*
La crisi catalana sembrava sul punto di cronicizzarsi. Inesorabilmente. Nulla era cambiato dopo i fatti di ottobre e le elezioni regionali di dicembre. Da una parte, il governo di Mariano Rajoy si negava ad aprire canali di dialogo con Barcellona, mantenendo la delega ai tribunali di una questione essenzialmente politica. Dall’altra, le formazioni indipendentiste catalane confermavano la linea intransigente con l’elezione alla presidenza della Generalitat di Quim Torra, esponente di un nazionalismo conservatore e identitario e uomo di fiducia dell’ex presidente Carles Puigdemont. Si continuava con la logica del muro contro muro, come nell’ultimo biennio. Ed anzi si accentuavano i caratteri radicali, con il rischio di una frattura della società sempre più profonda.
A volte, però, degli avvenimenti inattesi scompigliano completamente le carte sul tavolo. Il 23 maggio l’esecutivo di minoranza del Partido Popular (PP) riusciva a far approvare dalle Cortes di Madrid il bilancio del 2018, con i voti di Ciudadanos e del Partido Nacionalista Vasco (PNV): Rajoy tirava un sospiro di sollievo, convinto di poter arrivare fino a fine legislatura, nel 2020. Il giorno successivo si conosceva però la sentenza del caso Gürtel, una “efficace struttura di corruzione istituzionale” che ha visto protagonista il PP considerato “partecipante a titolo lucrativo”: 351 anni di carcere per 29 imputati, tra cui l’ex tesoriere Luis Bárcenas e altri dirigenti locali del partito conservatore. Pochi giorni prima era stato incarcerato anche Eduardo Zaplana, ex ministro ai tempi di Aznar.
La corruzione. È stata questa la ragione della presentazione della mozione di censura da parte del leader socialista Pedro Sánchez. Pochi scommettevano sulla sua vittoria, in primis il PP. Ma Sánchez ha stupito tutti, ancora una volta. Forse anche se stesso. Come quando, nella primavera del 2017, era riuscito a vincere, contro vento e marea, le primarie del PSOE, dopo che nell’autunno precedente era stato defenestrato dalla guida del partito per la sua opposizione a favorire la nascita di un nuovo governo dei popolari. E ora si trova inaspettatamente nel Palacio de la Moncloa. Finisce così l’epoca Rajoy, iniziata nel novembre 2011, nel pieno della crisi economica. Ne inizia una nuova, estremamente incerta.
La forza e la debolezza del governo Sánchez
È successo tutto molto rapidamente. Già il 2 giugno Sánchez giurava in presenza del re Filippo VI, senza Bibbia e crocifisso, come nuovo presidente del governo. I socialisti recuperavano iniziativa e centralità politica; Rajoy, visibilmente colpito, si dimetteva anche dalla presidenza del PP, aprendo la lotta per la successione; Podemos, in difficoltà negli ultimi mesi, rientrava in partita con l’appoggio a Sánchez, mentre Ciudadanos si ritrovava spiazzato, dopo aver giocato tutto sul logoramento dei popolari e sulla convinzione di sostituirli al governo del paese alle prossime elezioni.
In pochi giorni Sánchez ha formato un esecutivo i cui tratti predominanti sono l’europeismo e il femminismo, con ben undici donne su diciasette ministri. Un record. E per di più figure di prestigio, con una lunga formazione alle spalle, come l’ex direttrice generale del Bilancio della Commissione Europea Nadia Calviño (all’Economia), la giurista Dolores Delgado (alla Giustizia) o la veterana Carmen Calvo (vicepresidentessa, all’Uguaglianza), oltre all’ex presidente del Parlamento Europeo Josep Borrell (agli Esteri) e al giudice Fernando Grande-Marlaska (all’Interno). Un governo progressista, anche se con diverse figure che non dispiacciono nemmeno a Ciudadanos e ai popolari, in primis Grande-Marlaska e Borrell. Un governo che, promettendo “rigenerazione democratica, stabilità finanziaria, rispetto degli impegni con l’Unione Europea e convivenza territoriale”, parla chiaramente a Bruxelles in un momento di grande difficoltà per l’UE: un messaggio chiaro, ribadito con la vicenda dell’Aquarius a cui il nuovo premier socialista ha aperto il porto di Valencia, mentre l’Italia di Salvini e Di Maio si avvicina sempre di più al gruppo di Visegrad. Nonostante la grana del ministro della Cultura e allo Sport, Màxim Huerta, che si è dimesso dopo appena sette giorni per uno scandalo fiscale ed è stato sostituito dall’ex direttore del Museo Reina Sofia, José Guirao, il governo Sánchez è stato ben accolto dall’opinione pubblica e i sondaggi danno già i socialisti come primo partito, cosa impensabile fino a qualche settimana fa.
Il tallone d’Achille del governo Sánchez è però la sua debolezza parlamentaria. Quello del PSOE è infatti un governo monocolore che può fare affidamento solo su 85 deputati nelle Cortes di Madrid, quando la maggioranza assoluta è di 176. Dovrà dunque cercare i voti, come è stato fatto nella mozione di censura, di ben sette formazioni: non solo Unidos Podemos, i valenzani di Compromís e le confluenze legate al partito di Pablo Iglesias (En Comú Podem; En Marea), che sommano 71 deputati, ma anche, e soprattutto, i nazionalisti baschi (i 5 del PNV e i 2 della sinistra abertzale di EH Bildu) e gli indipendendisti catalani (i 9 di Esquerra Republicana de Catalunya e gli 8 del Partit Demòcrata Europeu Catalá). I margini sono strettissimi. Una cosa è mettere tutti d’accordo per scalzare Rajoy, un’altra, ben diversa, per approvare un bilancio o tentare di risolvere la crisi catalana. Un’impresa difficile tenendo conto che Sánchez ha a disposizione solo metà legislatura, il bilancio del 2018 è stato disegnato dal governo Rajoy e il PP ha la maggioranza assoluta in Senato, oltre che i presidenti delle due camere. Senza contare che l’opposizione di popolari e Ciudadanos sarà durissima: già ci si burla del governo soprannominandolo Frankenstein, un’accozzaglia senza futuro, appoggiato da chi vuole “rompere la Spagna”, in riferimento agli indipendentisti catalani.
Una delle principali incognite è quella relativa alla durata dell’esecutivo. Sánchez aveva dichiarato che il suo obiettivo con la mozione di censura era quello di convocare nel giro di un anno massimo nuove elezioni, ma la maniera in cui si è disegnato il nuovo governo dà l’impressione che la volontà sia quella di durare. Due saranno i momenti chiave che potrebbero mettere fine alla legislatura: l’approvazione del nuovo bilancio per il 2019 e, soprattutto, le elezioni della prossima primavera, quando non si voterà solo alle Europee, ma anche in tutti i Comuni e in tredici regioni su diciasette. Lì si giocherà la battaglia per capire in che direzione andrà la Spagna nel futuro.
Una volontà di distensione e di dialogo
Al di là della propaganda delle destre, non si può proprio affermare che il governo Sánchez abbia fatto concessioni agli indipendentisti. Il nuovo ministro degli Esteri, Josep Borrell, si è speso ripetutamente a favore dell’unità della Spagna, partecipando anche alla manifestazione organizzata l’ottobre scorso da Societat Civil Catalana, mentre la vicepresidentessa Carmen Calvo è stata la responsabile del PSOE che ha negoziato con Rajoy l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, che ha portato al commissariamento della Catalogna.
Ma Sánchez, oltre che per le sue convinzioni, doveva muoversi necessariamente in questo modo per evitare una fronda interna al suo stesso partito e una campagna ancora più dura da parte di PP, Ciudadanos e di buona parte dell’opinione pubblica spagnola. Gli indipendentisti non hanno gradito, ricordando che il loro non è stato un voto a favore di Sánchez, ma solo contro Rajoy. E che non si aspettano granché dal nuovo governo. In realtà però, se scostiamo il velo dei discorsi obbligati rivolti alle proprie parrocchie, molti pensano il contrario. E in queste prime settimane si sono visti i primi segnali di una chiara volontà di distensione e dialogo.
Innanzitutto, sono cambiati gli interlocutori. Non ci sono più Rajoy e Puigdemont, per quanto l’ex presidente catalano influisca notevolmente sul governo della Generalitat dal suo “esilio” tedesco. Sánchez e Torra si trovano inaspettatamente a giocare una partita che mai avrebbero immaginato di giocare. In secondo luogo, è cambiato il tono: per quanto nessuno abbia cambiato posizione – i socialisti ribadiscono la necessità di rispettare la Costituzione e lo Statuto di autonomia catalano; gli indipendentisti rivendicano il diritto di autodeterminazione della Catalogna e la volontà di rendere realtà la Repubblica dichiarata il 27 ottobre 2017 –, abbondano le dichiarazioni a favore del dialogo. Sánchez e Torra hanno già parlato per telefono e hanno confermato un incontro nelle prossime settimane.
Ma non c’è solo questo. I segnali sono molti. Al ministero delle Politiche Territoriali è stata nominata la catalana Meritxell Batet, favorevole a una riforma della Costituzione in senso federale. Proposta che ha riaffermato come ministra e che è stata rilanciata dallo stesso Borrell. Batet si è anche detta disponibile a recuperare gli articoli dello Statuto di autonomia annullati dal Tribunal Constitucional nel 2010 e i 46 punti – una specie di Cahiers de doléances – presentati nel 2016 da Puigdemont a Rajoy, tutti meno quello riguardante la celebrazione di un referendum di autodeterminazione. La ministra del Tesoro, Isabel Celaá, ha deciso di sospendere il controllo previo delle spese della Generalitat stabilito nel settembre scorso da Rajoy. Sánchez ha poi nominato Teresa Cunillera, un’altra storica socialista catalana, come delegata del governo in Catalogna. Mentre la ministra della Giustizia, Dolores Delgado – da sempre vicina all’ex magistrato progressista Baltasar Garzón e con un’esperienza presso il Tribunale Penale Internazionale – ha proposto María José Segarra, dell’Unión Progresista de Fiscales, come procuratore generale dello Stato, in sostituzione del conservatore Julián Sánchez Melgar.
Si tratta di ruoli cruciali nelle relazioni con la Catalogna, tenendo conto delle vicende giudiziarie che vedono coinvolti i membri del precedente governo della Generalitat. Su questa stessa linea si devono leggere le dichiarazioni del ministro dell’Interno, Grande-Marlaska, e anche della ministra della Difesa, Margarita Robles, che si sono detti favorevoli allo spostamento in prigioni catalane dei dirigenti indipendentisti incarcerati nelle vicinanze di Madrid. O quelle del leader del Partit del Socialistes de Catalunya (PSC), Miquel Iceta, l’uomo di Sánchez a Barcellona, che ha difeso la scarcerazione dei dirigenti indipendentisti. Piccolissimi passi, senza ombra di dubbio, ma ad anni luce rispetto al governo di Rajoy.
Fin qui i gesti. Che cosa potrà fare però nella pratica il governo Sánchez? La riforma federale della Costituzione è impensabile attualmente. E sarebbe un azzardo, oltre che un’irresponsabilità: manca il consenso necessario e i popolari, ma anche Ciudadanos, si opporrebbero a qualunque cambiamento che non sia teso a una ricentralizzazione. Quello che si propone Sánchez è di porre le basi per un futuro aggiornamento della Magna Carta in una prossima legislatura. Aprire, insomma, scenari di futuro, oltre che favorire il dialogo e facilitare una “normalizzazione istituzionale”. La ministra Delgado ha parlato della necessità di “diminuire l’infiammazione provocata in modo irresponsabile per l’assenza di dialogo”. Batet ha ripetuto che è imprescindibile restaurare la fiducia reciproca tra Barcellona e Madrid. È il cambio di “clima” di cui ha parlato lo scrittore Jordi Amat.
Non si potrà fare molto altro in tempi brevi. Si parlerà, questo sì, di un possibile miglior finanziamento della Catalogna, soprattutto nelle infrastrutture, di una possibile maggiore autonomia fiscale e di recuperare le leggi approvate dal Parlamento catalano nell’ultimo triennio e sospese dal Tribunal Constitucional su richiesta del governo Rajoy. Si proporrà anche di ristabilire lo Statuto di autonomia nella versione approvata in referendum dai catalani nel 2006. Le questioni giudiziarie sono invece in mano ai tribunali, e in particolare al magistrato Pablo Llarena, e dunque Sánchez non può scarcerare i dirigenti indipendentisti o far chiudere i processi, per quanto a Barcellona lo chiedano a gran voce. Però il cambio nei vertici ministeriali e un’attitudine dialogante da parte del nuovo procuratore generale dello Stato influirà su come i giudici gestiranno d’ora in avanti tutta la vicenda. Non è poco, tenendo conto di dove si era arrivati nell’autunno scorso, con una dichiarazione unilaterale d’indipendenza e il commissariamento della regione.
E a Barcellona?
Anche se più sottovoce, messaggi tesi al dialogo sono giunti anche da Barcellona. Il presidente Torra ha accolto con piacere l’invito a un incontro con Sánchez e ha ribadito in più occasioni che è aperto a parlare di tutto, per quanto abbia sottolineato che non rinuncerà ipso facto all’unilateralità e alla disobbedienza. Ha poi considerato positiva la proposta formulata dal Círculo de Economía in cui si propone di recuperare lo Statuto nella sua versione approvata in referendum nel 2006, elevandolo a una sorta di “norma costituzionale”. E già prima Torra aveva deciso di cambiare i membri del suo esecutivo, facendo cadere le nomine di assessori incarcerati o rifugiatisi all’estero, permettendo così la fine del commissariamento della regione.
Altri sono anche i segnali che fanno ben sperare nell’avvio di un vero dialogo. Innanzitutto, ci sono membri del governo catalano che sono ex socialisti, come il nuovo assessore alle Azioni Esteriori e Relazioni Istituzonali, Ernest Maragall, fratello di Pasqual, ex sindaco di Barcellona ai tempi delle Olimpiadi, passato recentemente ad Esquerra Republicana de Catalunya (ERC). La distensione potrebbe dunque essere facilitata vista la conoscenza di lunga data con i dirigenti socialisti catalani.
In secondo luogo, nel fronte indipendentista i pragmatici hanno vinto una prima battaglia nei confronti degli intransigenti: sia ERC che buona parte del Partit Demòcrata Europeu Catalá (PDeCAT) hanno difeso il voto a favore di Sánchez nella mozione di censura, scontrandosi con il parere di Puigdemont e del suo movimento, Junts per Catalunya (JxCAT), che preferivano l’astensione. Puigdemont, ancora in Germania in attesa di una decisione dei giudici tedeschi riguardo alla richiesta di estradizione della magistratura spagnola, avrebbe preferito che continuasse Rajoy a Madrid: la sua strategia passava per mantenere lo scontro con il governo spagnolo, facendo passare a livello internazionale che la Spagna è un paese non democratico comparabile con Turchia e Polonia, e provocando nuove elezioni anticipate in autunno – quando si terranno i processi ai dirigenti indipendentisti – o al massimo nella primavera del 2019. Torra era stato scelto proprio per questo, come “presidente vicario” in attesa del ritorno di un trionfante Puigdemont, il cosiddetto “presidente legittimo”.
Il cambio di governo a Madrid ha spiazzato l’ex presidente catalano, dando una centralità inattesa a Torra – che ora dovrà dimostrare di essere all’altezza del suo ruolo – e permettendo di rientrare in partita ai settori dell’indipendentismo, come ERC e il PDeCAT, che non condividevano la strategia di Puigdemont. Un ruolo importante lo avranno i gruppi parlamentari alle Cortes spagnole delle due formazioni, all’interno dei quali Puigdemont e JxCAT hanno pochissima influenza. Per di più la posizione di Bruxelles non cambia, anzi. Se le istituzioni comunitarie avevano appoggiato Rajoy anche dopo l’uso indiscriminato della forza e l’incarceramento preventivo di diversi dirigenti indipendentisti, ora sosterranno ancora di più Sánchez, convertitosi in poche settimane in una speranza per l’europeismo progressista.
Non sarà comunque facile. Le incognite su Torra sono molte, i fedelissimi di Puigdemont nel governo catalano e nel Parlamento di Barcellona sono parecchi – e potrebbero remare contro la distensione – e i settori radicali dentro l’eterogeneo fronte indipendentista sono piuttosto rumorosi. L’Assemblea Nacional Catalana (ANC) ha già condannato qualsiasi “passo indietro” rispetto alla via unilaterale, mentre gli anticapitalisti della Candidatura d’Unitat Popular (CUP) – che hanno permesso l’elezione di Torra e i cui voti sono indispensabili perché il governo regionale non vada in minoranza in Parlamento – hanno ribadito che appoggeranno solo misure tese alla definitiva rottura con lo Stato spagnolo. Non bisogna poi perdere di vista la costante lotta per l’egemonia nello spazio nazionalista: nessuno vorrà rischiare di essere tacciato di traditore alla causa con l’appuntamento elettorale del 2019 dietro l’angolo. Tutti si giocano moltissimo. E l’obiettivo principale è quello di conquistare Barcellona, governata dalla sindaca Ada Colau, che per ora
nei sondaggi manterrebbe il Comune per una seconda legislatura.
Il cammino è dunque strettissimo e irto di pericoli per Sánchez e per chi è a favore del dialogo anche a Barcellona. L’irritazione di parte della popolazione catalana è grande e sono molti quelli che vorrebbero vedere il treno socialista deragliare. Ciudadanos e il PP, senza dubbio. Ma anche Puigdemont e i settori a lui vicini nel fronte indipendentista. La decisione dei giudici tedeschi riguardo all’estradizione di Puigdemont peserà, così come la maniera in cui la Generalitat accoglierà il re Filippo VI nelle prossime due visite programmate entro fine mese in Catalogna. Vedremo se dai messaggi si passa alle decisioni politiche. E se si riescono a porre le basi per una risoluzione di una crisi che ha fatto traballare il sistema politico e le istituzioni spagnole.
*Ricercatore presso l’Instituto de História Contemporânea dell’Universidade Nova de Lisboa e professore presso l’Universitat Autònoma de Barcelona. Autore, con Giacomo Russo Spena, di Ada Colau, la città in comune (Alegre, 2016) e curatore, con Enric Ucelay-Da Cal e Arnau Gonzàlez i Vilalta, di El proceso separatista en Cataluña. Análisis de un pasado reciente (2006-2017) (Comares, 2017) – @StevenForti
(20 giugno 2018)
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.