Cacciari: “Il governo? È partito malissimo. Serve intesa M5s/Pd anche alle regionali”

Giacomo Russo Spena

Per il filosofo, da sempre sostenitore di un’alleanza strategica tra le due forze, l’esecutivo è un accordo di Palazzo tenuto insieme “dalla paura delle elezioni e dalla smania governista di tre quarti del Pd”. Ed auspica una vera svolta – delineando tre fattori dirimenti – per evitare che si torni al voto tra un anno: “Salvini vincerebbe col 60%”. Infine ipotizza un nuovo centro macroniano: “Renzi e Conte li vedrei bene insieme, con Calenda a seguito”.
intervista a Massimo Cacciari

L’ultima volta che avevamo sentito il filosofo Massimo Cacciari era sei mesi fa e insisteva sulla necessità per il Pd di interloquire strategicamente con l’area grillina per arginare una destra cattiva e pericolosa. Chi pensa che oggi sia soddisfatto, si sbaglia di grosso: “L’accordo andava preparato sulla base di programmi definiti, dialogando, confrontandosi in pubblico, dando vita prima a qualche esperienza locale come a Venezia dove ci sarebbe la possibilità di una forte candidatura comune. Non hanno fatto nulla di tutto ciò “.
 
Professore, non l’hanno ascoltata neanche questa volta?

Ho sempre sostenuto che l’alleanza tra M5s e Lega non potesse durare e che era necessario lavorare per preparare il terreno per una convergenza coi grillini. Il gruppo dirigente del Pd mi assaliva per tale proposta, l’ultima volta è stato soltanto una settimana prima che i capi del partito siglassero l’intesa a Roma, così da un giorno all’altro. In una situazione del genere, quest’accordo di governo non ha la minima serietà culturale e politica. Nessuna. Quello che ha – e speriamo possa funzionare – è il terrore delle elezioni e la smania governista di tre quarti del Partito democratico.

Il pericolo delle urne e lo spauracchio che Salvini vincesse le prossime elezioni li ha messi insieme, però il segretario Zingaretti auspica sia un governo duraturo, di discontinuità e già si ipotizzano possibili alleanze per le prossime regionali. L’intenzione è quella di andare oltre l’accordicchio di Palazzo, non trova?

Vede, è uno stato di necessità. Sono partiti malissimo – le trattative sono state penose – ma adesso devono far funzionare l’intesa, varando qualche provvedimento significativo, se vogliono arrivare almeno all’elezione del Presidente della Repubblica. Se l’esecutivo dovesse cadere prima, si tornerebbe alle urne e a quel punto Salvini prenderebbe il 60 per cento!
 
Cosa ne pensa della squadra di governo? Ha la rilevanza politica per un governo di svolta?

(ride) Assolutamente no, tre quarti sono ceto politico. Ci sono alcune personalità di rilievo come Lamorgese, di cui ho immensa stima, o Gualtieri. Ma siamo ben distanti da quel che auspicava il buon Grillo.

Il rischio che Matteo Salvini, uscito dalla porta, rientri dalla finestra fra dodici-diciotto mesi quanto è forte?

Molto forte, dipenderà da alcuni fattori. Innanzitutto, già nella legge di Bilancio, il nuovo governo dovrà dare segnali inequivocabili e concretissimi smettendo di parlare dell’universo come in questi ridicoli 26 punti: è necessario procedere col cuneo fiscale, con la revisione dei decreti sicurezza e, più in generale, lavorare per dare credibilità ad un possibile governo di legislatura. Secondo aspetto: le elezioni regionali. Zingaretti deve concentrarsi sull’Emilia Romagna e cercare in tutti i modi un’intesa con i Cinque Stelle a livello regionale perché la sconfitta in Emilia Romagna è un disastro. Il Pd non reggerebbe il colpo. Terzo fattore dirimente: se questo esecutivo vuole avere un respiro strategico, riprenda un serio discorso federalista con le regioni del Nord.

Quello federalista è da sempre un suo cavallo di battaglia…

Penso sia inutile ribadire quanto non abbia nulla contro i meridionali, ma il governo è sostanzialmente composto da esponenti del Sud mentre la Lega amministra la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. Praticamente il Carroccio è a capo delle regioni che fanno il 70% del Pil del Paese. Come non tenerne conto? La debolezza di questo governo si misura anche da ciò e la casta Pd non può ignorare questo problema.

Come lo si affronta, secondo lei?

Occorre un interlocutore forte per le regioni del Sud e credibile agli occhi dei presidenti del Nord per riavviare una politica che punti a riforme istituzionali in senso federalista. È la riforma delle riforme di questo Paese. Come non capire che questo assetto regionale non potrà mai funzionare? Le riforme urgenti sono le riforme amministrative, la sburocratizzazione, la semplificazione e il riassetto delle funzioni fra poteri centrali e regionali. Ripartiamo da qui.

Intanto però va bloccata la riforma dell’autonomia differenziata tanto cara alla Lega?

La riforma dell’autonomia differenziata è una bufala pazzesca, lo sanno persino amministratori come Zaia e Fontana, ma è uno strumento formidabile di propaganda che Salvini cavalcherà. Il governo si caratterizza per una chiara fisionomia anti federalista ed è un grave errore: urge correggere il tiro, il Pd tornasse a fare politica.

Il M5S è nato come movimento antisistema e incendiario – pensiamo ai discorsi in piazza di Di Battista – mentre ora si pone come un partito responsabile, europeista ed a suo agio al governo. Quant’è cambiato dal 4 marzo 2018 ad oggi?

Parliamo del classico movimento che un giorno sposa la protesta che va in una direzione e il giorno dopo nell’altra: all’interno hanno di tutto, dal focoso Di Battista al grigio Di Maio. In una situazione di crisi politica è inevitabile che ci siano forze che abbiano tali caratteristiche ma il M5S è senza una visione d’insieme se non con qualche vago comune denominatore sui temi dell’ambiente e della giustizia. Non si può chiedere ai Cinque Stelle una strategia o un’idea società o di Stato: non sono questo e non lo saranno mai. Ricordo che le prime mosse di Grillo erano tutte rivolte al Partito democratico, sono tornati alle origini.

Grillo voleva partecipare alle primarie del Pd, fino alla frase di Fassino: “Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, metta in piedi un’organizzazione, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”. Mai profezia fu più errata…

Zingaretti, oggi, ha una grande responsabilità: deve ammettere la situazione di debolezza in cui versa e aprire un dialogo serio coi Cinque Stelle – parlarci e trattarci – per costruire un vero centrosinistra progressista. Senza presunzioni, senza pensare di avere sempre ragione.

Intanto Zingaretti non è ostaggio di Matteo Renzi che continua a comandare i gruppi parlamentari?

È il motivo per cui Zingaretti voleva andare subito a votare, ufficialmente è il segretario del Pd ma non ha il partito in mano.

Quindi è un leader debole?

Deve convocare subito un congresso, come si faceva una volta, dove gli iscritti o chi vuole partecipare, vota le diverse mozioni. Si deve prendere il partito. Basta con le scorciatoie, come per le primarie.

Salvini si stava mangiando il Paese a suon di propaganda e populismo; eppure ha deciso prima di staccare la spina al governo Conte, poi ha provato a ricucire non presentando la mozione di sfiducia e, infine, ha proposto al Movimento 5 stelle un nuovo governo insieme con Di Maio premier. Al di là della sua innegabile capacità di parlare alla pancia del Paese, non avremo sopravvalutato il personaggio?

Chi ha determinato questa situazione non è stata certo l’opposizione del Pd, che non è esistita, ma la mossa di Salvini che si è rivelata per lui, al momento, il più colossale degli errori. Ha pensato di non poter andare avanti raccogliendo consensi sulle Ong al largo di Lampedusa e che nella legge di Bilancio ma
ncavano le risorse per flat tax e autonomia differenziata, così ha tentato l’en plein. In caso di elezioni avrebbe stravinto, altrimenti avrebbe accettato quel pagliaccetto di Di Maio come premier. Ha sbagliato i conti non pensando a una possibile intesa tra M5S e Pd.

Non un errore da poco…

Assolutamente, era ovvio poi che Mattarella avrebbe lavorato per trovare una nuova maggioranza. Infine, i parlamentari Cinque Stelle avrebbero fatto l’insurrezione se Di Maio fosse andato a votare perché sarebbero finiti tutti a casa. Qui la politica c’entra come Platone a merenda.

Professore, cosa pensa dell’addio di Calenda?

Bah, è un cooptato. Le ha passate tutte: da Montezemolo a Monti fino a Renzi… Auguri.

Beh, lo liquida così facilmente?

Faccia pure il suo partito, tanto resterà sempre nell’area di centrosinistra. Quel che potrebbe maturare, se le persone si annusano e si comprendono, è una forza politica tra Renzi e Conte. Ci piaccia o no, Conte è diventato un leader mentre Renzi lo è sempre stato con tutti i suoi limiti: sono due personaggi affini che potrebbero creare una nuova area di centro, macroniana ed europeista. Se Zingaretti, intanto, convoca un vero congresso – cessando finalmente il periodo della balcanizzazione interna al Pd – e declina una strategia di sinistra all’altezza del nuovo millennio, alla fine potrebbe rifare il centrosinistra, proprio con Conte e Renzi.

(6 settembre 2019)


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