Carlo Maria Martini / Massimo Cacciari: Dialogo su Agostino
Il cardinale arcivescovo di Milano e l’ex sindaco di Venezia discutono dell’attualità del pensiero del vescovo di Ippona. La sensibilità per gli stati d’animo e quella per le vicende del corpo sociale.
di Carlo Maria Martini / Massimo Cacciari, da MicroMega 3/1996
Carlo Maria Martini: Io amo molto Agostino. L’ho sempre amato, fin da ragazzo. Ricordo che quando avevo poco più di vent’anni mi misi d’impegno a leggere tutto il volume 46 della grande collezione del Migne, i testi agostiniani sulla libertà e sulla grazia. Ebbi poi molto più tardi, nel 1986, un’occasione particolare per approfondire lo studio di questo grande santo, in occasione delle celebrazioni della conversione di Agostino a Milano, per opera di sant’Ambrogio. L’anno seguente ricorreva l’anniversario del battesimo, che gli è stato conferito da sant’Ambrogio nel Battistero oggi ritrovato nei sotterranei del Duomo. Per noi è stato un altro momento di riflessione corale su Agostino. Io ho colto soprattutto due aspetti dell’insegnamento agostiniano, che considero particolarmente consoni con il cammino che propongo alla Diocesi. Primo, Agostino come scopritore dell’interiorità. Per Agostino la storia si gioca nel cuore dell’uomo. È qui, nel profondo dell’animo nostro, che avvengono le grandi scelte che determinano la storia. Mi ha sempre colpito il riferimento al «Maestro interiore» presente in ciascuno di noi. È lui che bisogna ascoltare quando si tratta di scegliere. Secondo, la Chiesa come corpo di Cristo. Agostino era insieme capace di interiorizzare i suoi stati d’animo e di cogliere il collettivo nella storia, cioè l’essere insieme in un corpo organico. Egli aveva la stessa sensibilità per gli stati psicologici più minuti, più delicati, e per le vicende di un corpo sociale. Con questo voglio dire che la ricerca dell’interiorità, quella del de magistro, non era un solipsismo, un chiudersi in se stessi, ma un rendersi sensibile ai grandi processi storici.
Massimo Cacciari: Credo che Lei, Eminenza, abbia toccato davvero due aspetti essenziali dell’attualità di Agostino. Provo ad affrontarli forse in altro modo ma in grande assonanza con quanto Lei ha detto. Anzitutto, il tema dell’interiorità. Penso sia di grande importanza per intendere tutta la civiltà europea e cristiana, perché in esso si rovescia completamente la prospettiva classica dell’idea di verità. Se la verità abita nell’abisso dell’interiorità, la verità si fa immanente all’interiorità dell’uomo. Attenzione, di questo uomo, proprio di questo uomo in dubbio. La verità è immanente allo stesso essere in dubbio, allo stesso essere inquieto dell’uomo. Non è un oggetto che sta lì, di fronte a me, e che posso o non posso conquistare attraverso un processo di tipo eminentemente gnoseologico. Per Agostino questo significa che la verità «si muove» con la ricerca che ne facciamo dentro di noi, concresce con il nostro dubbio, la nostra angoscia, la nostra ansia. Dunque non c’è via di accesso alla verità se non attraverso l’indagine di quell’abisso che è l’interiorità dell’uomo. Davvero un rovesciamento dell’atteggiamento classico verso la verità. Un rovesciamento fondamentale per la filosofia moderna e contemporanea. Il secondo aspetto da Lei sottolineato è quello della città, che fa tutt’uno con il tema dell’interiorità. Perché come la verità è immanente all’esserci e quindi all’inquietudine che segna questo esserci, così la città per Agostino è in itinere, è una societas peregrina, una sorta di rappresentazione esterna di questa inquietudine interiore caratterizzata anch’essa dall’essere itinerante. Neppure la verità di questa città è esterna ad essa, ma concresce nella realtà: la civitas Dei è costantemente immanente alla civitas hominis esattamente come la verità è costantemente immanente all’interiorità. Queste sono dimensioni del pensiero agostiniano assolutamente decisive per tutta la civiltà europea. Agostino definisce la persona europea (cristiana) come quella persona nella cui interiorità abita la verità e caratterizza la politica nel senso più alto come irriducibile a unità: la città europea è una città itinerante, pellegrina, ed è una civitas perplexa (complessa diremmo noi adesso) perché irriducibilmente su di essa grava la riserva escatologica della città di Dio. Ma la civitas Dei non è astrattamente estranea alla civitas hominis, concresce con essa in antagonismo. La nostra città – la nostra anima – è un dramma: questo è il pensiero delle Confessioni e della Civitas Dei. È questo pensiero che fonda l’Europa.
Martini: Io mi collego a quanto Lei diceva all’inizio riguardo a questa interiorità in cui anche nel dubbio, anche nello scetticismo si fa strada la verità, quindi qualche cosa che la persona sperimenta attraverso il suo dramma. In questo percorso mi colpisce soprattutto l’aspetto dell’inquietudine. Tutti conoscono di Agostino almeno le quattro o cinque parole dell’inizio delle Confessioni: «Il nostro cuore è inquieto finché non si riposa in te». Parole che nella loro semplicità esprimono una costante dell’essere umano, e anche della nostra cultura, della nostra esperienza. È in particolare l’esperienza di tanti giovani inquieti perché in tensione verso qualcosa d’altro. Mi dà molto conforto cogliere che questa tensione, questa inquietudine non è un male, ma è qualcosa che forgia la persona e la mette a contatto con la verità. Agostino sa alternare meravigliosamente lo stile narrativo-autobiografico con l’invocazione. Questo a me pare bellissimo. Io stesso qualche volta sento di farlo quando parlo in pubblico, che è un po’ parlare con la gente e un po’ parlare con Dio. C’è in noi un dinamismo che mentre ci porta a dialogare con la gente ci fa comunicare con Dio, e si passa dall’uno all’altro con estrema semplicità, con la stessa naturalezza con cui si racconta. Questo talento di Agostino rivela una carenza dell’anima contemporanea. Noi siamo un po’ troppo gelosi della differenza dei generi. Se uno entra nel genere didascalico deve essere didascalico e noioso fino alla fine; se uno entra nel genere parenetico-elogiativo, politico, lo dev’essere fino all’estremo. Agostino invece sa intercalare forme narrative e squarci di inquietudine. Uno dei suoi temi preferiti è quello del desiderio. Anche questo è un tema molto moderno. L’uomo è ciò che desidera. Agostino analizza i suoi desideri e cerca di comprendere che cosa essi implichino. Agostino scorge nei desideri umani una misura incommensurabile – e quindi preghiera, desiderio, comunicazione di sé vanno insieme. A questo collegherei un altro aspetto che a me è sembrato molto bello della capacità comunicativa agostiniana. Esso si esprime soprattutto nel De doctrina cristiana. Mi riferisco all’ansia di comunicare alle persone semplici. Agostino è uno dei maggiori gen
i dell’umanità, ma in tutta la sua vita, soprattutto come vescovo dal 396 in avanti, si è sempre sforzato di parlare alla gente più semplice, più rude, nella maniera più accessibile. Tanto che egli si lamenta anche, talvolta, che quando parla la gente disturba in chiesa, fa chiasso, eppure lui continua per ore. Ecco un tratto di genio straordinario. Un uomo che ha il gusto della ricerca, della finezza dell’analisi, vuol parlare alla gente più semplice possibile, con esempi tratti anche dalla lingua locale, dalla quotidianità. Ecco, quest’ansia comunicativa io la vedo come un altro aspetto del suo sapere scandagliare il proprio interno, trovare il mistero che lo supera, parlare con questo mistero in maniera familiare e semplice, e con la stessa familiarità comunicare con altri.
Cacciari: Credo che questo, Eminenza, derivi dal significato abbastanza «inaudito» che Agostino dà al termine di conversio. In lui la conversione perde il significato di metanoia e assume quello di una conversione pratica. Non bisogna «convertire» la mente per conoscere meglio, ma «convertire» il proprio atteggiamento, il proprio ethos, per imitare Lui. Questa declinazione pratica della conversione è tipicamente agostiniana e fa tutt’uno con la sua predica. Predica verbum non perché sia in gioco una conoscenza più alta, ma perché è in gioco la vita.
Martini: Sì. D’altronde tutto il percorso di Agostino è una lunga e molteplice conversione, morale e religiosa. Per questo poi quando tematizza ed espone al pubblico le tappe della conversione egli riesce ad essere così semplice, così immediato. E questo voleva dire molto, se consideriamo che la maggior parte delle persone all’epoca non sapeva né leggere né scrivere e non era abituata a ragionamenti complessi. In questo senso, paragonando Agostino con il suo maestro Ambrogio si nota un progresso nella predicazione. Ambrogio era un grande maestro anche di trattazione biblica, ma Agostino ha molto semplificato quel tipo di discorso allegorico per toccare direttamente il cuore dell’uditore.
Cacciari: È proprio la capacità di Agostino di «mettere in immagine» quella che poi affascinerà la grande poesia, da Dante a Petrarca. Vorrei toccare anche il tema dell’invocazione nel suo rapporto con quell’inquietudine – o meglio, quell’infirmitas – di cui parlavamo prima. Non c’è dubbio che per Agostino l’infirmitas dell’uomo è condizione radicale, ontologica di questo esserci che indaga la verità. Nemmeno l’imitazione di Cristo può guarire l’uomo da questa radicale infirmitas, perché la legge di Cristo è puro dono. Questo è un tema di Agostino che ritroviamo nella filosofia moderna, a Port Royal, in Pascal, in Kierkegaard…
Martini: Il pessimismo agostiniano…
Cacciari: Non c’è dubbio. Ed è questo Agostino che maggiormente interroga la Chiesa…
Martini: È l’Agostino che ha interrogato Lutero, e poi tutta la Riforma, Giansenio, e ancora oggi ci tocca perché siamo ancora un po’ divisi – esagero – tra una concezione pessimista in senso agostiniano e una più compiacente verso la povertà umana bisognosa di sostegno e di consolazione; quella di chi pensa che in fondo – via – l’uomo è buono. Agostino invece parte da una percezione paolina dell’assoluta necessità della salvezza in Cristo di una peccaminosità umana irrimediabile.
Cacciari: Una infirmitas radicale.
Martini: Sì, c’è un Agostino «scomodo» nel suo pessimismo, come «scomodo» è san Paolo, a cui lui si rifà soprattutto nella Lettera ai Romani. «Scomodo» soprattutto per un cattolicesimo troppo attento a costruirsi come sistema di società e come sistema culturale senza falle e senza rughe. Ma non «scomodo» per un cattolicesimo che tenendo conto dell’infirmitas umana tutto gioca sulla misericordia di Dio e quindi riscopre non solo nella Lettera ai Romani ma anche in Luca, nei Vangeli, quell’insegnamento primordiale della misericordia che mostra un Dio amico e perdonante. Quando questo concetto scompare o perlomeno si attenua di fronte al bisogno di tenere insieme una società attraverso leggi identificanti, allora è chiaro che Agostino diventa «scomodo».
Cacciari: Si potrebbe dire che il percorso luterano è dall’infirmitas alla condanna, mentre quello agostiniano è dall’infirmitas all’invocazione.
Martini: Dall’infirmitas all’invocazione e poi alla certezza che la grazia cambia il cuore dell’uomo: in questo senso la tradizione cattolica è sempre stata molto coerente. La grazia è capace di mettere il cuore dell’uomo in una condizione sempre debole, sempre fragile, sempre da recuperare, ma tuttavia capace di amare davvero. Credo invece che un certo pessimismo che si rifà a sant’Agostino ritiene che l’uomo non sia capace di amore gratuito.
Cacciari: Sono molto d’accordo con quello che Lei dice. Credo che ci riporti tra l’altro al De civitate Dei. Qui appare evidente che l’uomo è chiamato da una Voce che egli sa in qualche modo riconoscere e nominare. È il frui nella sua opposizione all’uti. Questo è chiarissimo in un’altra delle grandi opere di Agostino, che è il commento a Giovanni dove addirittura questa prospettiva esplode nel famoso «ad hoc Deus vocat… Ne simus homines». Ora questo uomo capax divini di Agostino non c’è in Lutero.
Martini: Mi viene in mente un altro passo dei sermoni, il «Cantate Domino canticum novum», «Cantate al Signore un nuovo canto». È possibile dunque cantare questo canto con la pienezza di una personalità rinnovata che fa vibrare la nostra anima.
Cacciari: È straordinaria in Agostino la complessità in cui egli riesce a collocare le varie dimensioni del suo pensiero. Queste convivono in un drama polidimensionale: e intendo la dimensione del frui e quella dell’uti, l’inquietudine e l’infirmitas, la misericordia… Negli altri Padri e Dottori della Chiesa non si trova una simile complessità. Nemmeno in Tommaso.
Martini: Io penso che ci sia una spiegazione biografica. Tommaso è vissuto nella quiete relativa dell’insegnamento. Agostino, in una condizione paradossale: era un uomo coltissimo ma relegato in un cantuccio dell’impero; egli amava immensamente la Chiesa ma la sua piccola chiesa di Ippona era divisa in due – c’era un altro vescovo nella stessa città con il quale doveva fare i conti. Insomma la sua era una condizione lacerante. La drammaticità dell’esistenza, il senso della lacerazione, del peccato, della morte, tutto questo lui lo provava ogni giorno personalmente e quindi lo faceva riecheggiare nelle sue opere. Quando parliamo delle diverse sensibilità all’interno della Chiesa dobbiamo ricordare che la ricchezza del cattolicesimo è di essere poliedrico. Non lo si può definire per un solo aspetto. C’è una diversità straor
dinaria e una continua trasformazione, un continuo adattamento alla realtà. Lo stesso Agostino viveva in una Chiesa estremamente diversificata. Allora esistevano addirittura divisioni tra Chiese. Ma tutto questo non ha impedito una continuità. E oggi ci troviamo in una condizione – il cattolicesimo – molto più unitaria. Nella quale tuttavia permangono teologie, forme di pensiero, movimenti diversissimi tra loro e spesso in tensione dialettica forte. Questo fermento rende più interessante il cattolicesimo, soprattutto per chi lo vive dall’interno. Tornando ad Agostino, egli ha operato una sorta di traduzione delle intuizioni fondamentali di Paolo, fondamentale per ogni espressione del pensiero cristiano.
Cacciari: Il pensiero di Agostino denota una feconda stratificazione. Non parlo solo della dialettica tra civitas hominis e civitas Dei, perché in realtà ognuna di queste forme si sdoppia, si ramifica… La civitas Dei non è affatto una Chiesa monolitica. La Chiesa è militante in hoc saeculo – militans vuol dire letteralmente «in guerra in sé». D’altronde in Agostino manca totalmente la dimensione apologetica. Parlerei di realismo, di disincanto agostiniano, ragione per cui i grandi scienziati della politica moderna sono, secondo me, «agostiniani». A cominciare da Machiavelli. Questo disincanto deriva proprio dalla concezione della complessità di tutte le strutture umane, ivi compresa la Chiesa.
Martini: Ricordo un sermone di Agostino che è molto significativo a questo proposito. È là dove Egli commenta la parabola della zizzania e del buon grano spiegando cos’è la Chiesa del suo tempo – è un gran miscuglio che il pastore deve sopportare molto. I giansenisti non riuscivano a capire questo, e con loro tutti quelli che sulla scia di Agostino volevano una Chiesa dei perfetti. Ma Agostino non viveva in una comunità di perfetti. Quando parla dei suoi problemi di vescovo, dei suoi preti, si vede che è molto paziente, molto comprensivo, consapevole di una situazione in cui male e bene si mescolano continuamente. Mi colpisce che nelle opere di Agostino non si trovi una parola di risentimento o anche di amarezza. Pur riconoscendo tutta la malizia che c’è nell’uomo, la sua opera ha sempre una spinta positiva. In termini attuali, potremmo dire che non è un catastrofista.
Cacciari: Vorrei riprendere il tema dell’attualità di Agostino sul piano filosofico generale citando un altro dei suoi grandi libri, il De Trinitate. Senza del quale non si capisce una sola parola di Schelling o di Hegel. È una filosofia del dialogo, del rapporto io-tu. Ma Agostino spiega che la vera relazione non è mai riducibile a un io-tu orizzontale, che essa è sempre trinitaria. I grandi autori della tarda classicità che Agostino frequentava, soprattutto Plotino, avevano già elaborato qualcosa di simile alla relatio non adventitia, la relazione che non si consuma. Cioè una relazione in cui l’io e il tu dialogano insieme con la verità inattingibile, e per questo il rapporto tra me e te è un rapporto non contingente. Entrambi dialoghiamo infatti, a differenza forse di quanto professato anche da parte della teologia ebraica contemporanea, nella prospettiva di una verità che non sarà mai posseduta. Dunque il dialogo tra te e me continua, non è esauribile solo se ci collochiamo in questa prospettiva.
Martini: Sono molto ammirato di come Agostino sia giunto a questo risultato da un’analisi dell’interiorità che sembra condurre al solipsismo e invece in lui attiva una circolazione formidabile, vertiginosa, che in qualche misura è propria dell’essere divino. Ma non dimentichiamo che quel trattato sulla Trinità che tanto incide nel pensiero occidentale non ha affatto la stessa importanza in Oriente. Il pensiero orientale non è sintonico con questo modo di riflettere sulla Trinità. Qui le grandi correnti della spiritualità antica divergono. Ad Agostino viene rimproverato di non aver colto sufficientemente il rapporto di diversificazione o di distinzione delle persone, per cui si ha l’impressione che per lui lo Spirito proceda ugualmente dal Padre e dal Figlio. Io sarei aperto sulle implicazioni dell’elemento dialogico nella teologia ebraica, perché in essa è sempre implicito il rapporto con l’Assoluto. Mi sembra che quando gli ebrei parlano di un rapporto io-tu implicano sempre la presenza di un mistero che non vogliono nominare. Ma questo sarebbe un angolo di lettura interessante di Rosenzweig, di Lévinas, di Buber, di questa linea di pensiero così influente nel mondo contemporaneo.
Cacciari: Nell’agostinismo più consapevole da questo rapporto dialogico trinitario deriva il carattere congetturale di qualsiasi nostro discorso intorno alla verità inattingibile. Rapimur amore indagandae veritatis. Di qui poi si giunge a Cusano e al suo trattato sulla congettura.
Martini: Non sempre questo grande tema è capito. Io tuttavia credo che sia molto intrinseco a tutto il pensiero ebraico. Non solo i nomi della verità sono congetturali, sono anche impronunciabili, quasi inaccessibili, ma restano nel fondo dell’animo ebraico. D’altronde l’idea del carattere inattingibile della verità non contrasta con la tradizione classica cattolica. Essa ha da sempre stabilito che noi non possiamo dire con parole umane chi è Dio. Possiamo solo parlare analogicamente, cioè dire qualcosa di cui Lui è al di là. Insomma, la grande linea Agostino-Anselmo ma che in Tommaso è poi codificata chiaramente. Io stesso, nella mia ultima lettera pastorale che ha per titolo «Ripartiamo da Dio», riesprimo con forza la tesi che noi di Dio non sappiamo parlare e che tutto ciò che di Lui diciamo indica qualcosa che è al di là di ciò che riusciamo ad esprimere. Gesù stesso quando parla di Dio, parla in parabole, in metafore. E quando Agostino esamina la parola «Dio», «Deus», si domanda che cosa sia questo bisillabo e comincia a sgretolare la formula verbale per mostrare come essa non sia adeguata ad esprimere il suo concetto.
Cacciari: Tuttavia, Eminenza, non c’è dubbio che la «vulgata» ha insegnato che Dio è ciò che di più grande può essere pensato e non ciò che è più grande di ogni pensiero. La «vulgata» si è fermata alla prima prova anselmiana dell’esistenza di Dio e non ha proceduto oltre. Mentre il centro della tradizione è la seconda prova di Anselmo, che finisce nell’invocazione.
Martini: C’è un’affermazione del teologo Karl Rahner molto illuminante al riguardo. È quando dice – cito a memoria: «Io ho sempre detto che in tutto ciò che ho detto di Dio devo affermare che Egli è al di là di ciò che dico, ma siccome ripeterlo sembra tedioso non sempre lo ricordiamo». E da qui nasce una «vulgata»…
Cacciari: Siamo nella tradizione dell’ontoteologia. Io ho tentato di decostruire questa tradizione che concentra tutta la tradizione teologica nell’ontoteologia, ma non a caso da Kant a Heidegger si è potuto parlare di un’ontoteologia per la tradizione cristiana.
Martini: Il rischio dell’ontoteologia è presente ogni volta che si tenta d
i parlare di Dio e ci si dimentica di quanto accennavo prima sul Suo essere al di là di ogni nostra definizione. Quanto detto ci richiama al tema dell’invocazione e della preghiera, che continuamente superano le parole e i gesti della liturgia con il loro mistero e ci ricordano che siamo di fronte a qualcosa che non siamo in grado di capire. Questo è molto più importante di qualsiasi dottrina astratta. D’altronde, il cattolicesimo perfetto, puro, non è mai esistito. Il nostro è uno sforzo di ridire il messaggio evangelico in tutte le sue forme, sapendo che sarà continuamente frainteso da un’ignoranza che già gli apostoli avevano cominciato ad esprimere. Il cattolicesimo è nella storia, non al di fuori di essa. La nostra religione è poliedrica. Chi non vive la preghiera, l’invocazione, l’affidamento totale di sé al mistero senza limiti può ridursi a recitare formule matematiche scambiandole per il cattolicesimo…
Cacciari: La conversio cristiana come prassi continua…
Martini: Prassi continua, che non si trasmette solo con le parole ma con l’invocazione che va al di là di tutto quello che ho detto o pensato di dire.
Cacciari: Il tema agostiniano della conversio è particolarmente importante nel secolo di Auschwitz. Perché questa conversio è il momento del massimo nascondimento, in cui esiste solo l’abisso della tua interiorità dove trovare senso, e nient’altro fuori di te. Se «fuori» di te c’è Auschwitz, «fuori» di te abita l’assenza di senso. Hannah Arendt riscopre il tema dell’amore agostiniano proprio dopo Auschwitz – un amore radicale espresso nello straordinario commento a Giovanni: «Devi amare come Dio ti ama». Amore radicale che scaturisce da un radicale pericolo, dalla più radicale spoliazione di senso in cui possiamo imbatterci. Si può leggere Auschwitz in termini apocalittici, da pessimismo a buon mercato, oppure come una straordinaria esigenza di conversio.
Martini: Sì, è un abisso che chiama un abisso, secondo l’espressione della Scrittura. Un abisso che è oltre le parole, perché con le parole non si risolvono i problemi umani, tantomeno quello del Male. Un orrore così grande può invece suscitare un bisogno di conversione totale proprio perché ci fa capire fino a che punto l’umanità può cadere. È qui che io vedo l’inferno agostiniano: la massa dannata che si distrugge nei modi più crudeli e assurdi se non accetta la conversione. Ma questa conversione non ha nulla di solipsista. Al contrario, fa emergere la comunione profonda che lega tutti gli esseri a quell’Essere da cui tutti ricevono amore e quindi capacità di comunione. È un aspetto che Cusano definirebbe come una sorta di coincidentia oppositorum, solo che in Agostino questo non è un ragionamento speculativo ma è vita vissuta. Egli vive l’una e l’altra dimensione – quella sociale e quella interiore con la medesima naturalezza. Sarebbe forse interessante se Lei volesse, caro Cacciari, riprendere in conclusione il tema di come l’uti e il frui condizionano l’esistenza della città.
Cacciari: Sono senza dubbio i due grandi poli dell’antropologia e anche della concezione politica cristiana. Con il suo caratteristico realismo Agostino vede bene che la città dell’uomo non può fare a meno della dimensione dell’uti. Anche il cristiano sperimenta i commerci di Babilonia. Non possiamo astrarci da questo negotium. Questo forse distingue la grande mistica occidentale da quella orientale. In Occidente non c’è mai stata astrazione, aspirazione a un otium perfetto, a una vita angelica. Nella tradizione occidentale c’è Benedetto, c’è Francesco – ma questa dimensione è costantemente in tensione con il frui. E anche qui non vi è riga di Heidegger che si possa capire senza partire dalla distinzione agostiniana fra il frui e l’uti. Quando Heidegger parla della nostra mentalità, della nostra concezione della cosa come fondo a nostra disposizione, «glossa» la categoria agostiniana dell’uti. Però l’uti dissolve se stesso se si concepisce astrattamente, se non si pone in una tensione continua, in un dialogo continuo con il frui, cioè con la capacità di avere sempre nei confronti della cosa un atteggiamento di amore gratuito, non per averla a disposizione ma per benedirla. L’uti «difende» anche se stesso nella misura in cui matura la consapevolezza di essere in dialogo, in tensione, in antagonismo con il frui. Dante ha rappresentato meravigliosamente questo rapporto. Il peccato dantesco è esattamente questo: la dimensione dell’uti astrattamente concentrata su se stessa nel proprio egoismo, nel proprio idiotismo. Ma così distrugge se stesso, condanna se stesso, cioè trascorre da cosa a cosa, da riva a riva, da possesso a possesso fino al naufragio. La dimensione dell’uti è il cattivo infinito che non giunge mai a quiete, è la dimensione dell’estetico in Kierkegaard – tutti commenti alla dialettica agostiniana. La lezione di Agostino ci ricorda che l’assolutizzazione della dimensione dell’uti comporta la distruzione degli stessi interessi egoistici. Di qui l’appello al frui, che può corrispondere alla dimensione comunque infirma della città dell’uomo. La civitas hominis in tanto può peregrinare in quanto mantiene la propria complessità. La Gerusalemme celeste, cioè la pace vera, scende dal Cielo, non viene prodotta dall’uomo. La discriminazione rispetto alle utopie sociali e politiche non potrebbe essere più netta. Se non l’accetti, sei pelagiano.
Martini: Vorrei concludere con un accenno un po’ autobiografico. Quando sono stato nominato arcivescovo di Milano dovevo scegliere un motto da mettere nella partecipazione. Mi è venuto in mente un testo agostiniano molto bello, in cui il santo dice: Otium sanctum quaerit caritas veritatis, negotium justum suscipit necessitas caritatis. Agostino mette in relazione otium e negotium. Lui preferisce l’otium, e io applicavo questa sua frase a me perché anch’io preferivo la ricerca biblica solitaria. Questa però è caritas veritatis: l’otium è frutto di carità della verità. Però anche il negotium può essere indotto dalla necessità della carità. Le due cose stanno insieme come il frui e l’uti, perché dalla loro armonica correlazione nasce la personalità completa. E quindi il vescovo da una parte contempla con gioia la verità, dall’altra serve le necessità quotidiane di una diocesi, così come chiedono le urgenze del momento. Sono stato recentemente a Roma per la beatificazione del cardinale Schuster, arcivescovo di Milano dal 1929 al 1954. Un contemplativo, un uomo tutto del frui, ma che ha servito la diocesi come un facchino – lo diceva lui stesso. Si è dedicato con gratuità al servizio di una situazione molto difficile, molto discussa. Ora, non è stata beatificata solo l’esemplare vita evangelica del cardinale Schuster, ma anche la sua azione pastorale. Egli riuscì a creare intorno a sé u
na comunità cristiana molto forte. Penso a laici come Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira, Marcello Candia, a molti religiosi e religiose. La dimensione del frui ha veramente coinvolto un popolo. Insomma, per usare un’immagine, direi che la santità viene a grappoli, non è soltanto un acino ma il loro insieme che diventa lievito, sale della terra, luce del mondo. Quel buon grano di cui parlava Agostino e che malgrado tutto vince la zizzania.
(3 settembre 2012)
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