Che senso ha se non possiamo divertirci?

David Graeber

Perché gli animali giocano? Gli elettroni ballano? Perché divertirsi è divertente? Un saggio dell’antropologo statunitense – morto il 2 settembre all’età di 59 anni – dal volume “Exploit. Come rovesciare il mondo ad arte. D-istruzioni per l’uso” a cura di Fabio Benincasa, Giorgio de Finis e Andrea Facchi (Bordeaux Edizioni, 2015).

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Io e la mia amica June Thunderstorm una volta abbiamo passato una mezz’ora seduti in un prato, di fronte a un lago di montagna, a guardare un bruco che penzolava da un filo d’erba, piegandosi in ogni possibile direzione per saltare infine sul filo d’erba successivo e continuare a fare la stessa cosa. Procedendo sempre così, in un largo cerchio, facendo una cosa che doveva richiedere un grosso dispendio di energia, apparentemente senza nessuna ragione valida. “Tutti gli animali giocano” mi ha detto June una volta, “persino le formiche”. June ha passato anni a lavorare come giardiniera professionista e ha assistito a tantissimi episodi simili. “Guarda” mi ha detto, con un’aria di trionfo, “capisci cosa voglio dire?”.

La maggior parte di noi, sentendo questa storia, avrebbe insistito sulla necessità di prove. Come facciamo a sapere che il bruco stava davvero giocando? Magari i cerchi invisibili che tracciava nell’aria erano in realtà solo la ricerca di qualche preda sconosciuta. O un rituale di accoppiamento. Si può provare che non lo fossero? E anche se il verme stava giocando, come si fa a sapere che questa forma di gioco non serva, alla fine, a uno scopo pratico: come un esercizio, o un allenamento per qualche sorta di futura emergenza da bruco?

In effetti questa sarebbe la reazione della maggior parte degli etologi professionisti. In generale un’analisi del comportamento animale non è considerata scientifica a meno che l’animale non si consideri, almeno tacitamente, operante secondo gli stessi rapporti costi/benefici che si applicherebbero nelle transazioni economiche. Secondo questo presupposto, un impiego di energia deve essere diretto verso qualche obiettivo, che sia trovare cibo, mettere al sicuro il territorio, raggiungere il predominio o massimizzare il successo riproduttivo, a meno che non si possa provare con esattezza il contrario e la prova assoluta, in queste materie è, come si può immaginare, molto difficile da ottenere.

Devo sottolineare qui che non importa il tipo di teoria della motivazione animale possa essere sostenuta da uno scienziato: sia che ritenga che un animale pensi oppure no. Non voglio dire che gli etologi credono che gli animali siano semplicemente macchine calcolatrici razionali. Sto solo dicendo che si sono imprigionati in un mondo nel quale essere scientifici significa offrire spiegazioni del comportamento esclusivamente in termini razionali – il che significa descrivere gli animali come se fossero attori economici che cercano di massimizzare una specie di profitto personale – quale che possa essere la loro teoria della psicologia animale o delle motivazioni.

Ecco perché l’esistenza del gioco animale è considerata una specie di scandalo intellettuale. È poco studiata e quelli che se ne occupano sono visti un po’ come degli eccentrici. Come succede per molte nozioni speculative che sono considerate un po’ minacciose, sono stati introdotti criteri difficili da soddisfare per provare che il gioco animale esiste e, persino quando questi criteri sono soddisfatti, la ricerca più spesso non digerisce le proprie conclusioni cercando di dimostrare che il gioco deve avere delle funzioni utili alla sopravvivenza a lungo termine o alla riproduzione.

Nonostante tutto, coloro che si occupano dell’argomento sono costretti a concludere che il gioco è presente nell’universo animale. Ed esiste non solo presso creature notoriamente ludiche come le scimmie o i delfini o i cagnolini, ma anche tra specie insospettabili come rane, pesci di fiume, salamandre, granchi e, sì, persino tra le formiche, che non solo si impegnano in attività frivole come individui, ma sono state osservate, almeno dall’Ottocento, mettere in scena finte battaglie, apparentemente al solo scopo di divertirsi.

Perché gli animali giocano? Beh, e perché non dovrebbero farlo? La vera domanda è: perché l’esistenza di azioni messe in atto per puro piacere, l’impiego di energie per il gusto di spenderle, ci colpisce come una cosa misteriosa? Che cosa ci dice su come noi stessi pensiamo che stiano le cose?

La sopravvivenza degli inadatti

La tendenza del pensiero comune di vedere il mondo biologico in termini economicistici era già presente nel XIX secolo, all’inizio delle teorie darwiniane. Charles Darwin, dopo tutto, prese in prestito l’espressione “sopravvivenza dei più adatti” dal sociologo Herbert Spencer, quel simpatico pescecane capitalista. Spencer, a sua volta, rimase sorpreso da quanto le forze che influenzavano la selezione naturale in L’origine delle specie confermassero le sue stesse teorie sul lassaiz-faire in economia. La competizione per le risorse, il calcolo razionale dei profitti, la graduale estinzione dei più deboli erano diventati i principi fondamentali dell’universo.

La posta di questa nuova visione della natura come teatro di una brutale lotta per la vita era alta e le obiezioni non tardarono a sollevarsi. Una scuola alternativa al darwinismo emerse in Russia, enfatizzando la cooperazione, non la competizione, come impulso del cambiamento evolutivo.

Nel 1902 questo approccio trovò voce in un libro molto popolare, Il mutuo appoggio: un fattore di evoluzione scritto dal naturalista e anarchico rivoluzionario Petr Kropotkin. In un’esplicita risposta ai darwinisti sociali, Kropotkin affermava che le basi teoretiche del darwinismo sociale erano completamente sbagliate: le specie che cooperavano più efficacemente tendevano a essere le più competitive sul lungo termine.

Kropotkin, un aristocratico nato col titolo di principe (al quale rinunciò da giovane) passò molti anni in Siberia come naturalista ed esploratore prima di essere imprigionato come rivoluzionario agitatore, evadere e fuggire a Londra. Il mutuo appoggio è stato sviluppato a partire da una serie di saggi scritti in risposta a Thomas Henry Huxley, un ben noto darwinista sociale, che riassumono le convinzioni russe del tempo: se la competizione era indubbiamente un fattore che spingeva sia l’evoluzione naturale che quella sociale, il ruolo della cooperazione era alla fine decisivo.

Il gioco animale e il “problema dell’altruismo”

La sfida dei russi fu presa abbastanza seriamente dalla biologia del XX secolo, particolarmente nella sua branca emergente della psicologia evoluzionistica, anche se raramente menzionata per nome. Finì invece per essere ricompresa sotto il generico tema del “problema dell’altruismo”, un’altra espressione presa in prestito dall’economia che ingenera sempre discussioni fra i teorici della “scelta razionale” nelle scienze sociali.

Era una questione che aveva già dato problemi a Darwin: perché gli animali dovrebbero sacrificare il loro vantaggio individuale a favore di altri? In effetti nessuno può negare che qualche volta lo facciano. Perché un animale è disposto ad attirare l’attenzione potenzialmente letale di un predatore solo per avvertire gli altri compagni del branco della sua presenza? Perché le api operaie sono disposte a morire pur di proteggere l’alveare? Se proporre una spiegazione scientifica di un qualsiasi comportamento significa attribuirgli dei motivi razionali e massimizzanti, allora, precisamente, che cosa sta cercando di massimizzare un’ape kamikaze? Sappiamo tutti la risposta finale, resa possibile dalla scoperta dei geni. Gli animali stanno cercando semplicemente di massimizzare la propagazione del loro stesso codice genet
ico.

Curiosamente questa teoria, che finì per essere battezzata neo-darwinista, fu grandemente sviluppata da personaggi che si consideravano in un modo o nell’altro dei radicali. Jack Haldane, un biologo marxista, cercava già di infastidire i moralisti negli anni Trenta, affermando scherzosamente che, come ogni entità biologica, sarebbe stato felice di sacrificare la vita per “due fratelli o otto cugini”. L’epitome di questa linea di pensiero è rappresentata dall’ateo militante Richard Dawkins che nel suo libro Il gene egoista scriveva che tutte le entità biologiche sono concepite nel migliore dei casi come “robot maldestri”, programmati dai codici genetici che, per qualche ragione inesplicabile, agivano come “efficienti gangster di Chicago”, espandendo senza pietà il loro territorio in un infinito desiderio di auto-propagarsi.

Queste descrizioni erano tipicamente accompagnate da frasi come: “certo, questa è solo una metafora, i geni non vogliono e non fanno veramente nulla”. Ma nella realtà i neo-darwinisti erano praticamente costretti a tirare le somme delle loro premesse iniziali: la scienza richiede una spiegazione razionale, questo significa attribuire motivi razionali a tutti i comportamenti e una vera motivazione razionale può essere solo quella che, osservata negli esseri umani, è tipicamente descritta come egoismo o avidità.

Come risultato, i neo-darwinisti andarono anche oltre i loro predecessori di età vittoriana. Se i darwinisti vecchio stile come Herbert Spencer vedevano la natura come un mercato, anche se pieno di tagliagole, il nuovo modello era direttamente il capitalismo. I neo-darwinisti davano per scontato non solo la lotta per la sopravvivenza, ma un universo di calcoli razionali guidato da un apparentemente irrazionale imperativo di crescita illimitata. In ogni caso questi furono i termini nei quali fu compresa la sfida dei russi.

Gli argomenti originali di Kropotkin erano molto più interessanti. Per esempio, si focalizzava su come la cooperazione animale spesso non ha niente a che vedere con la sopravvivenza e la riproduzione, ma è una forma di piacere in se stessa. “Prendere il volo in stormi solo per il piacere di farlo è molto comune fra tutte le specie di uccelli” scriveva. Kropotkin offre numerosi esempi di gioco sociale: coppie di avvoltoi che girano in tondo per il loro divertimento, lepri così disponibili a incontrare altre specie che occasionalmente (e poco saggiamente) avvicinano persino le volpi, stormi di uccelli che eseguono manovre in stile militare, bande di scoiattoli che si riuniscono per fare la lotta e altri giochi simili:

“Noi ora sappiamo come tutti gli animali, a partire dalle formiche, andando avanti con gli uccelli e finendo con i mammiferi più evoluti, amino i giochi, le lotte, corrersi dietro, cercare di acchiapparsi a vicenda, stuzzicarsi e così via. E mentre molti giochi sono, per così dire, una scuola per i comportamenti appropriati dei giovani nell’età matura, ce ne sono alcuni che, oltre a uno scopo utilitaristico sono, come ballare e cantare insieme, la mera manifestazione di un eccesso di forze – la gioia della vita – e di desiderio di comunicare in qualche modo con altri individui della propria o di altra specie. In breve una manifestazione di socievolezza che è una caratteristica distintiva di tutto il mondo animale”.

Esercitare le proprie capacità al massimo grado significa provare piacere della propria stessa esistenza e, per quanto riguarda le creature sociali, questo piacere è proporzionalmente accresciuto quando lo si prova in compagnia. Dalla prospettiva dei russi, questo fatto non ha bisogno di essere spiegato. È semplicemente quello in cui consiste la vita. E se essere vivi consiste in avere delle capacità, correre, saltare, lottare, volare, allora sicuramente utilizzare queste capacità in modo fine a se stesso non ha bisogno di nessuna spiegazione. È solo un’estensione dello stesso principio.

Friedrich Schiller aveva già affermato nel 1795 che era precisamente nel gioco che si trovava l’origine dell’autocoscienza e dunque della libertà e dunque della moralità. “L’uomo gioca solo quando è nel vero senso della parola un uomo” ha scritto Schiller nel suo Lettere sull’educazione estetica dell’uomo “ed è pienamente un uomo solo quando gioca”. Se è così e se Kropotkin aveva ragione, allora barlumi di libertà, o anche di vita morale, cominciano ad apparire dappertutto attorno a noi.

Non sorprende molto, dunque, che questo aspetto delle teorie di Kropotkin sia stato ignorato dai neo-darwinisti. Diversamente dal “problema dell’altruismo” il piacere della cooperazione fine a se stessa non può essere recuperato a fini ideologici. In effetti la versione della lotta per la vita che è emersa nel corso del XX secolo lascia anche meno spazio per il gioco di quella di epoca vittoriana. Herbert Spencer stesso non aveva problemi ad ammettere l’idea di gioco animale come privo di scopi, mero godimento di un surplus di energia. Proprio come un industriale o un commerciante di successo poteva andare a casa e giocare una bella partita di cribbage o di polo, perché questi animali che avevano avuto successo nella lotta per la vita non potevano anche divertirsi un po’? Ma nella nuova versione turbo-capitalista dell’evoluzione, nella quale l’impulso all’accumulazione non ha limiti, la vita non è più fine a se stessa, ma un puro strumento di propagazione per sequenze di DNA e così l’esistenza stessa del gioco diventa una specie di scandalo.

Prendiamo le aragoste

Gli scienziati non solo sono riluttanti ad avventurarsi su una strada che li potrebbe spingere a vedere il gioco, e perciò tracce di autocoscienza, libertà e vita morale, fra gli animali. Molti trovano sempre più difficile trovare delle giustificazioni per attribuire queste caratteristiche anche agli esseri umani. Una volta che si riducono tutte le creature viventi ad attori di mercato, macchine calcolatrici razionali che cercano di propagare il proprio codice genetico, si finisce per accettare che non solo le cellule fanno il nostro corpo, ma che qualsiasi essere fosse il nostro immediato antenato mancava di ogni autocoscienza, libertà o vita morale, il che rende difficile capire come o perché la coscienza (la mente, l’anima) possa mai essersi evoluta fin da principio.

Il filosofo americano Daniel Dennett inquadra il problema abbastanza lucidamente. “Prendete le aragoste” – sostiene – “sono solo robot”. Un’aragosta può esistere senza nessun senso o coscienza di sé. Non potremmo chiederci cosa significa essere un’aragosta. Non è niente. Non hanno niente che somigli neanche lontanamente alla coscienza, sono macchine. Ma se è così, dice Dennet, allora dobbiamo pensare la stessa cosa per tutti i gradi di complessità della scala evolutiva, dalle cellule che compongono i nostri corpi fino a creature elaborate come le scimmie e gli elefanti, animali che, pur avendo qualità simili a quelle umane, non possiamo provare pensino realmente a quello che fanno.

E così, finché improvvisamente Dennett arriva agli uomini i quali, mentre di sicuro vanno in giro col pilota automatico innestato per il 95 per cento del tempo, nonostante tutto hanno un “Io”, questa coscienza innestata dentro, che occasionalmente fa capolino per supervisionare le loro azioni, intervenendo per dire al sistema di cercarsi un nuovo l
avoro, smettere di fumare o scrivere un saggio accademico sull’origine della coscienza. Nelle parole di Dennett:

“Sì, noi abbiamo un’anima. Ma è fatta di tantissimi piccoli robot. In qualche modo trilioni di robotiche (e incoscienti) cellule che compongono i nostri corpi si organizzano per interagire con il sistema che sostiene le attività tradizionalmente attribuite all’anima, all’Io e al Sé. Ma visto che abbiamo già accettato che semplici robot sono incoscienti (se tostapane, termostati e telefoni sono incoscienti), perché questi robot non possono portare avanti i loro meravigliosi progetti senza comporre me? Se il sistema immunitario ha una mente sua e il circuito di coordinamento occhio-mano che raccoglie le bacche sulla pianta ha una mente sua, perché si disturbano a comporre una super-mente che sovraintenda a tutto ciò?”.

La risposta di Dennett non è particolarmente convincente: propone che abbiamo sviluppato la coscienza in modo da poter mentire, il che ci attribuisce un vantaggio evolutivo (se fosse vero allora non sarebbero coscienti anche le volpi?). Ma la questione diventa ancora più difficile non appena ci chiediamo come succeda tutto ciò – il “duro problema della coscienza” come lo chiama David Chalmers. Come fanno cellule e sistemi apparentemente meccanici a combinarsi in modo tale da avere esperienze qualitative: sentire l’umidità, assaporare il vino, farsi piacere la rumba ma essere indifferenti alla polka? Alcuni scienziati sono abbastanza onesti da ammettere che non hanno la minima idea di come giustificare tali esperienze e sospetto che mai l’avranno.

Gli elettroni ballano?
C’è una via d’uscita da questo dilemma e il primo passo è considerare che il nostro punto di partenza può essere sbagliato. Ripensiamo all’aragosta. L’aragosta ha veramente una brutta reputazione fra i filosofi che spesso la usano come esempio di creatura priva di pensieri e di sentimenti. Presumibilmente perché le aragoste sono gli unici animali che la maggior parte dei filosofi hanno mai ucciso con le proprie mani prima di mangiarli.

 

Non è piacevole gettare una creatura che si dibatte dentro una pentola di acqua bollante: si sente il bisogno di convincersi che non senta veramente nulla (L’unica eccezione a questo schema sembra essere, per qualche motivo, la Francia, dove Gérard de Nerval passeggiava con una piccola aragosta al guinzaglio, mentre Jean Paul Sartre a un certo punto aveva sviluppato per le aragoste una vera e propria ossessione erotica dopo aver preso troppa mescalina).

 

Comunque l’osservazione scientifica ha rivelato che anche le aragoste si impegnano in forme di gioco, per esempio manipolano oggetti solo per il piacere di farlo. In questo caso chiamare questi animali “robot” significa stiracchiare il significato della parola stessa. Le macchine non giocano. Ma se le creature viventi dopotutto non sono robot, molte di queste apparentemente spinose questioni si dissolvono istantaneamente. Che cosa succede se procediamo da una prospettiva inversa e accettiamo di trattare il gioco non come una peculiare anomalia, ma come un punto di partenza, un principio già presente non solo nelle aragoste e in tutti gli esseri viventi, ma persino in ogni livello nel quale i fisici, i chimici e i biologi si riferiscono a “sistemi auto-organizzati”? Non è così pazzesco come potrebbe sembrare.

I filosofi della scienza, affrontando il rompicapo di come la vita possa emergere dalla materia morta o come la coscienza si possa evolvere dai microbi, hanno sviluppato due tipi di spiegazione. La prima consiste in quello che è stato chiamato “emergentismo”. La teoria è che quando si raggiunge un certo livello di complessità c’è una sorta di salto qualitativo per cui “emergono” regole della fisica completamente nuove – basate su presupposti precedenti – ma che non possono essere ridotte a questi soli fattori. In questo modo le leggi della chimica, per esempio, potrebbero emergere dalla fisica: le leggi della chimica presuppongono le leggi della fisica, ma non si possono semplicemente ridurre ad esse. Allo stesso modo le leggi della biologia emergono dalla chimica: ovviamente è necessario capire le componenti chimiche di un pesce per capire come fa a nuotare, ma le componenti chimiche non ci forniranno una piena spiegazione. Egualmente la mente umana può emergere dalle cellule dalle quali è composta.

Coloro che aderiscono alla seconda teoria, di solito chiamata “panpsichismo” o “pansperimentalismo” ammettono che tutto questo possa essere vero, ma controbattono che l’emergenza non è una spiegazione sufficiente. Come ha detto recentemente il filosofo britannico Galen Strawson, immaginare che uno possa viaggiare dalla materia inerte a un essere capace di discutere di materia inerte in soli due salti significa voler far fare all’emergenza un po’ troppo lavoro. Qualcosa deve essere già presente a tutti i livelli di esistenza, anche a quello delle particelle subatomiche, qualcosa comunque di minimale e embrionale che fa alcune delle cose che siamo abituati a immaginare come vita (o mente), in modo da potersi organizzare via via in modo più complesso fino a produrre gli esseri coscienti. Questo “qualcosa” deve essere senza dubbio molto tenue: un rudimentale senso di reazione all’ambiente, qualcosa come un’anticipazione, una specie di memoria. Anche se rudimentale dovrebbe comunque esistere per permettere a sistemi auto-organizzati come atomi e molecole di auto-organizzarsi dal principio.

Ogni sorta di problemi vengono tirati in ballo in questo dibattito, incluso la vecchia questione del libero arbitrio. Come innumerevoli adolescenti hanno da sempre pensato – spesso mentre erano stonati e contemplavano i misteri dell’universo – se i movimenti delle particelle che compongono i nostri cervelli sono già determinati da leggi naturali, come si può affermare che abbiamo il libro arbitrio? La risposta standard è che sappiamo, dai tempi di Heisenberg, che i movimenti delle particelle atomiche non sono predeterminati; la fisica quantistica può prevedere in quale posizione, per esempio, gli elettroni tenderanno a muoversi, in aggregati, in date situazioni, ma è impossibile predire in che modo un particolare elettrone si muoverà in un particolare caso.

Dunque il problema è risolto. Solo che non è così – manca ancora qualcosa. Se tutto questo significa che le particelle che compongono i nostri cervelli saltano qua e là a caso, si è costretti a immaginare un’entità immateriale e metafisica (“la mente”) che interviene a guidare i neuroni in direzioni non casuali. Ma questo è ragionare in circolo: c’è bisogno di una mente per far funzionare un cervello come una mente. Se il moto delle particelle non è casuale, d’altra parte, si può almeno cominciare a pensare a una spiegazione materiale. E la presenza di infinite forme di auto-organizzazione in natura – strutture che si mantengono in equilibrio nel loro ambiente, dai campi elettromagnetici ai processi di cristallizzazione, danno ai panpsichisti un’abbondanza di materiale sul quale lavorare. Vero, dicono, si può insistere che tutte queste entità “obbediscono” solo a leggi di natura (leggi la cui esistenza non necessita di essere spiegata) oppure si muovono assolutamente a caso… ma se lo si fa, è solo perché si è deciso che questo è l’unico modo di affrontare la questione. E questo ci lascia con il mistero del fatto di avere una mente capace di prendere queste decisioni.

Ovviamente questo approccio è sempre stato la posizione minoritaria. Durante quasi tutto il XX secolo è stato completamente messo da parte. È facile prendersene gioco (“Aspetta, ma non stai seriamente affermando che i tavoli pensano, no?” No, in realtà nessuno dice ciò; l’idea è che questi elementi auto-organizzati che compongono anche i tavoli, come gli atomi, esprimono in forme estremamente semplici le qualità che, a un livello esponenzialmente più complesso, attribuiamo al pensiero). Ma negli ultimi anni, specialmente grazie alla rinnovata popolarità in alcuni circoli scientifici delle idee di filosofi come Charles Sanders Peirce (1839–1914) o Alfred North Whitehead (1861–1947), abbiamo cominciato a vedere un revival del panpsichismo.

Curiosamente sono i fisici che si sono dimostrati i più ricettivi a queste idee (anche i matematici – forse non a caso visto che Peirce e Whitehead hanno entrambi cominciato la loro carriera come matematici). I fisici sono più giocherelloni e meno rigidi dei biologi, in parte, senza dubbio, perché raramente hanno dovuto litigare con fondamentalisti religiosi che cercavano di negare le leggi della fisica. Sono i poeti del mondo scientifico.

Se si è già disponibili a prendere in considerazione l’esistenza di oggetti a tredici dimensioni o un infinito numero di universi alternativi o a suggerire casualmente che il 95 per cento dell’universo è fatto da materia oscura ed energia delle cui proprietà non sappiamo nulla, allora forse non è poi così traumatico contemplare l’idea di particelle subatomiche dotate di “libero arbitrio” o anche di esperienza. E certamente, l’esistenza di libertà a livello subatomico è uno scottante tema di dibattito.

Perché divertirsi è divertente?

Ha un significato affermare che un elettrone “sceglie” di muoversi nel modo in cui si muove? Ovviamente non c’è modo di provarlo. Il solo indizio che possiamo trovare in merito (il fatto che sia impossibile predire dove va un elettrone), lo abbiamo già. Ma non è certo decisivo. Eppure, se si vuole ancora mantenere una spiegazione materialistica del mondo – cioè se non si vuole indulgere nell’idea che ci sia un’entità soprannaturale che si impone sul mondo materiale – ma piuttosto che ci sia semplicemente un complesso processo di organizzazione già esistente a ogni livello di realtà materiale, allora ha un senso che ci sia almeno un po’ di intenzionalità, almeno un po’ di esperienza e almeno un po’ di libertà a ogni livello della realtà fisica.

Per quale motivo tanti di noi respingono immediatamente tali conclusioni? Perché sembrano folli e antiscientifiche? O più precisamente, perché consideriamo perfettamente accettabile attribuire una volontà a un filamento di DNA (anche se “metaforicamente”), ma consideriamo assurdo fare lo stesso con un elettrone, un fiocco di neve o un campo elettromagnetico coerente? La risposta sembra dipendere dal fatto che sia abbastanza impossibile attribuire qualche tipo di egoismo a un fiocco di neve. Se ci siamo convinti che la spiegazione razionale di ogni azione consista solo in atti connessi a qualche tipo di profitto, allora per definizione, su tutti questi livelli, non è possibile trovare una spiegazione razionale. A differenza delle molecole del DNA, che possono almeno impersonare una sorta di progetto pseudo-gangsteristico di espansione del territorio, un elettrone non ha interessi materiali da perseguire, neppure la sua sopravvivenza. Non ha senso competere con altri elettroni. Se un elettrone agisce liberamente – se, come si suppone abbia detto Richard Feynman, “fa quello che gli piace” – può farlo solo in modo fine a se stesso. Il che significa che alle fondamenta stesse della realtà fisica troviamo la libertà fine a se stessa – il che significa anche una prima rudimentale forma di gioco.

Nuota con i pesci

Immaginiamo un principio. Chiamiamolo principio di libertà, oppure, visto che le costruzioni latinizzanti sembrano più serie quando si affrontano questi argomenti, chiamiamolo principio di libertà ludica. Immaginiamo che implichi che il libero esercizio delle più complesse capacità di un’entità tenda ad essere, almeno in certe circostanze, uno scopo in se stesso. Ovviamente non sarebbe l’unico principio operante in natura. Altri principi fanno tendere in direzioni diverse. Ma se non altro questo spiegherebbe ciò che osserviamo, per esempio come mai, a dispetto della seconda legge della termodinamica, l’universo sembra diventare sempre più complesso anziché meno. La psicologia evoluzionistica afferma di poter spiegare – come dice il titolo di un libro – “Perché il sesso è divertente”. Quello che non riescono a spiegare è perché divertirsi è divertente. Il principio di libertà ludica potrebbe farlo.

Non voglio negare che ciò di cui vi sto parlando sia una gigantesca semplificazione di tematiche molto complicate. Non sto neppure dicendo che l’idea che qui suggerisco – che ci sia un principio del gioco alla base della realtà fisica – sia necessariamente vero. Vorrei solo insistere sul fatto che tale prospettiva è almeno altrettanto plausibile di quanto non sembri stranamente assurda quella che è ortodossa adesso, secondo la quale un universo scervellato e robotico produce poeti e filosofi tirandoli fuori dal nulla. Non penso neppure che identificare il gioco come un principio di natura significhi per forza adottare una visione della vita smielatamente utopica. Il principio del gioco può spiegare perché il sesso è divertente, ma può anche spiegare perché è divertente la crudeltà (chiunque abbia visto un gatto giocare con un topo può testimoniarlo, i giochi di tanti animali non sono per nulla innocui). Tuttavia questo ci dà spazio per ripensare il mondo attorno a noi. Anni fa, quando insegnavo a Yale, assegnavo agli studenti una lettura che conteneva un famoso racconto taoista. Mettevo in palio un voto “A” automatico per qualsiasi studente che mi avesse saputo dire perché l’ultima frase aveva un senso (nessuno è mai riuscito a guadagnarselo).

Zhuangzi e Huizi stavano passeggiando su un ponte sul fiume Hao, quando il primo osservò: “Vedi come quei pesciolini sfrecciano tra le rocce? Ecco cos’è la felicità per i pesci”. “Visto che non sei un pesce” gli rispose Huizi “come fai a sapere che cosa rende un pesce felice?” “E tu, visto che non sei me” disse Zhuangzi “come fai a sapere che io non so che cosa rende un pesce felice?”

“Se io, non essendo te, non posso sapere quello che tu sai” replicò Huizi “questo non conferma il principio che tu, non essendo un pesce, non puoi sapere se è felice?”

“Torniamo un attimo alla tua domanda originale” disse Zhuangzi “Mi hai chiesto come faccio a sapere che cosa rende felice un pesce. Il fatto stesso che me l’hai chiesto dimostra che tu sai che io lo so, come infatti è, dai miei stessi sentimenti su questo ponte”.

Questo aneddoto di solito è usato per mostrare un confronto tra due visioni del mondo inconciliabili: quella logica contro quella mistica. Ma se è vero, allora perché Zhuangzi, che lo ha messo per iscritto, si è voluto mostrare come sconfitto dalla logica dell’amico?

Dopo averci pensato su per anni, ho capito che il punto era proprio questo. Secondo le fonti, Zhuangzi e Huizi erano ottimi amici. Si divertivano a passare ore insieme a discutere in questo modo. Ecco dove voleva veramente arrivare Zhuangzi. Noi possiamo capire i sentimenti degli altri perché, discutendo dei pesci, stiamo facendo esattamente come i pesci. Stiamo giocando. Lo stesso fatto che tu abbia accettato la sfida di battermi in questa discussione e sia così felice di esserci riuscito, mostra che le tue premesse sono false. Visto che anche i filosofi sono motivati principalmente dal piacere, dall’esercitare al massimo grado le loro capacità solo per il gusto di farlo, allora sicuramente il principio del gioco esiste anche negli altri livelli della natura – e questo sp
iega come riusciamo spontaneamente a identificarlo anche nei pesci.

Zhuangzi aveva ragione. E aveva ragione anche June Thunderstorm. Le nostre menti sono parte della natura. Possiamo capire la felicità dei pesci, delle formiche o dei bruchi, perché ciò che ci spinge a pensare e discutere su questi argomenti è, alla fine, esattamente la stessa forza.

Ammettetelo, non è stato divertente?

[Originariamente pubblicato su The Baffler Magazine www.thebaffler.com Traduzione di Fabio Benincasa]

(7 settembre 2020)





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