“Cara vecchia madre, che imploravi la liberazione…”
Caro direttore,
il tuo su Magri ha riesumato l’esperienza vissuta, il calvario della mia famiglia e di mia madre, deceduta dopo otto anni di paralisi di tutta la parte destra, due anni fa. Io vissi il dramma immerso in questa continua, assurda, impossibile posizione risultata senza soluzione. Ma capirai. Prendere un traghetto o un aeroplano, andare in svizzera con la madre inferma, oltre alle spese della funzione, seppure in qualche modo avessimo raccolto il denaro sufficiente, mai e poi mai simile scelta avrebbe trovato consenzienti tutti i figli e i parenti. Fosse solo la Chiesa!
Saluti
Io te la farei l’iniezione. Una piccola, indolore punturina come la chiamavi tu cara vecchia madre, quando mi portavi in braccio all’ambulatorio e mi tenevi fermo, mi stringevi con tutte le tue forze e io strillavo strillavo e strappavo e piangevo e scalciavo come i torelli e il dottore infilava l’ago nella mia carne irrigidita dai muscoli tesi induriti nello sforzo di divincolarmi e fuggire. Te la farei con tutto il cuore. Una punturina indolore, con l’ago proprio piccolo piccolo. Una punturina e via. Sono otto anni che me la chiedi. E sempre e solo a me. Chissà perché, agli altri fratelli non chiedi nulla del genere. Non sono figli tuoi?
Da otto anni, lunghi come sanno essere lunghi soltanto l’attesa, la sofferenza, il dolore, non fai che chiedermi la stessa cosa. Vorresti liberarti e liberarci. Tutti. Qui invece ti spacciano per incosciente, dicono che sei fuori di testa, che non riconosci più nessuno, non sai quello che dici e non capisci più nulla quando gli altri ti parlano. Per i medici sei come un albero: respiri, ti nutri, digerisci, dunque vegeti. A me invece mi riconosci subito. Mi guardi, dici e ripeti: ta ta ta ta ta ta. Fam mi la pun tu ra. Così dici con l’ultimo rimasuglio di voce rimasta, così farfugli quando sono lì al capezzale e ti guardo soffrire, morire, cosciente pienamente della mia inutilità, della mia impotenza.
Tu continui a ripetere la tua richiesta, qualcosa di monotono e mi fai la stessa domanda. Così da otto anni, tanti ne sono passati da quando giaci a letto immobile. Tre temporali violenti, tre ictus, tre inondazioni, tre alluvioni, se riuscirono ad atterrarti, a levarti la favella, la gioia di camminare e di essere autosufficiente, non riuscirono a finirti. Ogni volta i medici ti "presero in tempo", scongiurarono il peggio, ogni volta sconfissero, respinsero indietro la signora con la falce. E ti mantennero in vita.
Se la prima volta a me e ai tuoi occhi e a quello dei cari il salvataggio sembrò un miracolo, la seconda volta lo sembrò meno. E la terza volta non salutasti più come si conviene la vittoria. La conquista della scienza, il trionfo dei medici e della medicina, la bravura di assistenti, infermieri fisioterapisti, dicevi con gli occhi, ti levarono l’ultimo anelito di speranza. In un istante assassinarono l’ultimo baluardo eretto dall’istinto di sopravvivenza. A te venne meno la voglia di lottare, il desiderio di esserci ancora, di vincere. Sentirti, essere un peso inutile affondò definitivamente la gioia di vivere.
Sapevi, avevi piena coscienza di quello che eri, e degli effetti che la tua salvezza stavano provocando intorno e volevi liberarti e liberarci. Nei nostri occhi leggevi tutto, tutto e mai avresti desiderato essere causa del disastro economico della famiglia. Controbilanciato soltanto dal trionfo economico di industrie chimiche, farmacisti, personale sanitario specializzato, badanti in nero, case di cura. Da quando il terzo, minuscolo tsunami di sangue ti costrinse a letto non facesti che implorare la fine, la liberazione. Ma io non posso fare ciò che chiedi ti dissi. Non posso assolutamente accontentarti. lo vorrei, ma non posso.
Per quanto me lo chiedi insistentemente, mi preghi ogni volta con quegli occhi antichi, divenuti albergo a cinque stelle di lacrime dense, come a nascondere le venature di sangue, non posso. La legge, la morale, il buon senso, la fede, la stupidità umana, la saggezza, il buon senso, i parenti, la famiglia, gli amici, la sacralità della vita, il rispetto dell’ordinamento. Troppi lacci e lacciuoli, troppi interessi e dogmi e opinionisti, troppi saggi e troppi cretini e soloni e moralisti e titolari assoluti di verità e padroni della tua vita e della tua morte, mia cara madre, impediscono a me di ridare al tuo corpo dimezzato come il visconte di Italo Calvino, alla parte destra paralizzata e alla sinistra abile, la perduta unità.
Ma è naturale, cara vecchia madre, che costoro facciano così. Credono d’aver qualcosa da guadagnare… e cosa importa loro se tu, al contrario, credi, come dice Socrate a Critone, di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi la cicuta, se non di renderti ridicola ai tuoi stessi occhi, attaccandoti alla vita e facendone risparmio quando non c’è più niente da risparmiare…
Nunzio Isoni
(2 dicembre 2011)
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