Calzando la scarpa della libertà
Adele Orioli
È finita la nostra storia (…) Non possiamo sminuire la cosa ad una leggera differenza nei nostri gusti musicali, scrive Ashraf Fayadh all’entità femminile con la quale dialoga, o meglio monologa, per tutto il corso della raccolta di versi, “Epicrisi”, pubblicata in Tunisia e in Italia dalla Di Felice Edizioni con la coinvolgente traduzione di Sara Darghmouni. Entità femminile a tratti molto concreta, dai seni aristocratici ai brufoli, dal lungo collo da misurare con i baci ai graffi lasciati sulla schiena, ma al contempo evanescente, multi identitaria e allusiva. Una lei lontana, comunque. Perché, in ogni caso e a prescindere appunto dalle affinità di coppia, Ashraf è in carcere. Carcere che non nomina mai direttamente, che appare di sfuggita (una cassa di cemento sostenuta da barre fredde di metallo, il padre visto per l’ultima volta prima della sua morte attraverso un vetro massiccio) ma che al di là di facili connessioni con la biografia dell’autore, permea molte delle poesie di una sottile inquietudine, di una soffocante consapevolezza mai arrendevole e non del tutto arresa.
Artista di origini palestinesi, figlio di un rifugiato dalla striscia di Gaza, Fayadh è nato in Arabia Saudita nemmeno quarantant’anni fa e nel sud ovest del paese è rinchiuso, ad Abha, dal gennaio del 2014.
Non solo poeta e scrittore, ma anche fotografo e regista, tra le altre espositore alla Biennale di Venezia, ha visto in suo sostegno una mobilitazione internazionale quando è stato condannato a morte, pena poi graziosamente commutata in otto anni di carcere e 800 frustate. Il suo reato? La blasfemia e l’apostasia, l’aver promosso addirittura l’ateismo nella sua prima raccolta di poesie, Instructions Within, prontamente ritirata dal commercio in lingua araba.
Versi come Io continuo a inseguire la luce, ma non è desiderio di vedere… Le tenebre rimangono spaventose anche se ad esse ci si abitua sono state considerate dai giudici sauditi prova dell’aver dubitato dell’esistenza di Dio e bastevoli per una condanna detentiva e corporale.
D’altronde parliamo di un paese più volte sotto i riflettori per violazioni sistematiche dei diritti umani, il paese che secondo il Freedom of thought tReport pubblicato ogni anno dalla Humanists International è il peggiore per i non credenti, anche se il reato di apostasia, va detto, comporta la pena di morte in “appena” altri 11 stati. Sono 70 quelli che perseguitano e perseguiscono i non aderenti alla dottrina religiosa ufficiale.
Ma per tornare all’Arabia Saudita, è quel paese che per Fayadh ha calzato la scarpa della libertà, poi se ne è andato, lasciando la scarpa alle sue spalle, lo stesso che però per l’Onu è meritevole di sedere nel Consiglio dei diritti umani. Una scarpa affetta da crisi di identità.
Epicrisi, dal carcere, è la seconda raccolta di poesie per Fayadh, dopo e nonostante le conseguenze della prima. E sì, è certo una sopra-crisi, una crisi a ripetizione, quella che urla e invade le scarne ma pregne pagine di questa collazione di brevi componimenti. Ma è una raccolta che solo per il fatto di esistere urla tutta la sua libertà. Anche se chi scrive è stanco, ormai persino del suo nome, la consapevolezza mi uccide lentamente, ci dice, ma è la stessa consapevolezza che ci fa arrivare quanto è nei suoi versi, che non fa abbandonare la voglia di lavare quelle macchie così ostinate, della vita, della coscienza, alle quali l’autore dedica metaforiche e altrettanto meticolose attenzioni.
Ma che non si fraintenda. Anche senza sapere nulla della vita di chi scrive, i versi palpitano di esistenza e dignità autonoma, incedono tra inusuali dissonanze, tra il brutto terreno (il cattivo odore, i baffi di Frida Kahlo, per trattare le macchie difficili, fra i titoli che scorrono nelle pagine) e il bello altrettanto terreno, di una carnalità lontana ma ancora presente, di una riflessione amara ma umana, di un’arte intesa come la bugia che abbiamo inventato per credere a questo mondo.
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