Caso Foodora: la Cassazione difende i rider, la politica i loro padroni

Alessandro Somma

Dopo tre anni di battaglia legale, i rider di Foodora ottengono finalmente giustizia: sono lavoratori subordinati, e non autonomi come vuole la piattaforma. Si tratta di una vittoria significativa, di un segnale importante per il capitalismo digitale e per la voracità con cui punta allo sfruttamento del lavoro. È però un segnale debole, perché al coraggio dei giudici corrisponde l’inadeguatezza della politica, se non la sua complicità con i nuovi padroni, a beneficio dei quali ha edificato e presidiato il quadro delle regole entro cui hanno potuto prosperare. Regole che si avviano a divenire il punto di riferimento per una complessiva riforma del lavoro sempre più ridotto a merce.

Il coraggio dei giudici

Nel 2017 alcuni fattorini addetti alla consegna di pasti, i cosiddetti rider, chiedono al Tribunale di Torino di riconoscere la loro condizione di lavoratori subordinati. Foodora, il loro datore di lavoro, sostiene però che i rider sono lavoratori autonomi in quanto per le consegne non utilizzano mezzi messi a disposizione dall’impresa: la bicicletta e lo smartphone sono di loro proprietà. Inoltre non hanno alcun obbligo contrattuale di rispondere alle chiamate: sono come i Pony Express degli anni Novanta[1], che la Corte di Cassazione aveva negato fossero lavoratori subordinati facendo leva proprio su questo aspetto[2].

Il Tribunale decide a favore di Foodora[3], motivo per cui i rider impugnano davanti alla Corte d’appello di Torino, che accoglie in parte le loro richieste. I giudici non riconoscono i rider come lavoratori subordinati, in quanto manca tra essi e il loro datore una relazione di “potere gerarchico disciplinare”, e tuttavia non ritengono che essi siano pienamente lavoratori autonomi. Appartengono a un terzo genere, quello dei lavoratori autonomi “etero-organizzati”, a cui un recente provvedimento riserva un trattamento particolare in quanto, pur non essendo subordinati, neppure sono liberi da condizionamenti: forniscono “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. A queste condizioni, stabilisce il provvedimento, “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato”[4]. Non però tutta la disciplina, ma solo alcuni aspetti comunque importanti: secondo i giudici l’estensione non vale per le norme sul licenziamento, mentre vale per quelle su “sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita (quindi inquadramento professionale), limiti di orario, ferie e previdenza”. Il che porta nel nostro caso ad applicare i livelli salariali previsti dal Contratto collettivo nazionale della logistica[5].

La decisione d’appello viene impugnata da Foodinho, che nel frattempo ha acquisito Foodora[6] e si rivolge alla Corte di Cassazione chiedendo di decidere nel senso già indicato dal Tribunale di Torino. La Corte ha appena reso la sua decisione, vien da dire a soli due anni e mezzo dal ricorso che ha originato il primo grado di giudizio, accogliendo le richieste dei rider ben oltre quanto aveva fatto la Corte d’appello di Torino.

I giudici di legittimità hanno innanzi tutto inquadrato la filosofia di fondo che ispira i più recenti interventi in materia di lavoro alla luce delle recenti “innovazioni tecnologiche”. Hanno per un verso evidenziato un favore per l’estensione del contratto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato come “forma contrattuale comune”[7], e per un altro rilevato la tendenza a colpire gli abusi di chi punta a impedire il riconoscimento della subordinazione ricorrendo a espedienti: ad esempio far apparire autonomo il lavoratore comunque qualificato che subisce “l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione”.

Più precisamente i giudici distinguono tra “autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto”, ovvero la loro libertà di rispondere o meno alle chiamate, e autonomia nella “fase funzionale di esecuzione del rapporto”, ovvero nel momento in cui hanno accettato la chiamata. E proprio di questa seconda autonomia non si trova traccia nell’attività dei rider, che sono tenuti a pagare una penale se non consegnano il cibo entro un termine definito, e che sono inoltre obbligati ad assolvere a compiti specifici: come sostare in punti prestabiliti per attendere gli ordini, controllare la corrispondenza tra l’ordine ricevuto e il cibo ritirato dal ristorante e notificare l’avvenuta consegna. A queste condizioni il rapporto di lavoro del rider non può considerarsi di un tipo intermedio tra l’autonomo e il subordinato: è direttamente subordinato perché presenta le caratteristiche che il legislatore ha inteso valorizzare “in una prospettiva anti-elusiva”, ovvero per colpire le condotte dei datori di lavoro intenzionati ad aggirare le tutele ricondotte al vincolo di subordinazione. Con il risultato che ai rider non si applicano solo alcune disposizioni in materia di lavoro subordinato: essi beneficiano “della disciplina integrale del lavoro subordinato”[8].

L’inadeguatezza della politica

Le argomentazioni della Corte di Cassazione appaiono decisamente forzate laddove identificano una volontà del legislatore di tutelare il lavoro subordinato a tempo indeterminato, se non altro perché la ricavano dal Jobs Act: non certo un baluardo per la tutela dei lavoratori. La forzatura è però un espediente retorico utile a produrre un risultato di tutto rispetto dal punto di vista di chi vuole contrastare l’attacco al lavoro che caratterizza le politiche degli ultimi decenni. E che ha visto proprio nel Jobs Act un simbolo dell’attuale involuzione, ben rappresentato dalla sostanziale abolizione della reintegra dei lavoratori licenziati senza giusta causa: come un tempo previsto dal celeberrimo art. 18 Statuto dei lavoratori.

Il tutto mentre si è oramai affermato quanto viene definito in termini di capitalismo delle piattaforme: il capitalismo potenziato dall’utilizzo delle tecnologie digitali, nel quale la piattaforma si manifesta come nuova forma di impresa e i suoi dipendenti come i nuovi sfruttati. Mettendo così in luce la sostanza di quanto viene rappresentato come la marcia verso un radioso futuro di progresso: in realtà una rovinosa regressione verso un ordine economico e un mercato del lavoro di tipo ottocentesco[9].

Sarebbe in effetti bastato concentrarsi sull’uso delle tecnologie da parte delle piattaforme per far emergere il lavoro dei rider come un lavoro di tipo subordinato, oltretutto con caratteristiche se possibile più marcate di quelle che caratterizzano la tradizionale relazione di lavoro. Si sa infatti che le piattaforme utilizzano algoritmi per gestire ogni singolo aspetto del servizio offerto, inclusi evidentemente i rapporti con i rider. Con il risultato che questi possono formalmente rifiutare le chiamate, ma di fatto la scelta se e quando farli lavorare dipende dalla loro incondizionata disponibilità al servizio, oltre che dalla velocità di esecuzione e magari dalle valutazioni dei clienti, verificate attraverso un penetrante sistema di controllo: tanto da ritenerlo un vero e proprio taylorismo digitale[10].

Se così stanno le cose, la politica dovrebbe intervenire per incidere in profondit&agrav
e; sul modo di intendere e disciplinare il lavoro, per restituirgli la funzione attribuitagli dalla Costituzione. Lì rappresenta il fondamento del patto di cittadinanza, per cui attraverso il lavoro si assolve al dovere di “svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4), e si ottiene in cambio una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36), oltre al “pacco standard di beni e servizi il cui possesso” rende il lavoratore “un cittadino nella pienezza delle sue prerogative”[11].

Invece la politica rincorre le trasformazioni del capitalismo, spesso per assecondarle e più raramente per contrastarle con provvedimenti del tutto inadeguati alla sfida posta del mercato e dai suoi operatori affamati di profitto: in parte perché non incidono in modo significativo sul fenomeno che intendono disciplinare, e in parte perché giungono di norma fuori tempo massimo. Per non dire dei casi in cui si annunciano con grande enfasi provvedimenti destinati a restituire dignità al lavoro, riposti però nel cassetto dopo aver constatato la contrarietà delle imprese, e deciso di non fare nulla per opporvisi. Come nella vicenda del cosiddetto decreto dignità voluto dall’allora Ministro del lavoro Luigi di Maio, che in un primo momento comprendeva una disposizione di questo tenore: è lavoratore subordinato “chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore, pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione di un orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta, se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato della prestazione e se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia la propria ma del datore di lavoro”[12].

Recentemente il legislatore ha invece inteso allineare la disciplina del lavoro a quanto stabilito dalla Corte d’appello di Torino, escludendo così la possibilità di considerare i rider lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Un provvedimento ha in effetti ampliato le ipotesi in cui si estende al lavoro autonomo la disciplina del lavoro subordinato, definite con esplicito riferimento al lavoro digitale, ovvero ai casi in cui “le modalità di esecuzione della prestazione” lavorativa “siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”. Come sappiamo, l’estensione riguardava prima “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Ora le prestazioni di lavoro devono essere solo “prevalentemente personali” e inoltre non si fa più riferimento alla necessità che il lavoro sia etero-organizzato con specifico riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro[13]. Da rilevare che qui si intende il lavoro digitale in genere e quindi non solo quello svolto dai rider, ma che l’equiparazione non coinvolge la tutela in caso di licenziamento, e ovviamente la garanzia delle libertà sindacali e del diritto di sciopero.

Lo stesso provvedimento si è poi occupato di “lavoro tramite piattaforme digitali” nei casi in cui non ricorrono gli estremi per la parziale estensione della disciplina del lavoro subordinato. Qui non ci si rivolge però ai lavoratori delle piattaforme in genere, bensì solo ai “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore” assimilati: i soli rider. A questi ultimi si riconoscono alcune prerogative importanti, come il diritto alla “copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” e il divieto di retribuzione a cottimo: i rider “non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”[14].

La complicità della politica

Si dirà che queste misure sono forse inadeguate e destinate a incidere su una frazione minima del mondo del lavoro sconvolto dalla digitalizzazione, ma che comunque vanno nella direzione giusta: preludono a un possibile cambio di rotta. Sono però misure che necessitano sovente di numerosi interventi per renderle efficaci o addirittura applicabili: come nel caso delle tutele assicurative, che richiedono ulteriori precisazioni per poter finalmente incidere sulla vita dei rider.

Il punto però è un altro. Quella digitale si presenta come una tipologia di lavoro sottoposta a forme di controllo particolarmente penetranti, in quanto tale chiaramente rientrante nello schema della subordinazione. Evitare di riconoscerlo significa impedire l’attivazione delle tutele accordate ai tradizionali rapporti di lavoro: le tutele individuali, quelle previste in caso di licenziamento in testa, ma anche e soprattutto quelle collettive. Il mancato riconoscimento della subordinazione impedisce cioè ai lavoratori digitali di accedere all’organizzazione e alla lotta sindacale, contribuendo così a mantenerli in uno stato di cronico e irrimediabile isolamento di fronte al mercato. A condannarli a reagire in modo automatico agli stimoli di questo: a subire la legge del libero incontro di domanda e offerta di lavoro, senza poter opporre alla logica della concorrenza quella della giustizia sociale.

Il lavoro digitale senza il riconoscimento della subordinazione è insomma un lavoro spoliticizzato, incapace di alimentare il conflitto redistributivo, plasmato a immagine e somiglianza di un ordine economico che degrada l’inclusione sociale a inclusione nel mercato. Un lavoro elevato a punto di riferimento per il complesso delle riforme che non riguardano i soli settori più direttamente interessati dallo sviluppo tecnologico: la miseria del lavoro digitale simboleggia e anticipa la miseria del lavoro in una società nella quale il circuito della politica si è condannato ad assecondare i desiderata provenienti dal circuito dell’economia. Una società plasmata da leggi dello Stato ricalcate sulle leggi del mercato, spesso ottenute con il ricorso alla violenza e all’illegalità, come ampiamente documentato dalle vicende che hanno riguardato il settore del trasporto pubblico non di linea sconvolto dalle pratiche della piattaforma Uber[15].

Il tutto mentre il ricatto occupazionale viene incentivato anche dalla libera circolazione dei fattori produttivi, vero e proprio mantra posto a fondamento dell’ordine economico. È la libera circolazione dei capitali a rappresentare il rischio maggiore, dal momento che consente e anzi incentiva aperture e chiusure di imprese in funzione di quanto viene loro di volta in volta offerto dagli Stati. I quali alimentano così la spirale perversa di una competizione al ribasso tra chi attira più investitori abbassando i salari e le tutele del lavoro, oltre alla pressione fiscale sulle imprese, quest’ultima alla base del crescente ridimensionamento dei sistemi di welfare.

Per non dire poi della complicità che la politica mostra nel momento in cui asseconda le privatizzazioni e le liberalizzazioni, magari sul presupposto che in questo modo viene incrementata la concorrenza e con essa la qualità ed efficienza dei beni e dei servizi a beneficio dei consumatori. La concorrenza passa però dalla precarizzazione e svalutazione del lavoro e non anche dall’innovazione tecnologica, utilizzata semmai per moltiplicare i profitti delle imprese. Oppure per alimentare un’altra spirale perversa: quella per cui occorre abbattere il costo di beni e servizi per renderli accessibili a consumatori che sono allo stesso tempo lavoratori sempre più precari e impoveriti.

Insomma, il problema della politica non è solo l’inadeguatezza degli interventi volti a fronteggiare le trasformazioni del capitalismo, e a monte a comprenderli nella loro reale portata. Il problema della politica è la sua complicità con i nuovi volti del capitalismo, il costante allineamento alle sue mutevoli necessità, segno di uno Stato che ha deciso di stare dalla sua parte e di sacrificare il lavoro sull’altare di questa scelta di campo. Da questo punto di vista la decisione della Cassazione con cui si è riconosciuto al lavoro dei rider il carattere della subordinazione, è un notevole contributo a riaffermare le ragioni del lavoro. Resta però una goccia nel mare e quindi un contributo irrilevante se la politica non muterà rotta: se non lo farà subito, e se non lo farà in modo radicale.

NOTE

[1] V. S. Bonetto, Il caso Foodora, in A. Somma (a cura di), Lavoro alla spina e welfare à la carte. Lavoro e Stato sociale ai tempi della gig economy, Milano, 2019, p. 131 ss. Sergio Bonetto, assieme a Giulia Druetta, è l’avvocato che ha difeso i rider Foodora in tutti e tre i gradi di giudizio.

[2] Corte di Cassazione, 20 gennaio 2011 n. 1238.

[3] Tribunale di Torino, 7 maggio 2018 n. 778.

[4] Art. 2 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81.

[5] Corte d’appello di Torino, 4 febbraio 2019 n. 26.

[6] Foodinho è stata poi ceduta a Gloovo.

[7] Formula utilizzata dall’art. 1 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81.

[8] Corte di Cassazione, 24 gennaio 2020 n. 1663.

[9] A. Somma, Il diritto del lavoro dopo i Trenta gloriosi, in Lavoro e diritto, 2018, pp. 307 ss.

[10] S. Bellucci, E-Work. Lavoro, rete, innovazione, Roma, 2005.

[11] U. Romagnoli, Autonomia e subordinazione del diritto del lavoro, in Lavoro e dritto, 2016, p. 568.

[12] Disposizione ovviamente scomparsa dal testo approvato: decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, convertito con modificazioni nella legge 9 agosto 2018 n. 96.

[13] Art. 1 decreto legge 3 settembre 2019, n. 101 così come convertito nella legge 2 novembre 2019 n. 128.

[14] Ibidem.

[15] E. Mostacci e A. Somma, Il caso Uber. La sharing economy nel confronto tra common law e civil law, Milano, 2016.
(27 gennaio 2020)





MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.