La legge sulle Disposizioni anticipate di Trattamento (DAT, o Testamento Biologico) è stata approvata il 14 dicembre del 2017 ed è entrata in vigore il 31 gennaio 2018.
Le innovazioni di grande rilievo sono tre:
1) Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.
2) Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.
3) Nei casi di pazienti con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente.
La legge prevede anche due obblighi per il Ministero della Salute, le Regioni e le ASL:
1) “Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della salute, le regioni e le aziende sanitarie provvedono a informare della possibilità di redigere le DAT in base alla presente legge, anche attraverso i rispettivi siti internet”.
2) “Il Ministero della salute trasmette alle Camere, entro il 30 aprile di ogni anno, a decorrere dall’anno successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, una relazione sull’applicazione della legge stessa”.
Nella legge di bilancio 2018 è stato fissato l’obbligo, per il Ministero, di istituire una Banda Dati nazionale delle DAT, con lo stanziamento di un milione di euro per coprire i costi della operazione (altri 400 mila euro l’anno a decorrere dal 2019 sono stati stanziati nella legge di bilancio 2019).
Dunque, grazie a questa legge tutti i cittadini possono rifiutare ogni terapia – comprese la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, considerate da molti non come terapie ma come “sostegni vitali” (da cui il caso Englaro e, in Francia, il caso Lambert) – e i medici possono legalmente ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore (quella che fino ad oggi è stata praticata di fatto, da cui la dicitura “eutanasia clandestina”).
In sintesi, la legge riconosce ai cittadini un nuovo e fondamentale diritto, sfuggendo a situazioni drammatiche come quelle di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro.
Il problema è ora quello di rendere effettivo questo diritto, con la compilazione e il deposito delle DAT da parte di tutti i cittadini.
Perché così poche DAT? Che fare per cambiare la situazione?
Uno dei motivi principali per cui solo pochissimi cittadini hanno depositato fino ad oggi le proprie DAT sta nella mancanza di informazione sia al livello nazionale sia a quello regionale e comunale.
Il Ministero della Salute non ha pubblicizzato in alcun modo le disposizioni della legge, non ha presentato al Parlamento la relazione annuale sulla sua applicazione né ha creato la Banca Dati nazionale delle DAT, malgrado due stanziamenti per coprire i costi della operazione: un milione di euro nella legge di bilancio 2018, 400 mila euro l’anno a decorrere dal 2019 nella legge di bilancio 2019.
Per questa ragione, il 30 aprile l’Associazione Luca Coscioni ha presentato una diffida ad adempiere e contestuale messa in mora del ministro Grillo ad oltre nove mesi dal termine fissato dalla legge sulle DAT per l’istituzione del registro nazionale (il 30 aprile scadeva anche il termine per la presentazione al Parlamento della relazione annuale sulla attuazione della legge).
Gli italiani che compilano e depositano le proprie DAT sono così pochi non solo per la mancanza di informazioni da parte del governo e degli enti locali – certamente una delle cause – ma anche per altre ragioni su cui è giusto riflettere.
Nei giorni scorsi il quotidiano EL PAIS ha dedicato una inchiesta a questo problema, rivelando che in Spagna – pur essendo la legge sulle DAT in vigore dal 2002 – solo 300mila persone (lo 0,6% della popolazione) – ha compilato e depositato le proprie Disposizioni. Intervistando molti medici ed esperti, EL PAIS ha evidenziato altre cause di quello che definisce “il fallimento” delle DAT: la negazione culturale della morte ( particolarmente accentuata in una società vitalista e “giovanilista”), l’abitudine di affidare le scelte per il proprio fine vita ai familiari, una componente psicologica scaramantica, un minimo di complessità burocratica (per la validità delle DAT servono due testimoni), l’opposizione dei medici, con la loro visione “paternalistica e onnipotente”. Fra le possibili soluzioni per aumentare il numero dei cittadini che compilano le DAT, EL PAIS sottolinea il ruolo che dovrebbero avere i medici di famiglia, che dovrebbero essere tenuti ad informare i loro pazienti della esistenza delle DAT e dei loro vantaggi ed eventualmente aiutare i pazienti nella compilazione del biotestamento.
Ma anche negli USA, dove circa il 30% dei cittadini ha compilato le DAT, ci sono poi problemi di attuazione pratica delle Disposizioni e resistenze della classe medica. E un paese molto avanzato in tema di diritti, come la Francia, prevede le DAT, che però non hanno valore vincolante per i medici.
Per l’Italia il primo problema è quello del ruolo di informazione che il Ministero della Sanità dovrebbe svolgere, adempiendo a quanto stabilito dalle leggi in materia. E lo stesso ruolo andrebbe affidato – se necessario con una “leggina” ad hoc – a Regioni e Comuni.
Riterrei però giusto e necessario valutare la fattibilità giuridica e organizzativa di una proposta innovativa: quella di rendere obbligatoria per tutti la formulazione delle DAT o almeno la indicazione di un fiduciario che possa decidere nelle situazioni in cui la persona che lo ha scelto non sia in condizioni di esprimere la propria volontà sul proseguire o meno determinate terapie.
Come minimo – qualora l’obbligatorietà non fosse possibile per ragioni giuridiche o per considerazioni politiche e morali – si dovrebbe stabilire che al momento del rilascio (o del rinnovo) dei documenti di identità sia richiesto al cittadino se vuole indicare un fiduciario: così come già da tempo avviene per la dichiarazione sulla volontà di donare gli organi in caso di morte.
Ma la soluzione migliore – perché raggiungerebbe la totalità (o almeno la stragrande maggioranza) dei cittadini – sarebbe il coinvolgimento dei medici di famiglia. A loro andrebbe imposto l’obbligo, quando “prendono in carico” un nuovo paziente, di chiedergli se è corrente della possibilità di formulare le proprie DAT e di spiegare sinteticamente i vantaggi del biotestamento e le modalità per formularlo; dando anche la possibilità alternativa di non formulare le DAT ma di indicare semplicemente un fiduciario. Per avere certezza di omogeneità di comportamento da parte di tutti i medici di famiglia ed anche per facilitare lo svolgimento di questo compito sarebbe opportuno che il Ministero fornisse loro due documenti: uno (di 20-30 righe) di sintesi della legge sul biotestamento; l’altro, un modulo tipo di DAT.
Il medico dovrebbe annotare sulla scheda sanitaria di ogni paziente il giorno in cui gli ha sottoposto le due ipotesi e – se il paziente ha deciso di indicarlo – il nome del fiduciario.
Queste informazioni andrebbero riportate sul Fascicolo Sanitario Elettronico – FSE e/o sulla tessera sanitaria, che ciascuno di noi porta abitualmente con sé.
Poiché ho accennato ai medici di famiglia, segnalo – perché mi sembra sufficiente a dare un’idea dalla totale inadeguatezza del sistema – la mia personale situazione. Il mio medico di famiglia – persona intelligente, disponibile e cortese – è un ginecologo. Lavora 11 ore a settimana, escludendo il sabato, i festivi ed anche (non mi è chiaro perché) i prefestivi. Circa due ore al giorno per cinque giorni, alternando mattina e pomeriggio. Ovviamente, le sue visite sono molto rapide (anche per la lunga fila di pazienti in sala di attesa) e si risolvono in un breve colloquio, in cui io espongo il mio problema e lui mi suggerisce o una visita specialistica o delle medicine da assumere. Molto raramente (ad esempio, in caso di forti tossi) mi visita egli stesso. Per il resto, i nostri rapporti si limitano a telefonate in cui chiedo di prescrivermi i medicinali che mi servono.
Da molti anni trascorro parte di agosto in un paesino dell’Austria (circa 1.000 abitanti) in cui il medico di famiglia funziona così:
– C’è una palazzina molto graziosa, con confortevole sala di attesa, il medico titolare, una infermiera di alta qualificazione, una segretaria/farmacista (si possono comprare in loco le medicine di uso più comune). Il medico ha una laurea in medicina generale e fa un po’ di tutto: piccole ingessature, analisi del sangue, “schizzettone” per togliere il cerume dalle orecchie ed altro. In questo modo, gli abitanti del paese vanno al pronto soccorso del più vicino ospedale (in un altro paese più grande a 10 minuti di macchina o di autobus) solo per problemi gravi, per cui non si vedono mai le scene da tregenda dei nostri ospedali).
Una riforma urgente, che si è tentata con gli “ambulatori di cure primarie”, ma che non è mai decollata. È ora di tornare all’attacco.
In attesa di sapere – il 23 settembre – cosà deciderà la Corte Costituzionale sulla questione dell’articolo 580 del codice penale (è certo che sarà la Corte visto che è quello il giorno ultimo concesso al Parlamento per deliberare in merito alla eutanasia, ed è impensabile che prima la Camera (dove è iniziato con molta calma l’esame della legge) e poi il Senato approvino una legge di così vitale importanza.
(30 maggio 2019)
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