Che significa essere di sinistra?
Gino Dato
intervista a Giorgio Cesarale , da La Gazzetta del Mezzogiorno, 8 aprile 2019
«Credo che abbia significato qualcosa di profondamente diverso, e cioè non tanto integrare i più “deboli”, consentendo loro di condurre una esistenza più dignitosa, quanto permettere a quest’ultimi di ridescrivere la propria condizione, scoprendosi “forti”, molto più forti di quanto poteri e discorsi dominanti lascino immaginare».
E per raggiungere questo risultato?
«Occorre una vasta mobilitazione di forze, organizzative, politiche, culturali: lavoratori, donne, immigrati, nazionalità oppresse, le tradizionali “basi” sociali della sinistra, si pensano in prima istanza come “vittime” di una sfortunata lotteria naturale o storica, non come quelle forze senza le quali nessuna attività, produttiva o riproduttiva, potrebbe essere compiuta, nessun bene e servizio potrebbe essere fornito (casa, vestiario, trasporti…). Riscoprire la potenza, già esistente, della cooperazione, produttiva o riproduttiva, fra gli uomini e le donne, ecco quel che mi pare essere al cuore di una posizione di “sinistra”».
Si indica la data del 1989, il collasso e caduta dell’Urss, per indicare la fine della sinistra e di un’epoca. In realtà i segni di cedimento sono precedenti?
«Sì, nella mia lettura il 1989 è solo una delle tappe di una crisi che è cominciata molto prima, tra il 1968 e il 1973: per un verso, perché ritengo che in quegli anni sia venuta meno la “spinta propulsiva” non solo del “socialismo reale”, del resto già abbastanza ammaccato per proprio conto, ma anche del capitalismo occidentale, con le conseguenze che oggi vediamo pienamente dispiegate (un capitalismo che produce ricchezza a un tasso meno sostenuto – questo non hanno voluto capirlo né i socialdemocratici né l’estrema sinistra – non concede più il terreno per negoziare sostanziali avanzamenti salariali, normativi etc.: conviene trasferire le attività economiche altrove, dove i vincoli legali, sociali, ambientali sono meno stringenti); per altro verso, perché penso che le rivoluzioni antiburocratiche e antiautoritarie di quegli anni abbiano fatto maturare una “composizione sociale” più ricca, una soggettività con bisogni più complessi (di democrazia, autorealizzazione, comprensione di sé etc.), cui le organizzazioni tradizionali di sinistra hanno saputo fornire poca “sponda”, pagandone, a partire dai primi anni ’80, un prezzo altissimo».
Lei parla di alcuni traumi della sinistra. Le cito uno in particolare: all’indomani del 1989 – lei scrive – “il capitalismo non funge più da incentivo alla crescita della ricchezza”. Le chiedo: la sinistra declina per la gravità delle crisi economiche?
«Direi che declina senz’altro, ma solo se non ha una alternativa. Negli anni 30, che non sono stati facili per la sinistra tutta, anche se non sono mancati momenti entusiasmanti, le condizioni erano, come sappiamo, ancora più impervie. Eppure la sinistra aveva, o credeva di avere, un’alternativa. Sapeva, cioè, quali misure avrebbe dovuto introdurre se fosse arrivata, o per via riformistica o per via rivoluzionaria, al potere. Oggi, a dieci anni, dalla crisi del 2007-2008, che in Occidente è stata davvero molto forte, è chiaro a pochi, in questo campo, quel che bisogna fare (nazionalizzazioni? Spesa “keynesiana” in deficit? Gestione democratica, attraverso board eletti anche dai lavoratori, della produzione e della finanza?). Senza considerare il quadro politico complessivo, che strozza in anticipo tutte le alternative tranne quelle reattive. Le vicende della UE ne sono una tragica testimonianza: ormai lo scontro è solo tra l’“estremismo di centro” (da Macron ai 5 stelle) e i populismi».
Che cosa è sopravvissuto rispetto all’inabissarsi della sinistra e come il pensiero critico sta reagendo ad alcune sfide centrali, per esempio i flussi migratori o il diffondersi del suprematismo?
«La mia tesi è che nel pensiero critico contemporaneo sia sopravvissuta e abbia guadagnato via via più forza la consapevolezza del carattere contingente, cioè sempre revocabile, del rapporto fra interno ed esterno. Il pensiero critico degli ultimi trent’anni ha cioè capito, molto prima di altri, che il capitalismo non poteva rinchiudersi nel suo tradizionale tripolarismo (Europa, Usa, Giappone), che c’era molto altro (Cina, ma non solo) che batteva alle porte; che le politiche di inclusione sociale del glorioso Welfare state potevano e possono realizzarsi solo se qualcun altro viene escluso, perché marchiato a fuoco dalla sua identità (immigrati, donne etc.); che, in fondo, la soggettività si stabilizza in modo sempre provvisorio, in costante tensione con i materiali ideologici esistenti (la nazione, la legittimazione delle gerarchie esistenti etc.). Suprematismo e xenofobia assolutizzano, invece, una certa e determinata identità, interrompono i canali di scorrimento fra interno ed esterno».
Dobbiamo immaginare uno scenario futuro estremo in cui prevarrà la “necropolitica”, il diritto della politica, come dice Mbembe, di “decidere chi può vivere e chi deve morire”?
Mbembe, a ragione, pensa che questo fosse il senso, profondamente razzista, della politica coloniale e ne vede la continuazione fin dentro il continente europeo. Io sono meno pessimista: il lessico politico moderno contiene anche potenti risorse emancipative, di razionale autodeterminazione, che bisogna far prevalere.
(12 aprile 2019)
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