C’era una volta la giustizia fiscale
Anna Maria Bruni
e Piero Castello
Il criterio della progressività dell’imposizione fiscale costituisce un effettivo meccanismo di redistribuzione della ricchezza che, dall’Istituzione dell’Irpef nel 1974 ad oggi, accanto alla perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni inversamente proporzionale alla crescita dei redditi medio-alti, è stato completamente sovvertito. Anche le politiche dei governi di centro-sinistra ne portano la responsabilità, insieme alla progressiva limitazione del conflitto sociale dovuta alla scelta della concertazione da parte dei sindacati confederali, avviata negli anni ’80, che ha permesso la perdita di tante conquiste di maggiore giustizia sociale.
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” – Art. 53 della Costituzione italiana
Dal dopoguerra la prima radicale riforma fiscale, che istituisce l’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), e il cui impianto rispettava il carattere costituzionale della progressività, avviene nel 1974. La progressività consiste in un meccanismo matematico con il quale non solo aumenta l’importo delle tasse da pagare con l’aumentare del reddito (aumento proporzionale), ma soprattutto l’aumento cresce perché aumenta la percentuale (aliquota) delle imposte da pagare.
Per fare degli esempi, attualizzando la situazione dell’Irpef nel 1974, si otterrebbero i seguenti dati:
– un reddito di 42 milioni di lire pagherebbe un’imposta di lire 4.957.665, pari al 11.8% del reddito
– per i redditi di 1,2 miliardi l’imposta sarebbe del 42.3%
– per i redditi da 6 miliardi di lire l’imposta sarebbe del 58.7%
che conferma come la progressività faccia effettivamente pagare una quota maggiore a chi guadagna di più.
Da allora, 1974, ad oggi è stato un percorso continuo per aggirare e deformare il dettato costituzionale e per attenuare in tutti i modi il carattere progressivo della tassazione diretta.
Tab. 1 – Numero aliquote, variazioni nel tempo delle aliquote MASSIME dell’Irpef e relativi importi dei redditi a cui si applicano
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1974 |
1883 |
1988 |
1989 |
1998 |
2001 |
2005 |
2007 |
1) Numero aliquote |
32 |
9 |
9 |
7 |
5 |
5 |
4 |
5 |
2) Aliquota massima |
72% |
65% |
62% |
50% |
45,5 |
45% |
43% |
43% |
3) Importo a cui si applica |
500 milioni di lire (258mila euro) |
500 milioni di lire (258mila euro) |
600 milioni di lire (310mila euro)
|
300 milioni di lire (154mila euro) |
135 milioni di lire (70 mila euro) |
135 milioni di lire (70 mila euro) |
100 mila euro |
Da 75 mila euro in poi |
Fonte: Ministero dell’Economia e delle finanze, elaborazione Cobas
Il carattere progressivo di un sistema fiscale è dato prima di tutto e soprattutto dal rapporto delle aliquote (percentuali) con le classi di importo dei redditi. Le eventuali deduzioni-detrazioni sono dei correttivi, spesso indispensabili, ma essi non caratterizzano il sistema.
Come si evince dalla prima riga della tabella, le aliquote e quindi le classi di importo dei redditi sono passate da 32, nell’anno del varo della legge, fino alle attuali 5. Ma non sembra sia finita qui, perché il disegno del governo attuale, con il plauso di Confindustria, è stato da subito quello di ridurre ad una sola aliquota l’intero sistema, cancellando totalmente la progressività, ma poiché questo impegnerebbe in una modifica della Costituzione, la proposta che Berlusconi, salvo frenate dell’ultim’ora, è tornato a rilanciare con l’inizio del nuovo anno è mascherata: le aliquote sarebbero due, 23 e 33%.
La prima è per i redditi fino a 100 milioni, cioè per il 96% degli italiani, la seconda del 33% per il restante 4% degli italiani, un bel passo in avanti verso l’aliquota unica, ed un ulteriore grandissimo risparmio reale solo per i redditi medi ed alti.
La seconda riga documenta come i ricchi abbiano goduto dal 1983 in poi di una costante decrescita delle tasse, l’aliquota massima per i più ricchi passa dal 72% al 43% realizzando il dimezzamento, senza contare che chi ha goduto di redditi più elevati in assoluto ha goduto anche del maggior abbassamento delle tasse: ben 29 punti percentuali in meno.
La terza riga conferma per paradosso il criterio che stiamo denunciando, perché evidenzia la progressività del privilegio con l’aumentare del reddito, che l’ultimo dato riferito all’anno 2007 mostra chiaramente: si è quasi dimezzata l’aliquota e si è abbassato il reddito massimo a 75 mila euro, ovvero si è allargata la platea, ma redditi esponenzialmente superiori oggi pagano lo stesso 43%.
Tab.2 – Variazioni nel tempo delle aliquote MINIME dell’Irpef e relativi importi dei redditi a cui si applicano
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1974 |
1883 |
1988 |
1989 |
1998 |
2001 |
2005 |
2007 |
1) Numero aliquote |
32 |
9 |
9 |
7 |
5 |
5 |
4 |
5 |
2) Aliquota minima |
10% |
18% |
12% |
10% |
18,5 |
18 |
23% |
23% |
3) Importo cui si applica |
Da 2 milioni di lire Da 10 mila euro |
(1)
Fino 11 milioni |
(1)
Fino 12 milioni |
(1)
Fino 6 milioni |
(1)
Fino 15 milioni |
(1)
Fino 20 milioni |
(1)
Fino a 26.000 euro |
(2)
Fino a 15.000 euro |
(1) Entra in vigore un nuovo meccanismo di detrazioni per lavoratori dipendenti e pensionati (2) Il meccanismo delle deduzioni viene sostituito con un ripristinato e nuovo meccanismo di detrazioni. |
Fonte: Ministero dell’Economia e delle finanze, elaborazione Cobas
La tabella 2 mostra come il ridursi del numero delle aliquote evidenziato nella prima riga (stesso parametro della tab 1) testimonia come in questi ultimi 26 anni lavoratori dipendenti e pensionati abbiano pagato proporzionalmente più dei ricchi: riducendosi il numero delle aliquote e aumentando l’aliquota minima (dal 10 al 23% del 2007, seconda riga) in proporzione al reddito basso mostrato dalla terza riga, i lavoratori hanno sostenuto l’80% degli introiti di tutta la tassazione diretta. Un dato che rimane tale nonostante negli anni siano stati introdotti sistemi di deduzioni e detrazioni (vedi note 1 e 2), che hanno reso il meccanismo poco trasparente senza cambiare la sostanza: la crescita delle aliquote colpisce sempre più le fasce più basse di reddito e il sistema delle detrazioni serve ormai soprattutto a coprire i redditi degli “incapienti”, ossia di quei lavoratori e pensionati al disotto della soglia della povertà assoluta.
Tasse sempre più pesanti, salario sempre più leggero
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (…)”. – Art. 36 della Costituzione italiana
Per chiarire quanto sia insostenibile il progressivo aumento delle tasse per lavoratori e pensionati, accostiamo ai dati precedenti quelli sui salari. Secondo uno studio dell’Ilo, (Organizzazione Internazionale del Lavoro) a novembre 2009, nell’arco di vent’anni, il valore degli stipendi degli italiani rispetto al prodotto interno lordo è diminuito di quasi il 13%, contro una media dell’8% dei 19 Paesi più avanzati. Stando all’agenzia dell’Onu i salari reali, a parità di potere d’acquisto, sono crollati nel nostro paese di quasi il 16% tra il 1988 ed il 2006, mentre il rapporto della Banca regolamenti internazionali già nel 2008 metteva in evidenza come dagli anni ’80 ad oggi (anno del rapporto) i profitti abbiano incassato 8 punti di Pil in più, passando dal 23,2% al 31,3%. In cifre, 120 miliardi in più ai profitti, 7mila euro di meno in ciascuna busta paga. E neanche a dire che ciò ha significato investimenti produttivi.
Questo è il risultato della ristrutturazione industriale avviata dalla Fiat con la marcia dei 40.000 proprio nel 1980, a cui non solo Cisl e Uil, ma anche la Cgil di Lama ha prestato il fianco. In un’intervista al quotidiano «La Repubblica», che precede di poco il congresso della “svolta”, tenutosi all’Eur il 13 e 14 febbraio successivi, Lama dichiara che “la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta (…)”. E non solo, perché aggiunge che “noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita dalle loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti.” (I sacrifici che chiediamo agli operai, «La Repubblica», 24.1.1978). E’ l’avvio della concertazione, che nel 1984 sigla il taglio di 4 punti di scala mobile ad opera del governo Craxi, che viene poi eliminata definitivamente nel ’92, dal governo Amato. Un anno dopo, nel ’93, l’accordo Confindustria-sindacati fissa un tetto ai salari. La politica del governo Ciampi ha come stella polare i parametri di Maastricht, che indicano i paletti del contenimento salariale nell’inflazione programmata: i punti persi, dice l’accordo, saranno recuperati con la contrattazione articolata, ma la cosa non è mai avvenuta.
L’ “operazione” Euro, in circolazione commerciale il 1 gennaio 2002, è il colpo di grazia: non si interviene direttamente sui salari, ma il risultato in busta paga è letale: invariate nel cambio lira/euro, le retribuzioni affrontano costi dei beni primari raddoppiati. L’esito è il crollo del potere d’acquisto: l’Italia si colloca al 23esimo posto, l’ultimo tra i paesi sviluppati (fonte Ires su dati Ocse).
L’andamento del conflitto in quegli stessi anni
Gli anni ‘80 sono gli anni della ristrutturazione industriale, sancita dalla concertazione e avviata, come abbiamo visto, dalla marcia dei 40mila. E sono gli anni, come dimostra la tab. 4, in cui il conflitto, in particolare dovuto ai rapporti di lavoro, crolla in modo vertiginoso, dopo due decenni in cui ha conosciuto i picchi più alti, e le cui conseguenze sono state le conquiste economiche, civili e sociali più importanti che questo paese abbia conosciuto, e in cui più si è andati vicini alla realizzazione del dettato Costituzionale. Infatti la più importante riforma fiscale del dopoguerra, che attuava appunto il dettato costituzionale della progressività, viene concepita e varata nel corso di un ventennio di lotte formidabili, con una iniziativa operaia al culmine e in un contesto politico generale fortemente caratterizzato anche sul piano sociale dal 1968 e dalla sua onda lunga che si è protratta, nel nostro paese, per un decennio.
In quello successivo invece, 1981-90, si assiste al crollo della conflittualità, con una media annuale delle ore di sciopero di 41 milioni, un terzo dei due decenni precedenti in cui la media delle ore scioperate in media ogni anno era stata di 121 milioni, con il picco del 1969: 302 milioni di ore scioperate.
Nel decennio 1991-2000 vi è un ulteriore crollo: la media delle ore di sciopero annue si riducono a meno di 8 milioni, un quinto del decennio precedente. Dal 2001 al 2008 le ore non lavorate diminuiscono ancora, meno di 6 milioni l’anno, con una media di 5,8 milioni. Il numero degli scioperanti crolla anch’esso nel decennio 1981-90 dimezzandosi rispetto al decennio precedente, e dal 1991 al 2000 si riduce ad un quinto del decennio precedente, e a circa un decimo del decennio 1971-80, con una media di 780 mila scioperanti l’anno.
Il fondo si tocca nell’anno 2006 con 3,9 milioni di ore di sciopero e 466mila scioperanti.
Tab.3 – Conflitti di lavoro, lavoratori partecipanti (dati in migliaia) e ore non lavorate per sciopero (dati in milioni)
Anno |
Lavoratori * partecipanti |
Ore non * Lavorate |
Anno |
Lavoratori * partecipanti |
Ore non * Lavorate |
1975 |
10.717 |
181.381 |
1992 |
621 |
5.605 |
1976 |
6.974 |
131.711 |
1993 |
845 |
8.796 |
1977 |
6.434 |
78.767 |
1994 |
745 |
7.651 |
1978 |
4.347 |
49.032 |
1995 |
445 |
6.365 |
1979 |
10.521 |
164.914 |
1996 |
1.689 |
13.510 |
1980 |
7.428 |
75.214 |
1997 |
718 |
8.150 |
1981 |
3.567 |
42.808 |
1998 |
386 |
3.087 |
1982 |
7.490 |
114.889 |
1999 |
935 |
6.364 |
1983 |
4.625 |
82.626 |
2000 |
668 |
6.113 |
1984 |
3.540 |
31.786 |
2001 |
1.065 |
7.038 |
1985 |
1.125 |
9.969 |
2002 |
889 |
6.105 |
1986 |
2.940 |
36.742 |
2003 |
908 |
5.731 |
1987 |
1.473 |
20.147 |
2004 |
709 |
4.890 |
1988 |
1.609 |
17.086 |
2005 |
961 |
6.348 |
1989 |
2.218 |
21.001 |
2006 |
466 |
3.883 |
1990 |
1.634 |
36.269 |
2007 |
882 |
6.321 |
1991 |
750 |
11.573 |
2008 |
906 |
6.508 |
Fonte: Istat Annuario Statistico Italiano, elaborazione Cobas
*I dati utilizzati sono quelli relativi agli scioperi dovuti a “conflitti originati dal rapporto di lavoro”
Pertanto il picco delle ore non lavorate si è raggiunto nel decennio 1971-80 con 122 milioni di ore di sciopero in media l’anno. Nel decennio precedente, 1961-70, la media di ore non lavorate era stato di poco inferiore:121 milioni di ore di sciopero, ma in questo stesso decennio si è verificato il picco annuale delle ore non lavorate con 302 milioni di ore sciopero nel 1969.
La partecipazione dei lavoratori agli scioperi è stata di 3,5 milioni in media l’anno nel decennio 1961-70. Nel decennio successivo, 1971-80 il numero dei lavoratori partecipanti è quasi raddoppiato rispetto al decennio precedente con 6,9 milioni in media l’anno. Sempre in questo decennio si sono verificati i due picchi, con oltre 10 milioni di scioperanti l’anno, nel 1975 e nel 1979.
I dati Istat relativi alle “ore non lavorate per conflitti estranei al rapporto di lavoro”, che comprendono soprattutto le ore dovute agli scioperi generali (scioperi contro provvedimenti di politica economica, istanze di riforme sociali, eventi nazionali e internazionali, ecc) sono molto discontinui ma documentano comunque un fenomeno assai importante, e cioè che negli anni in cui è più elevato il numero di scioperi originati dal rapporto di lavoro è anche più elevato il numero di ore perdute per conflitti estranei al rapporto di lavoro.
Nel 1990, 1995, 1996, l’Annuario Statistico Italiano dell’Istat non registra alcun “Conflitto estraneo al rapporto di lavoro” e sono gli anni in cui si assiste ad un calo vertiginoso degli scioperi dovuti ai conflitti originati dal rapporto di lavoro, al contrario negli anni 1976, 1978, 1980 mentre crescevano i conflitti dovuti al rapporto di lavoro crescevano anche quelli estranei al rapporto di lavoro. Ciò sta a significare che la conflittualità, la sua intensità e durata, è un fenomeno unitario che si esprime in forme diverse ma è riconducibile all’esercizio della democrazia da parte dei lavoratori, e come tale viene esercitato sia nei conflitti legati al rapporto di lavoro, sia per questioni più generali.
Tab.4 – Incidenza dei singoli cespiti sul reddito complessivo delle imposte dirette. Valori percentuali
|
Anno 1975 |
Anno 2005 |
Variaz, % |
Terreni + fabbricati |
5,8 |
4,7 |
– 1,1 |
Lav.Dipendenti + Pensionati** |
73,4 |
80,4 |
+ 7,0 |
Lavoro autonomo ** |
3,2 |
4,4 |
+ 1,2 |
Redditi da Impresa |
11,9 |
4,6 |
– 7,3 |
Altri redditi |
5,7 |
6,0 |
– 0,3 |
Totale |
100 |
100 |
|
* non comprende co.co.co. e co.co.pro
** comprende co.co.co. e co.co.pro
Fonte: Ministero dell’Economia e delle finanze, elaborazione Cobas
La tabella 5 mostra il risultato di quanto detto sinora: negli anni della ristrutturazione selvaggia e della concertazione, i redditi da lavoro e le pensioni sono arrivati a costituire oltre l’84,8% delle entrate delle imposte dirette, sostenendo l’incremento più elevato, +7,0%, mentre l’incremento di quelli da impresa ha fatto il percorso inverso, con il più forte livello di abbassamento nel trentennio: -7,3%, passando da un iniziale 11,9% nel 1975 ad un ridottissimo 4,6% nel 2005. Tutte le manovre di questi ultimi due anni, dalla riduzione del cuneo fiscale fino allo scudo fiscale, avranno come esito l’ennesima diminuzione del prelievo sui redditi da imprese, fino al condono per chi evade completamente il fisco.
Considerazioni finali
Il sistema di tassazione e fiscale generale dovrebbe costituire un potente meccanismo di redistribuzione dei redditi e della ricchezza, mentre assistiamo al contrario, come dimostrano le tabelle, ad una politica che permette l’accumulazione per pochi a scapito di una espropriazione generalizzata a danno dei lavoratori e dei pensionati.
La proposta delle due aliquote di cui abbiamo fatto cenno all’inizio ha in questo senso raggiunto il colmo, preceduta dalla Legge finanziaria per il 2010, su cui è stata posta l’ennesima fiducia dal governo Berlusconi, che non contiene che briciole per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Così è stato chiuso un anno che si è aperto con la riforma del modello contrattuale, che prevede la triennalizzazione dei contratti (ovvero aumenti spalmati su tre anni anziché su due) accompagnata dalla Legge 15 sulla riforma della pubblica amministrazione (la cosiddetta ‘Riforma Brunetta’), che imbriglia definitivamente la conflittualità, congelando per il triennio le nuove elezioni delle Rsu. E lo stesso vale per il settore privato con l’accordo del 22 gennaio 2009, dove la triennalità da una parte e la “tregua sindacale” di 7 mesi durante il rinnovo contrattuale dall’altra sono il sistema di contrappesi con il quale Confindustria detta le nuove regole nei rapporti di lavoro, garantendosi il congelamento della conflittualità. Le due riforme, lo ricordiamo, sono state sottoscritte da Cisl e Uil ma non dalla Cgil, che sta però ‘delegando’ la scelta sui rinnovi alle singole categorie, quando ci si sarebbe aspettati, in coerenza con la bocciatura dell’accordo e con questa politica, la convocazione dello sciopero generale durante la discussione sulla Finanziaria. Un atto che avrebbe unito tutti i lavoratori. Invece mentre Fp e Fiom non firmano i rinnovi e la Fiom in particolare ha opposto aumenti per il biennio aprendo una battaglia in tutti i posti di lavoro perché siano i lavoratori a decidere sul loro contratto, le altre categorie, dagli alimentaristi ai chimici, sottoscrivono rinnovi contrattuali completamente improntati alla filosofia del nuovo modello. Questo modo di procedere è il culmine del sistema di concertazione sostenuto negli anni dai sindacati confederali, che ha segnato la svendita delle conquiste di anni di lotte, e che ha disarmato concettualmente e organizzativamente i lavoratori dipendenti.
In questo contesto appare del tutto irrilevante la richiesta di “defiscalizzazione” del salario aggiuntivo, premiale, o di secondo livello o la detassazione delle tredicesime: sono operazioni che questo governo si guarda bene dal realizzare, e se pure questa detassazione dovesse essere presa in considerazione dal governo essa costituirebbe una iattura per i lavoratori dipendenti. La prima conseguenza sarebbe una diminuzione secca delle entrate fiscali che darebbe luogo ad una crescita esponenziale del debito pubblico. Come è avvenuto negli ultimi 20 anni ciò comporterebbe un ulteriore taglio alla spesa pubblica sociale già prosciugata: sanità, istruzione, ricerca, pensioni, assistenza che oggi si caratterizzano anche per la forma di salario sociale disponibile per i lavoratori dipendenti.
Tanto meno il governo realizzerà la tassazione del capital gains o la tassazione europea delle rendite sia finanziarie che di altra natura, rivendicazioni che sarebbero scontate se ci fosse un conflitto serio in atto su pensioni, salario, giustizia sociale, che non si limitasse a una battaglia sulle percentuali, ma tornasse ad avere come orizzonte “un’esistenza libera e dignitosa” dei lavoratori. Come negli anni ’60 e ’70, dove il clima sociale creato dal conflitto ha imposto un sistema di tassazione più giusto e più aderente allo spirito e al dettato costituzionale equilibrando il livello retributivo. Eppure sono stati gli anni del boom economico e del tasso di occupazione più elevato, della scolarizzazione di massa e delle conquiste sociali più avanzate.
(22 gennaio 2010)
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