“Se mio padre fosse stato adeguatamente sostenuto e difeso dallo Stato al cui servizio lavorava, sicuramente non avrebbe fatto quella fine”. Così, oggi, una delle figlie di Paolo Borsellino, ucciso nella strage di via D’Amelio. Una dichiarazione che poggia su alcune risultanze processuali da cui emergono chiaramente sia la condizione di isolamento del magistrato negli ultimi mesi della sua vita sia i depistaggi successivi al suo omicidio.
*, da MicroMega 3/2019
Seppi della morte di mio padre mentre ero in Indonesia, dove mi trovavo con un amico già da due settimane. Intrapresi subito il viaggio di ritorno. Non riuscii a partecipare ai funerali dei cinque agenti di scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina), ma quello di mio padre venne posticipato proprio per darmi il tempo di rientrare. Avevo 19 anni.
Nei 47 giorni che separano la sua dalla morte di Giovanni Falcone, mio padre fu impegnato in un’attività frenetica che lo tenne lontano dalla famiglia, costringendolo a restare quasi sistematicamente fuori Palermo. Era come una corsa contro il tempo. Nonostante sia stato sempre molto presente in famiglia, in quei 47 giorni i nostri contatti furono molto diversi da quelli abituali.
Non ricordo l’ultima volta che ci parlammo. Ricordo però le tante telefonate che feci dall’Indonesia, dove lui mi aveva incoraggiato ad andare, forse inconsciamente proprio per allontanarmi da eventuali pericoli.
Tuttavia non avevamo paura. Dell’attività di mio padre eravamo consapevoli ben prima del 19 luglio del 1992. Già dall’istruzione del maxiprocesso e dai primi attentati degli anni Settanta e Ottanta a Palermo, era evidente che corresse dei rischi. Il 19 luglio è stato il momento cruciale di una vita vissuta nella consapevolezza dei pericoli che quel lavoro – per come lui lo conduceva e anche per il luogo in cui lo svolgeva – comportava. Un percorso lavorativo in cui mio padre fu accompagnato da una famiglia che lo sostenne sempre, senza se e senza ma, senza chiedersi mai se fosse giusto o pericoloso. Le cose andavano fatte e basta, all’interno di un progetto lavorativo e familiare in cui eravamo tutti coinvolti volontariamente.
Se abbiamo vissuto dei sentimenti di paura, dunque, questi erano sicuramente commisurati alla situazione che ci trovavamo a vivere e non ci avrebbero mai fatto desistere dal percorso che avevamo intrapreso e che volevamo portare avanti. Non abbiamo avuto mai dei dubbi, insomma, rispetto al fatto che le cose andassero fatte e che andassero fatte proprio in quella modalità.
Il più grave depistaggio della storia del paese
Non c’è un unico motivo per cui mio padre è stato ucciso. Non è solo per la sua opposizione alla trattativa Statomafia. Individuare questa come unica causa sarebbe riduttivo. Sarebbe una semplificazione rispetto alla complessità del problema della verità. Può essere stata una delle concause, così come lo è stata l’istruzione del maxiprocesso, il quale ha portato a innumerevoli condanne e conseguentemente a un inasprimento dell’odio da parte di Cosa nostra nei confronti di coloro che ne erano stati gli artefici. Come lo è stata, certamente, l’individuazione del legame fortissimo tra mafia, politica, appalti, poteri forti e massoneria come motore di Cosa nostra.
Ho dichiarato più volte che mio padre è stato lasciato solo. In realtà non sono io a dirlo, lo dicono i fatti. Se mio padre fosse stato adeguatamente sostenuto e difeso dallo Stato al cui servizio lavorava sicuramente non avrebbe fatto quella fine. Evidentemente mio padre rappresentava quella parte sana del paese che a un certo punto ha dovuto combattere non soltanto contro la criminalità organizzata, ma anche contro una parte deviata dello Stato, quella parte che lo ha tradito. I fatti parlano da soli, perché chi doveva sostenerlo, anche in termini di provvedimenti per la sua sicurezza, è mancato al proprio compito: le carenze, da questo punto di vista, sono ormai storia.
Ed è stato lasciato solo anche da morto, essendo sotto gli occhi di tutti il grande inganno relativo alla strage di via d’Amelio, quello che viene definito come uno dei più grandi errori della storia giudiziaria del nostro paese. Se il 19 luglio del 2017 ho dichiarato: «Sono stati buttati via venticinque anni, chiedo scusa a innocenti che sono stati condannati», questo non è il frutto di una mia valutazione personale, ma deriva da una risultanza processuale, cioè dalla sentenza del Borsellino quater. Una sentenza amarissima che ha riconosciuto quello di via D’Amelio come uno dei più gravi depistaggi, se non il più grave in assoluto, della storia del nostro paese, a causa del quale uomini innocenti hanno scontato anni di carcere per un reato che non avevano commesso. Una sentenza che addirittura estingue il reato di calunnia per cui era stato condannato il falso pentito Vincenzo Scarantino, in quanto – è stato sancito – determinato a commettere il reato da coloro che lo gestivano. Cioè non solo dai poliziotti ma anche dai magistrati, considerando che, in queste indagini, i poliziotti sono, come è noto a tutti, la longa manus della magistratura.
Questa magistratura ha portato avanti per anni indagini che si sono poi rivelate fallimentari, stando alle risultanze processuali del Borsellino uno, bis, ter e quater. Del resto, non ci sarebbero stati tutti questi processi, né il riconoscimento del depistaggio commesso, se la magistratura avesse lavorato bene. Un argomento cruciale su cui è necessario far luce.
E non si tratta di opinioni, ma di valutazioni che hanno un loro riscontro in quelli che sono stati gli esiti processuali. Secondo quanto emerge dalla sentenza del Borsellino quater, dal 1994 in poi, la procura composta da Giovanni Tinebra, Carmelo Petralia, Annamaria Palma, Nino Di Matteo e Francesco Paolo Giordano non solo ha lavorato in una direzione sbagliata – come indica la svolta impressa al processo dal pentimento di Gaspare Spatuzza nel 2008 – ma si è resa protagonista di un susseguirsi di omissioni e anomalie che mi auguro possano essere oggetto di un accertamento di responsabilità, malgrado i segnali non siano purtroppo molto incoraggianti. Anche Roberto Saieva e, per un certo periodo, Ilda Boccassini parteciparono alla fase iniziale delle indagini e, accortisi del procedere anomalo della procura, prima di andare via indirizzarono due durissime lettere al procuratore. Anomalie che, a mio avviso, avrebbero dovuto essere oggetto di una denuncia più incisiva.
Innanzitutto, già dalle prime ore successive alla strage, si procedette a investire i servizi segreti di un potere d’indagine, malgrado la legge lo proibisca espressamente. Un fatto di una gravità assoluta, tanto più alla luce dei depistaggi che si sono susseguiti. Benché infatti sia a tutti noto che in un’indagine giudiziaria la parola «servizi» non possa nemmeno comparire, quella procura si avvalse immediatamente del supporto di Bruno Contrada, all’epoca numero due del Sisde. Ma anche Arnaldo La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le prime indagini sull’attentato, aveva un po’ una doppia veste: da un lato poliziotto e dall’altro al libro paga del Sisde, almeno da quanto si evince dalle testimonianze processuali. E non solo: le prime parentele mafiose di Scarantino furono illecitamente ricostruite con le informative dei servizi segreti. E ugualmente anomalo è il fatto che, secondo quanto riferito dall’allora pm Carmelo Petralia, i magistrati partecipassero a momenti conviviali accanto a persone appartenenti ai servizi di sicurezza e di informazione.
Ma la lista di anomalie è lunga. Non sono stati interrogati testimoni chiave come il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che, invece di tutelare mio padre, nascondeva nei cassetti le informative riguardanti l’arrivo in città del tritolo. Si è continuato a credere al falso pentito Vincenzo Scarantino, nonostante le numerosissime, ripetute avvisaglie circa la sua inattendibilità, continuando così a percorrere la stessa pista sbagliata. Non è stato mai fatto il confronto tra Scarantino e altri due falsi pentiti, Candura e Andriotta, che aggiustavano via via le loro dichiarazioni in modo da farle convergere in un’unica versione. Non è stato depositato nel primo processo il confronto fatto fra Scarantino e i mafiosi doc Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera, i quali non lo riconoscevano come un mafioso. Un confronto che, se fosse stato depositato già al Borsellino uno, avrebbe fatto crollare tutta l’impalcatura accusatoria.
Estremamente anomala è apparsa poi la decisione di affidare Scarantino, all’indomani del suo pentimento, al gruppo «FalconeBorsellino» diretto da Arnaldo La Barbera anziché al servizio centrale di protezione. E ugualmente anomala è stata la mancata verbalizzazione di sopralluogo con Scarantino al garage di Orofino, vale a dire il luogo dove – secondo quanto da lui dichiarato – aveva rubato la macchina che sarebbe servita per provocare l’esplosione in via D’Amelio. Ecco, di questo importantissimo sopralluogo – e stiamo parlando del furto di un’automobile impiegata per compiere una strage – non esiste un verbale. E ciò nonostante Scarantino non riconoscesse neppure l’apertura della saracinesca del garage. Già questo basterebbe a farsi un’idea di quelle che forse troppo benevolmente sono state definite anomalie. È un po’ come se un medico, dopo aver operato il papa, non stilasse un referto. Senza contare che nessun magistrato ha ritenuto di dover essere presente in un momento così significativo. E potrei andare avanti ancora a lungo.
‘Ho ancora fiducia nello Stato, nonostante tutto’
Oggi, poi, alla mia famiglia si chiede non soltanto di evidenziare aspetti che avrebbero dovuto invece essere messi in luce dalla stampa e dall’ordine stesso dei magistrati, ma anche di svolgere quell’attività di valutazione e di analisi che sicuramente non le compete. Non spetta alla famiglia Borsellino valutare se si sia trattato di dolo, colpa, colpa grave, negligenza. È compito della magistratura e del Csm, per quanto non mi risulti che a oggi sia stato adottato alcun provvedimento in tal senso. È chiaro che io mi sia fatta un’idea, ma non sono abituata a sovrappormi a chi per dovere è chiamato a elaborare tali valutazioni.
Quando la mia famiglia ha preso la parola, lo ha fatto sempre sulla base di prove certe. Quando ha parlato di depistaggio, lo ha fatto perché le sentenze l’hanno sancito. Ma se sulla questione del perché ciò sia avvenuto debba esserci un’evoluzione di tipo processuale, è agli organi preposti che spetta il compito di decidere. E intanto su questa strada non è stato fatto ancora un passo.
Mi viene chiesta anche una valutazione del processo sulla trattativa Statomafia di cui si sta occupando anche il pubblico ministero Nino Di Matteo. Premesso che qualsiasi procedimento giudiziario finalizzato a far emergere la verità su una delle pagine più buie della storia del nostro paese non può che essere sostenuto, non intendo esprimere opinioni su un processo ancora fermo al primo grado di giudizio. Sicuramente non ho un’opinione positiva dell’operato dei magistrati prima nominati: non mi sembra che la procura che ha lavorato dal 1994 in poi abbia dato prova di capacità investigativa, se, dopo tutti questi anni, si può parlare solo di depistaggi e di errori giudiziari.
Malgrado tutto, però, ho ancora fiducia nello Stato e nella magistratura. Perché la fedeltà allo Stato e il rispetto delle istituzioni costituiscono la principale eredità morale di nostro padre. E, sicuramente, non saremo noi a disattenderla. Mio padre aveva compreso che anche all’interno della magistratura vi era una situazione malata, ma si è ostinato fino alla fine, con la sua dedizione e con il suo esempio, a dimostrare come questa fosse in realtà un’altra cosa.
E ho ancora fiducia nello Stato anche per un’altra ragione. Perché quello che sappiamo oggi di questa vicenda amarissima della strage di via D’Amelio – che costituisce un’offesa all’intelligenza non solo della nostra famiglia ma dell’intero popolo italiano – lo si deve comunque a dei magistrati che hanno voluto andare a fondo. Non dimentichiamo che oggi a Caltanissetta è in corso un processo contro tre funzionari di polizia del gruppo investigativo che indagò sugli attentati del 1992 (Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e Mario Bò) per concorso in calunnia con l’aggravante di aver favorito una parte di Cosa nostra. Occorre dunque dare il giusto riconoscimento al lavoro di una procura che sta cercando di fare chiarezza pur tra tantissime difficoltà, tanto più che, nella sua grossolanità, il depistaggio che è stato portato avanti ha fatto perdere molto tempo e, come è noto, il passare del tempo compromette a volte in maniera definitiva la possibilità di giungere alla verità.
Non ha invece nulla a che vedere con la ricerca della verità la mia decisione di incontrare i fratelli Graviano 1, anche se è stato un viaggio compiuto nella speranza di seminare un contributo di verità. Un momento importante del mio percorso umano, personale e di donna, in cui ho sentito il bisogno di comunicare il dolore che quelle due persone avevano inflitto non solo alla nostra famiglia ma alla società intera. Una decisione intima, estranea a qualsiasi sentimento sia di rabbia sia di perdono, un termine, quest’ultimo, che non mi appartiene. Perché per me non esiste il perdono, ma la rivisitazione che si compie di ciò che si è fatto e che è importante non per noi, ma per le persone che, uccidendo, hanno soppresso la parte migliore di loro stesse.
Un paese affetto da una grave malattia
Alla luce dei tanti depistaggi che hanno interessato le stragi più efferate compiute in Italia, alla luce di questo ennesimo inganno riguardante via D’Amelio, non posso non pensare che questo paese soffra di una malattia molto grave, relativa alla perdita di memoria. Al di là del fatto già grave che il depistaggio sia stato riconosciuto come reato solo due anni fa, è significativo che, nonostante la storia ci abbia messo tante volte in guardia, si continui a non riconoscere i sintomi di tale malattia. E lo stesso avviene quando un politico corrotto si ricandida per l’ennesima volta e per l’ennesima volta viene votato.
Mentre invece dovrebbe esserci un’assunzione di responsabilità da parte della politica e delle istituzioni, senza bisogno che una famiglia o l’intera società le chiedano di attivarsi per far luce su quanto avvenuto. Perché in questa vicenda della strage di via D’Amelio non esiste solo una responsabilità sul piano giudiziario, ma anche una responsabilità politica e morale: quella di chi poteva fare qualcosa, di chi poteva impedire che questo succedesse, e non ha fatto nulla. Ci si aspetterebbe, per esempio, una presa di posizione del ministero dell’Interno rispetto al processo che vede oggi coinvolti tre funzionari di polizia, tre servitori dello Stato, o l’apertura degli archivi del Viminale e del Sisde perché si faccia chiarezza sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia o, ancora, un’attività più solerte da parte del Consiglio superiore della magistratura, che oggi purtroppo non si ravvisa. Dovrebbero essere atti dovuti, al di là di qualsiasi istanza di parte. Ce li aspettiamo noi come famiglia ma sono dovuti all’intera società.
(testo raccolto da Giacomo Russo Spena e curato da Claudia Fanti)
(1) Nel 2017 Fiammetta Borsellino ha incontrato in carcere Giuseppe e Filippo Graviano, condannati all’ergastolo per le stragi del 1992 e del 1993, n.d.r.
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