Cercasi Pandora, disperatamente. Le democrazie e il principio speranza
Fabio Armao
Ci si può aspettare che l’odierna incarnazione del sovietismo oligarchico, Vladimir Putin, insceni un referendum di una settimana per garantirsi la possibilità di battere il record di longevità politica di Stalin (a ognuno i propri modelli). Come pure che il sorridente Xi Jinping alla guida di un impero capital-comunista riscopra l’utilità delle leggi liberticide nel tentativo di riprendere il controllo di Hong Kong – sapendo di poter contare sul fatto che le borse, alla fine, si adegueranno, dal momento che anche in Oriente pecunia non olet.
Russia e Cina, tutto sommato, sono quel che resta della novecentesca era prometeica che era stata caratterizzata dal trionfo dei nazionalismi e degli imperialismi, dal realismo della ragion di stato, dalle guerre tayloristiche e dai giochi occulti del bipolarismo. Non che si debba avere nostalgia per quei tempi; ma il problema è che l’Occidente, per dirla in modo semplice, proprio quando avrebbe avuto l’opportunità di assurgere a Prometeo democratico, donando infine all’intera umanità il fuoco della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia (perdonate la retorica) ha preferito abbandonare i grandi progetti e assumere, piuttosto, i panni del fratello stolto Epimeteo: colui che si rende conto dopo, che agisce prima di pensare; il seguace dell’ordine naturale e pre-giuridico, che si fa promotore di un’ingenua adesione alla vita e alla terra – fuor di metafora, al mercato[1].
Quello che non ti aspetti, in altri termini, è un’Europa timorosa nel rivendicare i propri valori: incapace di sanzionare alcuni stati membri che si fanno beffe della democrazia (persino nel qualificarsi come “democrazie illiberali” piuttosto che come stati fascisti, ciò che realmente sono) e cui, anzi, continua a concedere munifici finanziamenti; o che accetta di buon grado che altri tra essi pratichino una concorrenza a dir poco unfair nel campo dell’imposizione fiscale, sottraendo risorse preziose ai cittadini della stessa Unione cui dovrebbero essere invece legittimamente destinate (e pretendendo poi anche di ergersi a paladini della riduzione del debito con i soldi altrui). Un’Europa – vale la pena ricordarlo in questi giorni, appena trascorso il quarantesimo anniversario – che non ha mai avuto il coraggio di far luce su quel che è successo ad Ustica nel 1980.
Per non parlare del senso di incredulità più ancora che di depressione o di ansia da cui si viene colti nell’assistere all’espandersi indisturbato delle “democrazie familistiche” sul continente americano. Negli Stati Uniti la dynasty presidenziale è arrivata alla puntata nella quale Trump dimostra di temere la pubblicazione del libro della nipote più di qualunque tentativo di impeachment da parte del Congresso; e cerca di adire le corti non per contestare la veridicità dei contenuti … ma per il fatto che la pubblicazione violerebbe gli accordi di riservatezza imposti a suo tempo a tutti i familiari (a conferma del fatto che in effetti ci fosse qualcosa che valesse la pena tenere nascosto). In Brasile, nel frattempo, Bolsonaro ha ridotto il proprio paese, uno dei mitici Brics che avrebbero dovuto dominare l’economia globale, nella fazenda dei propri figli e dei loro (non sempre raccomandabili) amici.
Ora, vi sembra un caso che leader simili, incapaci di concepire un orizzonte che vada oltre il proprio clan di riferimento, abbiano trasformato i rispettivi paesi in terre di conquista della pandemia, che alimentino invece di contrastarla l’ormai immane crisi ecologica del pianeta, che nutrano il proprio “popolo” di riferimento di idee di supremazia razziale e machista? E, badate, non è un problema generazionale: in Salvador il giovanissimo presidente Nayib Bukele (nato nel 1981), la cui elezione era stata accolta come un auspicio di rinnovamento, non facendo egli parte di alcuna delle fazioni che avevano partecipato alla guerra civile, è accusato di governare con i suoi tre fratelli più che con i ministri del proprio governo.
A costo di apparire provocatori, viene da chiedersi che cosa differenzi ancora questi paesi formalmente democratici, per fare un esempio, dalla Siria di Bashar al-Assad che, tra i tanti suoi problemi (i cui costi, però, fa ricadere interamente sui suoi concittadini), ora sembra annoverare anche l’ascesa politica dell’ingrato cugino Makhlouf, al quale aveva munificamente concesso di arricchirsi smodatamente attraverso la privatizzazione delle risorse del paese. Fino ad oggi il cugino si era accontentato di finanziare e armare le tante milizie di tagliagola necessarie allo stesso Assad per riprodurre all’infinito un conflitto che si insiste a definire erroneamente “guerra civile” (che di civile ha solo le vittime, non certo i combattenti), ma adesso sembra ambire a cariche più rilevanti. La faida familiare, d’altra parte, non può che essere accolta con gioia da quel novero di potenze e mezze-potenze (oltre che dall’industria di armamenti, dai mercanti illegali e dai produttori di pick-up) che alimenta le proprie ambizioni a spese, oltre che della Siria, anche della Libia o dello Yemen – paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati arabi uniti considerati (seppure magari a corrente alternata) alleati dell’Occidente e sui quali si potrebbero sceneggiare altrettante serie televisive da fare invidia a Beautiful (o a Narcos, ma con il sangue vero delle vittime).
E che dire, infine, dell’Italia? Dalla lettura delle cronache emerge come un paese ormai patologicamente incapace di scegliere e di assumersi una qualunque responsabilità; e in cui la faida è diventata il pane quotidiano persino di quella comunità scientifica cui avevamo affidato le nostre sorti durante la pandemia. Anche qui da noi l’afflato epimeteico del sentenziare prima ancora di aver elaborato un pensiero sembra diventato sinonimo di successo (almeno mediatico); e non solo, appunto, nella sfera politica.
Potremmo fare l’esempio di come i partiti politici – che, nella loro accezione originaria di organizzazioni delegate a rappresentare gli interessi collettivi, esistono ormai soltanto più nella fantasia dei notisti e degli scienziati politici – affrontano il tema dei fondi europei del Mes (Meccanismo europeo di stabilità). È stato osservato che il dibattito tende ad assumere connotati “ideologici”. Troppo onore, verrebbe da dire; perché in un contesto che è già andato ben oltre il partito personale di berlusconiana memoria, gli schieramenti si formano e si disfano a seconda delle aggregazioni di interessi attorno a capi e capetti cui i parlamentari di volta in volta coinvolti affidano la propria sopravvivenza politica. Ma in questi giorni, le notizie che hanno attirato la mia attenzione sono altre.
Mi riferisco, in particolare, agli ultimi atti della tragica farsa sul caso di Giulio Regeni che vede come protagonista la dittatura militare egiziana di Al Sisi, con il governo italiano ridotto al ruolo di spalla (una tragica parodia dei fratelli De Rege, per chi è della mia generazione). Prima si è avuta la notizia della vendita di navi militari a chi è responsabile del sequestro, della tortura e della morte di Regeni, che qualcuno ha avuto l’ardire di ipotizzare potesse rivelarsi un modo astuto per ottenere giustizia. Poi il gesto “di riconciliazione” della restituzione di documenti e oggetti che, secondo le autorità egiziane, erano appartenute a Giulio Regeni e che, invece, i familiari in parte non hanno riconosciuto
come suoi. Infine, si è avuto quel confronto tra procure che avrebbe dovuto offrire le risposte attese da 48 mesi dai magistrati italiani (che, sia detto per inciso, non hanno mai ottenuto collaborazione neppure da un’istituzione in teoria etica come l’università di Cambridge, il cui comportamento omertoso avrebbe dovuto essere stigmatizzato con determinazione dall’intera comunità accademica internazionale). Quest’ultimo incontro, al contrario, è stato addirittura utilizzato dagli egiziani per insinuare nuovi dubbi sulle reali intenzioni e finalità del nostro ricercatore. L’atteggiamento egiziano, del resto, è comprensibile: la ricerca universitaria non può che essere considerata un’attività eversiva da un governo talmente insicuro del proprio potere da liberare oltre 500 criminali comuni per paura del contagio da Covid-19 nelle carceri, mantenendo tuttavia in detenzione Patrick George Zaki, studente di 27 anni, e altri oppositori politici. Ciò che stona è l’insipienza dimostrata una volta di più in questa vicenda dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli Esteri.
Poi ci sono altri eventi illuminanti per l’attenzione che ricevono dai media a fronte della loro assoluta insignificanza. Mi riferisco a quella vera e propria opera di depistaggio messa in atto da Forza Italia che, alla vigilia di un autunno che potrebbe rivelarsi incandescente per il paese, rispolvera la registrazione di un colloquio di sette anni fa tra un membro della Cassazione (ormai deceduto) e un condannato (ancora politicamente attivo). In un paese appena normale, i commenti dovrebbero limitarsi, ad esempio, al chiedersi perché registrare una conversazione privata e perché servirsene soltanto dopo sette anni? Il lato umano della vicenda poi, se proprio se ne volesse trovare uno, non ha niente a che vedere con un ipotetico intento persecutorio nei confronti del condannato: la Cassazione si è limitata a rendere definitiva una sentenza di condanna che aveva superato ben tre gradi di giudizio. Bisognerebbe chiedersi, piuttosto, perché un giudice che ha egli stesso votato a favore (il parere della Cassazione è stato espresso all’unanimità) abbia sentito il bisogno, in maniera alquanto irrituale, di interloquire personalmente con il condannato, quasi nel tentativo di captarne la benevolenza in maniera ormai oggettivamente tardiva.
Infine le cronache nazionali e locali offrono ampi spunti per sostenere l’ipotesi che le nostre élites siano affette dalla sindrome di Epimeteo anche quando si tratta di lotta alla mafia. Il Movimento cinque stelle insiste a ritenere che difendere l’uso del contante sia un segno di civiltà, invece che un residuo tentativo di salvaguardare la non tracciabilità del denaro. In Piemonte, la Lega di legge e ordine propone di attenuare le norme vigenti sul gioco d’azzardo, consentendo quantomeno che le slot machine possano essere collocate vicino ai bancomat. E questo negli stessi giorni in cui una nuova inchiesta della magistratura svela l’infiltrazione della ’ndrangheta a Bra – all’insaputa di una società civile, ignara di averla coltivata al proprio stesso interno, nonostante fosse noto da anni il grado di radicamento delle “locali” calabresi in regione.
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Questa ormai quotidiana pusillanimità delle democrazie rischia di far perdere loro ogni residua legittimità e di uccidere la speranza delle giovani generazioni. La risposta, per tornare al mito da cui siamo partiti, non può consistere nel riscoprire quelle virtù prometeiche che un secolo fa, non va dimenticato, hanno anche prodotto due guerre mondiali. Oggi si tratta, piuttosto, di dare voce a Pandora, la sposa che Epimeteo ha avuto in dono da Zeus; colei che, in una versione (non a caso) misconosciuta del mito, richiude il vaso aperto dal marito stolto prima che ne fuoriesca anche la speranza e, per questo, ne diventa la guardiana, assurgendo a icona di colei che tutto dona.
Per quanto possa suonare utopistico, le ricche democrazie possono salvarsi soltanto se cominciano a invertire i flussi di distribuzione delle ricchezze imposte dalla globalizzazione neoliberale: a pagare equamente per le risorse naturali che saccheggiano nei continenti altrui, a offrire accoglienza e inclusione sociale ai troppi “dannati della terra” che loro stesse hanno generato, a sanzionare e delegittimare le dittature a prescindere dal fatto che siano amiche o nemiche, soprattutto privandole dell’ossigeno delle armi che loro stesse producono. È chiaro che tutte queste misure implicano una rivoluzione del pensiero politico ed economico, oltre che la capacità progettuale di concepire una altrettanto radicale riconversione del capitalismo. Ma proprio le democrazie, più di ogni altro tipo di regime, posseggono il know-how, le competenze e le risorse necessarie per un’opera di questa natura e rilevanza. Soltanto esse possono, oggi, permettersi il “lusso” di governare una politica di redistribuzione globale delle risorse. E non certo per bontà d’animo; ma perché conviene in termini economici e perché costituisce l’unica speranza residua cui affidare la salvezza del pianeta.
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