C’era una volta l’austerità. La sinistra e un altro modello di sviluppo
Nel momento di crisi che stiamo attraversando si resta sorpresi dall’assenza, nel dibattito politico ed economico in corso, di un progetto di società e di economia per i prossimi anni. Si capisce bene che occorre modificare i sistemi elettorali e rappresentativi, ridurre il deficit del bilancio pubblico, avere una maggiore moralità privata e pubblica, sanare alcune ferite territoriali e ambientali e alcune vistose ingiustizie sociali che colpiscono maggiormente le classi meno abbienti e più deboli: ragazzi, disoccupati, anziani, pensionati, immigrati, malati. Ma il raggiungimento di ciascuno di questi irrinunciabili obiettivi presuppone una serie di azioni e di scelte che coinvolgono altri settori del sistema complessivo: l’agricoltura, l’industria, i trasporti, l’edilizia, l’ecologia.
A dire la verità, la classe dominante in questi primi anni del xxi secolo un suo progetto l’ha, e anche chiaro: l’annullamento delle conquiste dello stato sociale, la privatizzazione dei beni collettivi, la difesa dei profitti privati a spese della collettività e dei meno abbienti. Ma questo progetto va in direzione opposta al risanamento dell’economia e alla moralizzazione.
Solo per fare un esempio: per sanare il bilancio pubblico gli attuali governanti presuppongono la vendita di molti beni collettivi, dalle spiagge, ai pascoli e boschi soggetti a usi civici, a edifici pubblici nei centri urbani. La presunta guarigione di una malattia – il debito pubblico – è accompagnata dall’aggravamento di un’altra malattia: il degrado ambientale, l’erosione del suolo e delle spiagge, la perdita di risorse turistiche, l’aumento della congestione del traffico. Chi acquista dallo stato le spiagge o i boschi o preziose aree urbane può far rientrare in casa i soldi spesi soltanto con azioni che comportano la distruzione di valori ambientali essenziali per l’occupazione, l’aumento dell’inquinamento, il peggioramento della salute, cioè con azioni destinate a provocare costi futuri che faranno aggravare il debito pubblico.
E ancora: per sanare la malattia del debito pubblico si prevede di vendere le industrie e le attività controllate dallo stato, con la conseguenza di aggravare altre malattie: chi acquista un’industria può fare profitti soltanto licenziando gli operai ed evitando spese per la depurazione dei fumi o degli effluenti liquidi, cioè con azioni i cui danni e costi ricadono sulla collettività.
È vero che la gestione pubblica dei beni ambientali e delle industrie è stata pessima, sotto forma di corruzione, di cattiva amministrazione, di errori nelle scelte economiche ed ecologiche; una maggiore onestà privata e un miglior governo avrebbero però potuto evitare e sanare molti guasti, mentre i guasti imposti dalle regole della proprietà privata sono intrinseci nelle leggi del mercato capitalistico e quindi inevitabili.
Immaginiamo che un gruppo di persone si riunisca intorno a un tavolo e si proponga di elaborare una serie di buoni consigli da dare ai futuri governanti – supposti onesti e sinceramente interessati al bonum publicum – per una società che cerchi di rendere minime le conseguenze delle malattie sociali. Che cosa potrebbe, tale gruppo, indicare?
Sull’esperienza di questi anni mi pare che la prima, forse unica, ricetta consista nel muovere guerra allo spreco. Limitandosi, come farò qui, allo spreco di risorse naturali e di beni ambientali, si vede che già negli anni Settanta del Novecento era chiaro che la salvezza dei singoli Paesi e dell’intera comunità umana si sarebbe potuta ottenere rallentando lo sfruttamento delle risorse naturali – acqua, fertilità dei suoli, foreste, aria, prodotti agricoli e della pesca, minerali, fonti di energia – nazionali e internazionali. Era questa la condizione per consentire ai Paesi sottosviluppati di muovere dei passi verso la libertà dal bisogno, dalle malattie, dalla dipendenza ancora coloniale; per consentire ai Paesi industrializzati di soddisfare i bisogni importanti con minori inquinamenti e danni. Erano già evidenti, in quel tempo, i segni delle malattie dei poveri – fame, lotte interne, epidemie – e delle malattie dei Paesi ricchi – inquinamento, congestione, violenza, diffusione della droga – e per tutti e due la ricetta consisteva in un uso più parsimonioso delle risorse naturali scarse, in un impegno di solidarietà.
(…) Nel maggio 1974 l’assemblea delle Nazioni Unite aveva indicato la necessità di un nuovo ordine economico internazionale e a partire da tale anno, anche sotto la pressione dell’aumento continuo del prezzo delle materie prime, si era avviato, nei Paesi industrializzati, un ampio dibattito sulla necessità di un uso più parsimonioso e razionale delle risorse naturali scarse. Anche in Italia aveva cominciato a circolare un invito all’austerità: il 20 settembre 1974 si tenne un convegno sul tema «Austerità per che cosa?» con la partecipazione di economisti come Barca, Leon, Sylos Labini e altri.
Nel gennaio 1977 Enrico Berlinguer, nel corso di un celebre convegno al Teatro Eliseo di Roma, indicava la necessità di un lavoro politico sulla linea della lotta allo spreco [1] e avviava la redazione di un progetto per la società italiana[2]. La proposta di austerità [3] e il programma di cambiamenti furono, allora, ridicolizzati: come conseguenza è peggiorata la situazione dell’economia, il debito pubblico, la condizione del Mezzogiorno e delle classi più deboli. A livello internazionale è aumentato il divario fra Paesi ricchi e poveri, ci sono state varie guerre per le materie prime: per il rame e il cobalto nel Katanga, per i fosfati nel Marocco, per il petrolio nel Medio Oriente, eccetera.
I ruggenti anni Ottanta e Novanta [4] sono stati anni di un benessere solo apparente; le maggiori quantità di denaro e di merci che sono circolate e circolano oggi sono pagate da un aumento del degrado ambientale e urbano, da inquinamenti della natura e delle coscienze, dal peggioramento delle condizioni di lavoro, da disoccupazione, diffusione della criminalità, violenza, instabilità internazionale.
Proviamo a pensare un progetto di lotta allo spreco per la società italiana degli anni Novanta alla luce della situazione odierna e vedremo che alcuni passi della proposta del 1977 (riportati di seguito) presentano una straordinaria attualità ancora oggi.
Il Progetto del 1977 spiegava che
un programma di sviluppo del settore agro-industriale dovrà essere strettamente legato a un rinnovamento della struttura produttiva e sociale dell’agricoltura. Un piano agro-industriale comporta rilevanti investimenti, ma può garantire un sostanziale miglioramento della nostra bilancia commerciale e consistenti benefici occupazionali.
E poi:
La crisi attuale della società italiana trova una drammatica espressione nello sviluppo distorto delle città e del territorio. Tale distorsione potrà essere superata soltanto con una nuova politica capace di affrontare questa realtà nel suo complesso: il dissesto idrogeologico, la decadenza dell’agricoltura, il conseguente spopolamento delle campagne e insieme la congestione e la disfunzione delle città, il carattere anarchico e speculativo delle localizzazioni produttive e residenziali, l’irrazionalità e le carenze dei grandi sistemi infrastrutturali.
La crisi attuale della società italiana trova una drammatica espressione nello sviluppo distorto delle città e del territorio. Tale distorsione potrà essere superata soltanto con una nuova politica capace di affrontare questa realtà nel suo complesso: il dissesto idrogeologico, la decadenza dell’agricoltura, il conseguente spopolamento delle campagne e insieme la congestione e la disfunzione delle città, il carattere anarchico e speculativo delle localizzazioni produttive e residenziali, l’irrazionalità e le carenze dei grandi sistemi infrastrutturali.
Le catastrofi di erosione del suolo, frane, alluvioni, che hanno segnato questi anni sono la conseguenza proprio dello squilibrio territoriale che investe negativamente, insieme, le città e le campagne.
Si tratta, in sostanza, di mutare il rapporto fra la città e la campagna, un mutamento indispensabile anche se si vuole attuare un riequilibrio dei rapporti fra Nord e Sud d’Italia. L’esigenza nazionale di ridurre la congestione delle zone metropolitane e di valorizzare il Mezzogiorno può essere perseguita soltanto attraverso un mutamento dei rapporti fra città e campagna. (…) Tale mutamento occorre avviare decisamente a mezzo di politiche appropriate e un elevamento sociale, tecnico e scientifico del lavoro agricolo, accompagnato dalla creazione di infrastrutture, servizi, attività produttive e iniziative culturali decentrate, al fine di creare più progredite condizioni di vita nelle campagne. Né si tratta soltanto di creare condizioni oggettive nuove, ma della necessità di superare indirizzi formativi e modelli culturali che contribuiscono a determinare la fuga dalle campagne e la concentrazione nelle aree urbane.
La trappola delle città
Nello stesso tempo occorre affrontare una riorganizzazione delle città «per renderle abitabili e governabili dagli uomini».
Il recupero urbano deve contrastare, con la diffusione dei servizi sociali, uno sviluppo cieco dei consumi individuali e il permanere di vasti margini di iniziative speculative: non servizi costosi, gestiti burocraticamente, ma servizi semplici e razionali. Recupero urbano equivale anche al recupero del patrimonio abitativo degradato, storico o soltanto invecchiato.
Se si osservano il degrado proprio delle città in cui domina la criminalità organizzata, la crisi dei servizi sociali gestiti burocraticamente, resi complicati e irrazionali, più adatti alla creazione di situazioni di potere e all’amministrazione della corruzione che al reale servizio dei cittadini, appare chiaro che le parole del progetto di venti anni fa indicano ancora oggi una linea politica da seguire se si vuole uscire dalla crisi.
Le trappole dell’energia
I consumi energetici nel settore dei trasporti rappresentano uno dei segni più vistosi dello spreco. Il parco automobilistico circolante, che nel 1975 era di 15 milioni di automobili, ha superato oggi, nel 2000, i 32 milioni di autoveicoli e cresce continuamente per la maggior gloria dell’industria automobilistica. I consumi di benzina e gasolio che ammontavano nel 1975 a 16 milioni di t, sono arrivati nel 2000 a 40 milioni di t. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’inquinamento e la congestione del traffico portano ogni anno un numero crescente di città vicino alla paralisi; l’invasione delle automobili private riduce la superficie delle strade in cui è possibile circolare, rallenta il traffico dei mezzi pubblici e spinge ancora di più verso gli spostamenti con autoveicoli privati in una spirale caotica.
Insomma, in coerenza con un piano asservito agli interessi privati, si è fatta una politica energetica e dei trasporti orientata a favorire – anziché limitare – lo spreco.
La trappola delle merci
La disponibilità di posti di lavoro stabili e duraturi dipende dalle scelte produttive nei settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi, e pertanto dalla quantità e dalla qualità delle merci fabbricate attraverso l’utilizzazione di materie prime naturali, con inevitabile formazione di scorie e rifiuti. Un aumento dell’occupazione e una diminuzione dell’inquinamento presuppongono un’analisi dei rapporti fra risorse, produzione, merci e ambiente. Occorre chiedersi che cosa è necessario e opportuno produrre e arrivare a una pianificazione dei consumi. Lo auspicava il Progetto a medio termine:
Per alleggerire il vincolo della bilancia commerciale occorre uno sforzo di qualificazione degli investimenti al fine di garantire la sostituzione di determinate importazioni con produzioni interne capaci di reggere la concorrenza, in un regime aperto di scambi internazionali, con le merci straniere e insieme al fine di adeguare alle nuove realtà e prospettive del mercato mondiale le capacità di esportazione dell’Italia, arricchendo e diversificando la produzione dell’industria italiana per il mercato estero. (…) Lo sviluppo dell’occupazione nell’industria appare perseguibile attraverso uno sviluppo della ricerca, in funzione sia dell’innovazione merceologica che di quella ingegneristica e impiantistica, come supporto indispensabile al potenziamento e alla riconversione dei settori manifatturieri. Ciò vale in modo particolare per la chimica secondaria e fine, per l’elettronica e l’elettromeccanica, ma in genere per l’intera struttura industriale del Paese.
L’attuale crisi dell’occupazione si può identificare proprio nell’incapacità, da parte della classe dominante – politica e degli imprenditori – di prevedere i bisogni, nella mancanza di previsioni lungimiranti, nella conquista del vantaggio puramente finanziario a breve termine. Eppure, la necessità di una programmazione delle merci era ben presente già negli anni Sessanta, caratterizzati da enormi sprechi: fabbriche petrolchimiche costruite da spregiudicati imprenditori privati con pubblico denaro, che non hanno mai prodotto un chilo di merce; previsioni da parte di dirigenti di industrie pubbliche di fabbriche assurde nei luoghi più assurdi. Si pensi ai progetti dell’iri per il centro siderurgico di Gioia Tauro, destinato a fabbricare merci sbagliate nel posto sbagliato; si pensi ai programmi del 1975 che prevedevano la costruzione di sessanta centrali nucleari, alla già ricordata chiusura, nel 1972, delle miniere di carbone del Sulcis. Sono state sbeffeggiate le leggi che cercavano di porre una limitazione all’uso delle materie plastiche, dei clorofluorocarburi (responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico), dell’amianto, responsabile di tumori ai polmoni, le leggi che imponevano processi e merci meno inquinanti, che prevedevano migliori condizioni di lavoro nelle fabbriche e nei cantieri.
Tornano in mente, e appaiono del tutto attuali, le parole di Enrico Berlinguer scritte su «Rinascita» del 24 agosto 1979, e tante volte ripetute, ma rimaste inattuate nell’operare politico ed economico:
Oggi, da movimenti di massa e d’opinione che interessano milioni di persone, è posto in discussione il significato, il senso stesso dello sviluppo o, come veniva recentemente osservato, il che cosa produrre, il perché produrre.
Allora, alla fine degli anni Settanta, la svolta fu frenata dalle forze conservatrici che ben capivano – e appare chiaro oggi – che lo spreco era l’unica condizione per costruire ricchezze personali e potere a spese della collettività. Le industrie italiane sono state spostate all’estero alla ricerca di manodopera a basso prezzo, con la creazione di vaste aree di disoccupazione interna; sono cresciute le importazioni di merci e le merci sono state imposte come desiderabili attraverso le raffinate tecniche pubblicitarie, il che richiedeva il controllo dei grandi mezzi di comunicazione e del consenso da parte non degli industriali, ma del capitale finanziario.
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Anche per arginare questa situazione di degrado, economico e morale insieme, occorre che la svolta politica, chiesta a gran voce dal Paese, sia anche una svolta nelle scelte economiche e produttive, nell’organizzazione delle città e nella salvaguardia dell’ambiente. Un progetto per la struttura produttiva del Paese non coinvolge soltanto il tipo e la qualità delle merci, ma anche la localizzazione dell’attività produttiva.
L’industrializzazione del Mezzogiorno si rivela, oggi, come una serie di errori, di occasioni perdute, di fabbriche sbagliate, poste nel luogo sbagliato, pagate con pubblico denaro, con effetti devastanti sul territorio e sull’organizzazione sociale del Sud, proprio in contrasto con quanto suggeriva la cultura urbanistica e ambientalista che pure esisteva in Italia.
Ripartiamo da qui?
La proposta di Progetto a medio termine, elaborato da una commissione nominata dal Comitato centrale del Partito comunista italiano, fu esaminata dallo stesso Comitato centrale il 13 maggio 1977 e avrebbe dovuto dare luogo a una discussione nel Paese; una certa discussione c’è stata, ma nessuna delle idee esposte è stata attuata, neanche nelle zone in cui le sinistre sono state al governo, nelle azioni e nelle proposte parlamentari. (…)
Il dibattito, le proposte di cambiamento di un quarto di secolo fa sono stati dimenticati, ma le proposte sono ancora sensate, anzi sono le uniche che possono costituire la base di un programma di lavoro politico. Se si ricominciasse a fare politica da questo punto?
2) Partito comunista italiano, Proposta di progetto a medio termine, Editori Riuniti, Roma 1977.
3) Da intendere in senso tutto diverso da quella imposta dalla ue a molti Paesi dell’Unione Europea, dopo la crisi del 2008 (N.d.C.)
4) Secondo la definizione dell’economista statunitense Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 (N.d.C.).
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