Brexit, le illusioni di Londra

Antonia Battaglia

Nell’era Brexit, è un inglese su quattro che pensa di trasferirsi all’estero, secondo un sondaggio realizzato pochi giorni fa e riportato dal Guardian.

Il 62% degli intervistati si è però detto sicuro che, nella fase post-Unione Europea, il futuro del Regno Unito sarà glorioso, mentre un 35% ha espresso la propria convinzione che il peggio comincia solo adesso.

David Davis, Segretario di Stato per la questione Brexit, ha dichiarato di recente alla House of Commons che il Regno Unito non vede l’uscita dall’EU come la fine delle relazioni con l’Unione Europea ma, al contrario, come l’inizio di un nuovo corso che rafforzerà legami e stima reciproci.

Tutto ciò sembra molto aleatorio, se guardato da Bruxelles. Perché i punti di convergenza in questo momento sembrano essere pochi. In particolare, se si esaminano i due temi principali sui quali si concentra la strategia inglese verso l’Unione, ovvero cooperazione sulla sicurezza e “relazioni commerciali le più aperte possibili” (nelle parole di Davis), pare difficile che le Istituzioni Europee vedano con la stessa apertura la fine dell’unione.

Quello che Londra vuole può davvero accadere? E soprattutto, è davvero quello che si prepara a Bruxelles?

Per gestire la questione in casa EU, durante il mese di luglio il Presidente della Commissione Europea Juncker ha nominato un suo uomo di fiducia, l’ex Commissario francese Michel Barnier, non esattamente una figura politica amica del Regno Unito, ma sicuramente la persona più adatta per sviluppare negoziati ispirati ai solidi principî di Unione e di sacralità dei confini europei. Barnier è un politico abile e capace, affiancato nel suo compito dal raffinato diplomatico belga Didier Seeuws, uomo nominato dal Presidente del Consiglio Europeo Tusk per condurre quelle che si preannunciano lunghe e difficili trattative tra Bruxelles e Londra.

Il feeling generale, però, è che se da una parte Londra stia cercando di giocare la carta della vicinanza con l’Unione Europea per non perdere il suo più grande mercato di export e per cercare di garantirsi accordi commerciali che non penalizzino l’incertissimo futuro economico e commerciale, la risposta europea potrebbe essere quella che è stata fino ad ora: picche.

Si gioca già sui tempi. La lettera di notifica da Londra a Bruxelles non è ancora arrivata.

Se “Brexit means Brexit”, come ripete mantricamente Theresa May da due mesi, allora la Brexit dovrà esser realizzata velocemente e non saranno certamente negoziati facili quelli che si svolgeranno tra il Regno Unito e gli altri 27 Paesi europei singolarmente presi, ognuno dei quali ha da difendere interessi nazionali, strategie, equilibri politici interni ed esterni.

Il Regno Unito sembra quindi troppo ottimista o non ha ancora inquadrato quelle che sono le reali conseguenze della scelta fatta. Probabilmente ambedue le cose.

Tuttavia, se non sarà la volontà punitiva europea contro chi ha “tradito” il patto ab origine (volontà che traspariva senza dubbio dalle prime reazioni del Presidente della Commissione Juncker e del Presidente del Parlamento Europeo Schulz), sarà la realtà stessa delle cose che prenderà il sopravvento e che indicherà la strada di un divorzio in cui le due parti hanno obiettivi sicuramente differenti.

L’Unione Europea non vuole perdere nella questione Brexit, per non lasciare aperta la porta a fenomeni di emulazione che potrebbero realizzare exit-process in altri paesi.

Le richieste inglesi sugli accordi di libero mercato, invece, potrebbero scontrarsi con dati di fatto legislativi: come si farà a garantire l’accesso totale ed incondizionato di merci e servizi del Regno Unito all’interno del mercato di libero scambio europeo se il Regno Unito non farà più parte dell’Unione? Un prodotto inglese per arrivare a Roma, Parigi, Bruxelles, Atene dovrà passare dalla dogana, avere certificati di origine e di conformità, passare attraverso controlli che non sono quelli in vigore tra gli altri 27.

La volontà di Londra è quella quindi di svuotare il principio politico dell’Unione per lasciare in piedi il mero principio del libero scambio, cosa che negli ambienti delle Istituzioni Europee al momento appare inaccettabile.

Gli inglesi chiedono, in sostanza, di dar loro il beneplacito per aver mandato a monte la partecipazione alla costruzione di un ideale politico comune (per quanto esso sia da riformare con estrema ed assoluta urgenza) e chiedono di poter comunque approfittare di quelli che sono i privilegi economici dell’appartenenza al “clan EU”.

Sembra chiaro, quindi, che la strategia inglese, deludente, si attesti ancora sul versante del “wishful thinking” piuttosto che su una presa di coscienza della realtà. Al momento, secondo diversi responsabili dell’ormai quasi defunto partito Labour, il Governo non ha un piano Brexit.

Si avanza a tentativi, come si percepisce anche dalle timide dichiarazioni del Primo Ministro May dopo il G20, che si è detta soddisfatta di aver portato a casa l’accordo con diversi paesi che instaureranno relazioni commerciali dirette con il Regno Unito.

L’apertura di May alla Cina e alla Russia, le due grandi novità nella politica estera inglese, sono testimonianze da una parte della pressione sotto la quale la stessa May si trova sul fronte interno e dall’altra parte della necessità di assicurare subito al Regno Unito nuove relazioni commerciali importanti ed un posto di primo piano sulla politica internazionale.

Ma l’operazione maquillage sembra inefficace contro l’ondata di caos che si percepisce a Londra.

Molto di ciò che accadrà o non accadrà sulla questione Brexit dipenderà dalla politica interna inglese e da quali saranno i governi che potrebbero avvicendarsi negli anni, dal come gestiranno la questione, perché pare certo che dal momento della notifica, dovranno passare alcuni anni, forse almeno due, per poter risolvere quello che si annuncia un contenzioso intricatissimo.

E’ possibile che un cambio di governo nel Regno Unito possa bloccare tutto il processo in corso, una volta avviato? C’è chi nelle alte sfere europee non si sente di escluderlo. La partita è davvero aperta.

(7 settembre 2016)

 



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