CANNES 2012 – Roman Polanski: A film Memoir

Giona A. Nazzaro


Cannes – Il documentario di Laurent Bouzerau possiede un grande merito: mettere in scena un uomo, Roman Polanski, che per tutta la sua vita, volente o nolente, si è trovato sotto i riflettori, al punto che la sua figura pubblica è stata confusa con il suo cinema e viceversa.

Realizzato nel corso dei lunghi mesi degli arresti domiciliari a Gstaad (Svizzera), il film è una lunga, e a tratti dolorosa, conversazione che il regista polacco intrattiene con il suo amico di lunga data Andrew Braunsberger. L’aspetto più forte e toccante del film è la nudità di Polanski che mette a nudo i suoi ricordi più intimi, i rastrellamenti nel ghetto di Cracovia, per esempio, attraverso una sincerità che purtroppo il regista non sempre riesce a filmare con la discrezione necessaria. Valga come esempio lo zoom sulle lacrime del regista, una scelta terrificante, a dir poco abietta (ma se fosse stata suggerita da Polanski stesso avrebbe ovviamente un valore completamente diverso…).

Eppure, nonostante queste debolezze, è altresì evidente che dietro il film ci sia lo zampino di Polanski stesso, che deve avere pensato bene di sfruttare la forzata immobilità per inviare una lettera a detrattori e persecutori. Ed è la cattività polanskiana, tema questo che attraversa tutto il suo cinema, a offrirsi come l’aspetto più interessante di tutta l’operazione.

Intanto permette di gettare uno sguardo dietro le quinte del mondo di Polanski offrendo indizi sul metodo della sua follia. E dall’altro evidenzia come anche dietro le invenzioni più surreali si celi il dolore di una vita ferita e lacerata ripetutamente.

In questo senso l’omicidio dell’adorata moglie Sharon Tate, incinta di suo figlio, per mano dei seguaci di Charles Manson, è affrontato nel film più per le terribili conseguenze sulla vita del cineasta che come fatto di cronaca nera. Ed è la vicenda Manson-Tate a fare da ponte per l’allucinante vicenda delle accuse di stupro che ha provocato la sua fuga precipitosa dagli Stati Uniti.

Polanski, insomma, emerge come un uomo appassionato e contradditorio, con una forte consapevolezza della propria immagine e del proprio valore.

Leggere questo documentario come un messaggio in codice rivolto al mondo, è l’aspetto più intrigante e schiettamente polanskiano di un film che avrebbe potuto essere molto più graffiante se fosse stato servito da un cineasta meno ingessato formalmente. In ogni caso, l’inquilino del piano di sopra è vivo e vegeto.

(19 maggio 2012)



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