Buon Anno (che sia di giustizia anziché di impunità)

Paolo Flores d’Arcais

Buon Anno, naturalmente, e di cuore. Ma cosa deve significare l’augurio di un anno buono in Italia, il 1 gennaio 2020, nella vita pubblica?
Che sia un anno di giustizia, almeno aurorale, a differenza degli ennesimi che lo hanno preceduto.

Giustizia sociale, cioè aggressione efficace, costante, progressiva, contro le diseguaglianze di ricchezze, reddito, potere, la cui hybris grida sempre più vendetta agli occhi di Dio e degli uomini. E giustizia nei tribunali, eguaglianza dell’ultimo degli emarginati e del primo dei ricchi-e-potenti di fronte alla violazione della legge. Cioè aggressione efficace e incalzante contro tutte le forme di impunità, a cominciare dalle più gravi, secondo caratura di violenza, prepotenza, opulenza di chi se le riesce a garantire.

Perché da quasi trent’anni, Italia omnia divisa est in partes tres: il partito della giustizia, il partito delle impunità, la palude delle anime morte ovvero il partito dell’indifferenza. E il partito delle impunità, grazie anche alla servitù volontaria degli indifferenti che li spinge a farsi rappresentare dai propri peggiori nemici, ha fin qui vinto, recuperando e annegando i rari momenti in cui la legge si è imposta davvero come eguale per tutti: le troppo brevi stagioni di Mani Pulite e dei pool antimafia.

Sulla politica della giustizia, nella fattispecie sulla prescrizione, si era già consumata la rottura del governo Conte1, che lo spurgo verbale del Papeete ha solo anticipato (e oscurato). E sta per segnare la fine del Conte2, a meno che il M5S non cali le brache anche sull’ultimo scampolo di riforma che l’aveva portato a vincere le elezioni (“onestà, onestà”, ricordate?).

La riforma della giustizia avanzata dal M5S è in realtà meno di una mezza riforma. È una riformicchia, ma tanto basta per scatenare alti lai e minacciose chiamate alle armi del partito delle impunità. Riformicchia, perché neppure si è ventilata l’introduzione del reato di ostruzione di giustizia, secondo fattispecie e pene deterrenti di stampo americano, neppure si è impostata la discussione sulla abrogazione di un grado di giudizio e la radicale restrizione degli interventi di Cassazione, e quanto alla prescrizione non si tratta neppure di una riforma a metà, ma al 20 per cento, visto che tale è, con la proposta Bonafede, la percentuale di quanti grazie ad essa non potranno più godere della scampata condanna. La riforma, ovviamente, andava fatta sul modello occidentale più diffuso, che di fatto vanifica la prescrizione una volta iniziato l’iter processuale incardinato con il rinvio a giudizio.

Sono le tre misure che, accompagnate da altri facili accorgimenti semplificatori mille volte enumerati e catalogati su MicroMega da magistrati come Scarpinato, Davigo, Caselli, creerebbero le precondizioni, l’humus, per una radicale riduzione dei tempi dei processi, visto che nessuno avrebbe più interesse a “tirarla per le lunghe”, che per i ricchi-e-potenti equivale quasi sempre alle calende greche e al paradiso delle impunità.

Buon Anno, perciò, un anno buono se e perché il partito giustizia-e-libertà comincerà a prevalere sul partito delle impunità grazie al risveglio di una parte della società civile, alla metamorfosi di una parte sempre crescente (si spera) del partito degli indifferenti.

Per ora non se ne vedono i sintomi. È vero infatti che l’anno si chiude con il duro colpo che le inchieste della Procura di Catanzaro del dottor Gratteri e dei suoi collaboratori ha inferto non solo alle ‘ndrine ma all’intreccio politico-finanziario-imprenditoriale-mafioso che trova nella massoneria il suo luogo fusionale. Ma è ancor più vero, purtroppo, che questo straordinario risultato di tre anni di indagini difficilissime (perché, come si è visto, e del resto non è la prima volta, i tentacoli del suddetto intreccio arrivavano fino a vertici delle forze dell’ordine e lambivano gli stessi uffici giudiziari), non è stato affatto salutato e incoraggiato dal giornalismo televisivo e scritto, cioè dagli artefici della opinione pubblica.

Comportamento che sarebbe stato ovvio e doveroso attendersi, visto che, come insegnava il grande storico Michelet già nel 1848, il giornalismo “persegue una missione estremamente utile, estremamente seria e faticosa, quella d’una censura continua sugli atti del potere”, e che in fondo il kombinat affaristico-politico-mafioso che viene colpito anziché dominare incontrastato è proprio “l’uomo che morde il cane” che fin dall’apprendistato del giornalista indica la necessità della prima pagina con titolo a nove colonne.

E mentre i responsabili per atti od omissioni dei crolli di ponti o di banche brindano al nuovo anno nella opulenza e nel fasto delle buonuscite che li hanno lucupletati, in vece loro nelle italiche galere viene ristretta la professoressa Nicoletta Dosio, di anni settantatré, condannata ad un anno di carcere per una manifestazione No Tav consistente nell’aver aperto i varchi di un’autostrada facendo passare gratuitamente gli automobilisti, per un danno ai gestori di ben 700 euro (dicesi 700, sui milioni di profitti). E che ha coraggiosamente rifiutato ogni misura alternativa.

Una vergogna, una indecenza, una ignominia per l’Italia, anche “vista dallo spazio”, per cui ci aspettiamo che il Presidente Mattarella vi ponga immediatamente fine attraverso l’istituto della grazia.

(1 gennaio 2020)





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