Checco Zalone: l’imprevedibile asticella

Flavio De Bernardinis

Un tempo, l’epiteto “illustrativo” era considerato parte eufemistica di un giudizio negativo. Illustrativo oggi è la pura e semplice giustificazione del vuoto, è il Pinocchio di Matteo Garrone, film che si compiace delle illustrazioni di cui è composto, senza ritmi né capacità narrativa.

Un tempo, la parola “autore” significava un intero universo, di immagini e voce. Autore oggi è un salvacondotto a priori, è Il sindaco del rione Sanità, di Mario Martone, film che è come un limbo, senza gioia né dolore, tra il modello di Eduardo e la riproduzione attuale.

Un tempo, l’etichetta di “genere” si applicava a un gioco cinematografico produttivo e anche sorprendente, riconosciuto e riconoscibile. Genere oggi è la sintesi pigra e dinoccolata del cinema italiano, un gioco che rassicura il pubblico e infonde tranquillità, senza posta in palio.

È del tutto evidente che Tolo tolo, di Luca Medici/Checco Zalone non rientra in tale ripartizione. Vista la consistenza di pubblico che ne segue la carriera, milioni di spettatori, Zalone avrebbe potuto anche essere illustrativo, ossia distinto e compiaciuto; oppure autore, ovvero specchio automatico di se stesso; e infine genere, cioè ripetizione programmata di una formula che garantisce l’effetto e consolida il risultato.

Per usare un’espressione di moda, che noi non amiamo ma forse qui ci sta bene, Zalone invece alza l’asticella. Anzi, meglio, l’alza, ma anche l’abbassa, la sposta a destra e sinistra, la toglie e la rimette. Un’asticella davvero imprevedibile.

Chissà se a Zalone è mai capitato di vedere Che c’entriamo noi con la rivoluzione, 1972, di Sergio Corbucci (film dimenticato, ed è strano, oggi che tutto viene come per incanto accolto e assestato in mostre e musei…), in cui Vittorio Gassman e Paolo Villaggio vagabondavano pericolosamente nel Messico di Emiliano Zapata, incontrando persino un paradossale Giuseppe Garibaldi. Anche quello era un film “ad asticella imprevedibile”, un road-movie un po’gaglioffo, accumulante numeri e esibizioni, come Tolo tolo, con un bel finale inaspettato, mentre Zalone stavolta non riesce proprio a immaginarne uno come si deve, di finale.

Anche il funzionamento stesso del “comico”, per Checco Zalone, è un’imprevedibile asticella. Le battute sono quasi sempre fuori ritmo, arrivano un attimo prima o un attimo dopo rispetto alla situazione in scena. A volte si impicciano una sull’altra, per cui lo spettatore ride di una gag verbale, e se ne perde un’altra che sopraggiunge immediatamente. Il personaggio Zalone né dialoga né commenta, è come se pensasse a voce alta. Se fa una domanda, raramente riceve risposta. Se replica quasi mai la risposta giunge a destinazione. Solo quando canta, all’improvviso, riesce a parlare e conversare con tutti gli altri.

Il film, in quanto “film”, ne risente. Il ritmo procede a scatti, a tappe forzate come il viaggio del protagonista dal Senegal (il Kenya nella realtà del set) alla Libia, accovacciato su un enorme furgone pieno di borse e bagagli, che sembra la nave zeppa di albanesi ne Lamerica di Gianni Amelio, 1994. Il made in Italy dilaga comunque nel continente nero, con le griffe di tutti gli stilisti, e la cultura cinematografica, per esempio Rossellini e Pasolini, anche questa utile per tentare l’avventura di attraversare il Mediterraneo (anche se l’africano colto e intellettuale sarà proprio quello traditore dei compagni di viaggio).

Maschilismo, razzismo, ipocrisia e culto del denaro sono funzioni del vivere incivile che non risparmiano nessuno, né poveri né ricchi, né europei né extraeuropei, né italiani né migranti. La globalizzazione ha prodotto un unico blocco interclassista che condivide tra privilegiati e disgraziati la fatidica ossessione per il “picaresco di successo”. Nel mondo globalizzato, infatti, sono tutti vagabondi in cerca di fortuite occasioni, e tutti mendicanti che questuano un qualsiasi privilegio.

Sballottato tra vagabondi e mendicanti, il personaggio Zalone si ritaglia il ruolo del “sognatore”, un Candido sia gentilissimo che maleducatissimo, sempre fuori ritmo, se non nelle irrinunciabili visioni oniriche a suon di musical. Il film diventa allora questa ossessione di dare il tempo a ogni possibile dissonanza: se il film ne soffre, il cinema finisce invece col giovarsene. Il road-movie per accumulo e dissonanza si rivela quello che quasi nessuno oggi mira e coltiva nel cinema italiano, ovvero un’idea di cinema. L’imprevedibile asticella di gag sfasate, battute fulminanti, situazioni irrisolte, inaspettate sorprese è un nucleo strutturale che in ogni modo, fa cinema. Ossia, smuove le acque, rovescia i luoghi comuni, recupera frasi fatte, smista ipotesi ed illusioni.

Che sia merito anche di Paolo Virzì alla scrittura del copione? È possibile. Il picaresco, da I soliti ignoti a L’armata Brancaleone, è uno dei tratti distintivi della cosiddetta “commedia all’italiana”, genere di cui Virzì oggi è l’erede ufficiale. Zalone, ovviamente, ci mette la faccia. La faccia di un italiano spolpato dalla televisione, cioè dal berlusconismo, che macina opinioni su opinioni, che ingaggia una battaglia contro i luoghi comuni a suon di luoghi comuni, che come il giovane Berlusconi al pianoforte in crociera (oppure il Berlusconi/Servillo che intona “Malafemmina” in Loro di Sorrentino…) solo nel fermare tutto dell’esibizione canterina trova una sua stralunata sincerità.

Se “commedia” è l’idea di società che questa commedia ha reso possibile, ebbene Tolo tolo è in assoluto la commedia di questi tempi feroci e canticchiati. Una commedia globale che tutto ingloba intorno a sé: i “parenti/serpenti” rannicchiati sulle alture delle Murge, i “migranti/cantanti” sulla strada di un’Europa invisibile, gli “evasori fiscali/criminali” nei club vacanzieri a un passo dalla fine del mondo, i vip “reporter/testimonial” tanto della cupa miseria africana che dell’acqua di colonia griffata, la “politica/società civile” che trascorre in un istante dall’anonimato questuante alle cariche più prestigiose di governo. Un blocco interclassista in cui tutti declamano la dedizione a un “dovere” astratto e giaculatorio, condizione da cui emerge il nuovo fondamentalismo, ossia la “civiltà” intesa come una “religione”.

Al centro di questa commedia globale intorno alla quale tutto e tutti orbitano senza alcun ritmo condiviso, sta l’eroe sognatore, immagine del vuoto da cui ogni cosa e figura sono attratte e respinte. Zalone, il laico smarrito in terra di fanatici della civiltà (dell’idea astratta di civiltà), accoglie laicamente tutte le immagini disponibili che però, in un effetto saponetta, gli sfuggono all’improvviso dalle mani e dagli occhi. Non gli resta che “sognar cantando”, nella tradizione del comico e del melodrammatico italiani, un effetto residuale che evidentemente colpisce nel segno, un granello di “tradizione&r
dquo;, popolare e di sinistra, vista la moltitudine di pubblico che il film sommuove.

E infine a proposito di “cinema”, o meglio di industria del cinema, che in Italia alcuni dicono non esserci quasi mai stata, è auspicabile che il produttore Pietro Valsecchi, o lo stesso Luca Medici, trovino il modo di reinvestire almeno un 10% della valanga di denaro incassato, per individuare e promuovere giovani talenti dell’arte e del lavoro cinematografici. Questa infatti sarebbe una bella idea di cinema, e anche un’idea, se pur piccola, di civiltà.

(3 gennaio 2020)





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