Catalogna: un conflitto destinato a durare

Joan Subirats

Le misure giudiziarie e la repressione messe in atto, con un intento punitivo, da parte della destra spagnola, con la connivenza dei socialisti, non risolveranno il problema di fondo. Sono necessari una riforma della Costituzione in senso federale e un meccanismo per il riconoscimento della diversità nazionale della Catalogna, cosa richiesta da tre quarti della popolazione catalana, di cui solo una parte è indipendentista, e dal partito Podemos.



Lo scorso 27 ottobre, e a poche ore di distanza, avvenivano in Spagna eventi assolutamente contraddittori. Da un lato, una maggioranza esigua di deputati catalani approvava una risoluzione che implicava la dichiarazione di indipendenza e la nascita della Repubblica catalana. Dall’altro il presidente Rajoy – in base ad un articolo della Costituzione spagnola fino ad allora mai applicato – dichiarava l’intervento dello Stato nel sistema di autogoverno della Catalogna, destituiva il governo locale e scioglieva il parlamento catalano, convocando nuove elezioni per il prossimo 21 dicembre.

Scrivo questo articolo a qualche giorno di distanza. Nulla è sostanzialmente cambiato. I giudici hanno cominciato a citare in giudizio i leader indipendentisti accusati di ribellione o sedizione, anche se le loro azioni sono sempre state assolutamente pacifiche. Tutti i partiti, sia quelli favorevoli all’indipendenza che quelli contrari, hanno affermato che parteciperanno alle elezioni catalane convocate, in maniera autoritaria, da Rajoy. Ma come si è arrivati a questo punto? Quali alternative esistono e come possono svilupparsi le cose nelle prossime settimane? Al di là del caso catalano, quali letture politiche possiamo trarne?

Come si è arrivati a questo punto?

Non c’è bisogno di risalire a lontani precedenti storici. Ma è chiaro che  l’incastro della Catalogna – con le sue specificità culturali, linguistiche e sociali – in un sistema politico di tradizione autoritaria, centralista e uniformante non è mai stato facile. La Spagna è un paese plurinazionale ma le élite politiche centrali non l’hanno mai voluto riconoscere. La Costituzione del 1978, dopo il Franchismo, ha trovato un compromesso tra il regionalismo e il federalismo che per molti anni ha funzionato e ha permesso una grande decentralizzazione territoriale in tutto il Paese. Tuttavia dalle regioni periferiche maggiormente mobilitate a favore delle proprie differenze (soprattutto Catalogna e Paesi Baschi, ma anche Galizia, Comunità valenciana, Baleari…) è continuato a mancare un riconoscimento simbolico e materiale di un patto tra eguali necessario al fine di creare una cornice statale comune.

Ciò richiederebbe una riforma della Costituzione in senso federale che accolga queste differenze, ma vi si oppongono il Partito popolare, Ciudadanos e il Partito socialista. Soltanto Podemos scommette su questo riconoscimento della plurinazionalità dello Stato.

La situazione nei Paesi Baschi, dopo la grande spaccatura sociale causata dalla lotta armata dell’Eta, ora è più stabile grazie alla buona congiuntura economica derivante dal patto fiscale di cui gode la regione.
Questo non avviene in Catalogna e non è strano dato che la crisi economica, politica e territoriale ha determinato una grande crescita delle opzioni indipendentiste negli ultimi anni. Da parte sua il governo di Madrid, nelle mani del Partito Popolare dal 2011, ha saputo approfittare del messaggio di difesa dell’uguaglianza tra gli spagnoli, sulla base di una sola sovranità nazionale, di un solo demos, al fine di negare ogni possibilità di riforma federalista. Di fronte alle richieste politiche avanzate, durante tutti questi anni, da parte di una gran fetta di cittadini catalani, l’unica risposta di Madrid è stata la rigorosa osservanza della legge e la giudizializzazione del conflitto.

Negli ultimi sette anni si è votato più volte in Catalogna. Ci sono state due consultazioni: la prima il 9 novembre 2014, che è stata più o meno tollerata dal governo centrale, e poi il tentativo, il primo ottobre scorso, di realizzare un referendum vincolante sull’indipendenza della Catalogna e la sua conversione in una Repubblica indipendente. In nessuno dei due casi gli indipendentisti hanno superato la metà dell’elettorato (pari a 5,7 milioni). I voti favorevoli sono sempre stati intorno ai due milioni. Nonostante ciò, come abbiamo già detto, venerdì 27 ottobre il Parlamento catalano ha proclamato l’indipendenza.

Ciò che è accaduto successivamente dimostra che nessuna delle quattro condizioni indicate nella tabella di marcia per l’indipendenza sono state rispettate: celebrare un referendum con garanzie, ottenere una maggioranza sufficiente, avere un riconoscimento internazionale da parte di un significativo gruppo di paesi, avviare proprie strutture statali. La debolezza del sostegno e la mancanza di appoggio internazionale hanno condotto il processo a un vicolo cieco. Ciò spiega perché le misure adottate dal governo Rajoy e la convocazione di nuove elezioni non hanno generato una grande reazione contraria da parte popolare, al punto che tutti i partiti hanno stabilito di partecipare al voto del prossimo 21 dicembre.

Che cosa può succedere?

Nonostante tutto, la cosa certa è che il 22 dicembre, dopo la consultazione, il conflitto sussisterà ancora. Le misure giudiziarie e la repressione messe in atto, con un intento punitivo, da parte della destra spagnola, con la connivenza dei socialisti, non risolveranno il problema di fondo. È necessario un meccanismo di riconoscimento della diversità nazionale della Catalogna, cosa richiesta da tre quarti della popolazione catalana di cui solo una parte è indipendentista.

Pp, Ciudadanos e Psoe continuano a confondere l’uguaglianza con l’omogeneità e non capiscono che il XXI secolo richiede di includere come valore il riconoscimento della diversità. Il contrario dell’uguaglianza è la disuguaglianza e l’opposto della diversità è l’omogeneità. Si può perseguire l’uguaglianza senza rinunciare al riconoscimento della diversità, come hanno ricordato Nancy Fraser e molti altri.

A partire dalle posizioni che mirano ad una profonda trasformazione del sistema, quelle in grado di rispondere alle sfide poste dal cambiamento d’epoca, si dovrebbero rafforzare le logiche locali e municipali e lottare per le sovranità al plurale (sovranità alimentare, energetica, tecnologica, dell’acqua, eccetera…). È un’opzione migliore piuttosto che continuare a pensare allo Stato come a una leva di trasformazione, con tutti i suoi inconvenienti gerarchici e patriarcali. Ciò non significa lasciare da parte la (ri)conquista delle istituzioni e la necessità di una gestione pubblica di un’economia sempre più finanziarizzata e controllata da piattaforme tecnologiche. Abbiamo bisogno di una maggiore capacità di protezione statale, ma tramite logiche più comunitarie, che non  confondano il pubblico con l’istituzione.

La Catalogna, in questi anni, ha dimostrato che è possibile costruire forti alleanze tra i cittadini, ma forse la rivendicazione dell’identità nazionalista non è stata il modo migliore per raggiungere gli obiettivi perseguiti dai settori più legati al cambiamento sociale. Come abbiamo visto in Europa, la mancanza di capacità di protezione sociale da parte dell’UE – che si è focalizzata solo sull’unità del mercato dando priorità alla riduzione del deficit e ai pagamenti del debito – ha trasformato gli Stati in quelli che apparentemente p
ossono offrire quella protezione (come ha detto Polanyi), ma in molti casi questa logica statalista è accompagnata da dinamiche nazionaliste escludenti.

In Catalogna questa dimensione xenofoba non è stata presente in modo assoluto, ma ha certamente impedito possibili alleanze con altri settori popolari nel resto della Spagna, dove solo Podemos e le forze nazionaliste periferiche hanno difeso la necessità di riconoscere il diritto di decidere dei catalani.

In definitiva, continueremo a sentir parlare della questione per molto tempo.

(3 novembre 2017)



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