nella concezione di chiesa di Giovanni Paolo II, è al centro della mostra e ne costituisce forse il più evidente elemento di continuità; ma sembra ispirare più una ricerca di completezza (non deve mancare neppure un patrono nazionale), che costituire un filo rosso per la lettura delle opere; non c’è un tentativo di contestualizzazione, di spiegazione di come un determinato santo sia diventato il punto di riferimento di un culto
, e magari di una identità nazionale: c’è Giovanna d’Arco accanto a santa Elisabetta d’Ungheria, san Francesco d’Assisi e san Floriano, senza specifico approfondimento.
Alcune opere alludono a quando la grazia – o quello che in modo quasi automatico e senza mediazioni è considerata la sua espressione sulla terra, la chiesa cattolica – coincide con il potere: un tema che forse non si voleva porre all’attenzione del pubblico, ma che inevitabilmente emerge dalle opere, soprattutto da opere scelte secondo i criteri e le linee interpretative che si sono illustrate: ad esempio la tavola di Giovanni di Paolo che mostra santa Caterina a confronto con il papa Gregorio XI, sotto l’attenta verbalizzazione di due dignitari alquanto sospettosi.
E’ una grande mostra, in termini di dimensioni: mancano certamente molte cose che ci si sarebbe potuti attendere, ma in altri casi c’è una ridondanza inspiegabile. Giusto che ci siano molti san Francesco, ma perché tutti, ben quattro, nell’episodio delle stimmate? e non invece a confronto con i poteri del suo tempo e della sua vicenda esistenziale, il padre, il papa, il sultano, episodi molto più direttamente connessi al tema del rapporto tra grazia e potere? O nella testimonianza dell’assoluta povertà (e della perfetta letizia)? Ma le stimmate sono evidentemente in qualche modo considerate un marchio della grazia, una certificazione dall’alto della predilezione divina e dell’ortodossia dello stimmatizzato.
Manca del tutto uno spazio ed una riconoscibilità della vicenda e del portato della Riforma: certo alcuni santi restano punti riferimento di paesi riformati, che hanno i loro patroni non diversamente da quelli a maggioranza cattolica, ma il discorso non è in alcun modo sviluppato e tematizzato: lo sintetizza un quadro del tutto devozionale di sant’Olav di Norvegia, ritratto in piedi sul cadavere di un drago dalle sembianze curiosamente africane, ritratto da un poco noto artista polacco di fine ‘800.
Al contrario è evidente, ed in qualche caso al punto da essere difficilmente integrabile nei diversi passaggi in cui la mostra si snoda, la presenza della sensibilità orientale, dell’ortodossia: dalla Madonna della tenerezza di Ivan Michajlov, proveniente dalla galleria Tret’jakov di Mosca, alle molte icone di San Sergio e san Nicola.
La qualità delle opere è ineguale, e lo si è detto, ma alcune sono bellissime. Come spesso accade, ciò che è veramente bello è spesso nascosto nei particolari: il paesaggio veneto all’altezza del polpaccio del San Sebastiano tizianesco, lo sguardo sperso e disperato di Pietro inchiodato a testa in giù, che sembra domandarsi ancora una volta a cosa sia servito tutto quanto – e non trovare risposta, nella grande pala del Guercino; le ali rosse che simboleggiano la protezione di Maria sull’umanità nella tavoletta dalla galleria Tret’jakov; il buio mosso da fantasmi di oggetti e di forme alle spalle del san Giovanni di Caravaggio; il polittico della bottega di Lorenzo Veneziano in apertura della prima sezione, che sembra alludere ad una Pentecoste (episodio assente tra le opere in mostra).
La mostra si chiude con due citazioni chiave, seppure tra loro discordanti, e scarsamente sostenute dai contenuti del resto della mostra: il <date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che di Dio> nella interpretazione, viene da dire, di Bernardo Strozzi, con il suo Cristo vestito di rosso, e gli interlocutori che – anche nella fisionomia – alludono agli attenti mercanti genovesi con cui il pittore aveva a che fare. La mostra invece non cita quel geniale cortocircuito tra potere e grazia che fu la proclamazione della Madonna non solo a patrona ma a Regina di Genova, e che fruttò alla Repubblica la dignità regale nella gerarchia diplomatica di antico regime.
E – seconda citazione – il rifiuto di Ambrogio di perdonare, a meno di una pubblica penitenza, l’imperatore Teodosio, colpevole di strage: con l’imperatore che si curva di fronte al suo interlocutore, senza ancora inchinarsi, ma schiacciato dalla superiore autorità, dallo sfarzo della pianeta, dalla risolutezza del gesto.
Due poteri uno di fronte all’altro, non diversi nel loro modo di esprimersi, anche se il potere ecclesiastico rivendica con successo la superiorità morale; non vi è dubbio circa quale sia il potere superiore, per come ci mostra l’episodio Van Dyke, traducendo le indicazioni del committente: vince la chiesa, la chiesa cattolica, identificata con la grazia quasi per definizione. Che nel vincere assume le stesse sembianze del potere, e non se ne distingue se non per la foggia degli abiti; e poco altro.
Il commiato ci ricorda qualcosa di questo altro: alcune poco appariscenti vetrine ricordano i santi patroni d’Europa: Benedetto, e la sua regola, ricordato da un manoscritto dell’undicesimo secolo, in cui il profilo del grande monaco fluttua sulla pagina, descritto da una linea tenue ed incancellabile; Cirillo e Metodio, evangelizzatori degli slavi, e inventori di una delle tre grafie ancora in uso in Europa – per l’appunto i caratteri cirillici; santa Caterina da Siena, che imparò a leggere, ma non a scrivere, eppure dettò abbastanza e con tale altezza,da essere proclamata dottore della chiesa; Edith Stein – santa Teresa della Croce, uccisa ad Auschwitz, ricordata in mostra dalle immagini cinematografiche.
A segnalarci due cose, forse correlate: l’ineguagliabile capacità simbolica che la chiesa conserva, e che esprime, nel corso del tempo, in scelte come queste, relative ai patroni d’Europa, che riescono a sintetizzare un discorso di grande complessità, anzi ad evocare l’incrocio di alcuni grandi discorsi, di alcune fondamentali narrazioni.
E il legame, profondo, tra affermazione della fede e parola, parola detta e parola scritta (ed immagine cinematografica): una mostra di grandi quadri si chiude con alcune pagine scritte, e neppure tutte di eccelsa qualità estetica; ma la parola è in realtà al centro del messaggio cristiano, e quest’ultimo passaggio lo ricorda.
Bertone e Berlusconi si muovono sullo stesso piano, ed insieme inaugurano la mostra: ma il cardinale non ha dubbi sulla superiorità morale che rappresenta, e sulla superiorità del proprio modo di usare la parola, e i linguaggi.
Quello che la mostra non dice è l’irriducibilità del messaggio evangelico al potere, e la radicale, assoluta rinuncia del Cristo al potere terreno.
(30 ottobre 2009)
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