Castellucci, dov’è la blasfemia?
Vittorio Bellavite
, coordinatore di “Noi Siamo Chiesa”
In una mia dichiarazione diffusa venerdì 20 sulla contestata rappresentazione dello spettacolo “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” al teatro Franco Parenti di Milano scrivevo che, prima di aspre critiche come quelle del Vaticano e della curia di Milano, sarebbe stato necessario che chi obiettava vedesse la pièce, cosa che personalmente mi impegnavo a fare.
Ieri sono stato alla prima e mi sento impegnato a riferire, anche per le tante mail che ho ricevuto che hanno dimostrato interesse a tutta la vicenda. Il teatro era fortemente controllato dalle forze di polizia. A me piace il teatro ma non sono un grande esperto e, ciò premesso, espongo le mie impressioni.
Lo spettacolo è sgradevole da vedere. Ci sono solo due attori in scena, un vecchio padre incontinente e un figlio, giovane, bello e ben vestito, che esercita nei suoi confronti ripetutamente la pietas filiale, pulendo le sue nudità dai suoi escrementi esibiti sul palcoscenico. Indubbiamente scioccante, volutamente provocatorio. Sullo sfondo un enorme pannello con lo splendido volto di Antonello da Messina, che illumina questa rappresentazione della sofferenza, del degrado, del rapporto padre-figlio. Si intuisce l’esasperazione del figlio che, in fine, si appoggia con le braccia aperte, al volto del Cristo, mentre esso, poco dopo, esso viene irrorato da un liquido scuro e da un occhio si sprigiona un fascio di luce. Sul volto appare il biblico “You are my sheferd” (“tu sei il mio pastore”, salmo 23) e anche, per un attimo (per restare poi in ombra) un “not” (“you are not my sheferd”).
Non è facile capire un tale spettacolo. Mi pare che la sua interpretazione sia lasciata al singolo spettatore.
Io, da credente, posso vedervi il Cristo, presente alla sofferenza e alla tragedia dell’umano, che viene alla fine riconosciuto come salvatore, nonostante tutto e con la stessa risposta di Giobbe, da parte del figlio con le mani sul volto e la scritta biblica.
Ma lo spettacolo può essere visto anche come una manifestazione della sofferenza del vivere, intrisa di umanità, con il figlio che si rivolge al Cristo per rifiutarlo o per interrogarlo in modo muto e doloroso. Anche la fuggevole comparsa del “not” indica, in tono di dubbio, una soluzione diversa del rapporto col volto, quella dell’impotenza o del rifiuto. Insomma uno spettacolo che fa soffrire e che fa pensare col volto di Cristo che fissa in modo costante lo spettatore e sembra intervenire silenziosamente nell’area dei grandi interrogativi di senso che accomunano credenti e non credenti, perché entrambi uomini del dubbio e della ricerca.
Sulla questione della blasfemia o meno o di qualsiasi offesa gratuita ai sentimenti dei credenti, la risposta è nelle cose: essa non esiste in nessun modo, questione chiusa.
La risposta agli interrogativi critici del mio testo precedente è di conferma della inspiegabile arrendevolezza dei vertici ecclesiastici (curia di Milano e Vaticano) e dell’Avvenire nei confronti della “campagna” degli ultras della destra cattolica e della sprovvedutezza (al limite della mancanza di professionalità) nel dire (Padre Lombardi, portavoce del Papa) che “si rappresenta un’opera che risulta offensiva delle convinzioni religiose dei cristiani”, senza aver visto lo spettacolo. La curia di Milano, che per prima ha preso le distanze dalla direzione del teatro, è stata contestata da numerosi importanti esponenti della cultura milanese nel dibattito che ha fatto seguito allo spettacolo. Mi chiedo se ci troviamo di fronte alla prova che in diocesi si sta delineando un nuovo corso.
(26 gennaio 2012)
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