Chi ha paura dell’ateismo?

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Dawkins è l’avversario ideale dei neocreazionisti di ogni estrazione, lo spauracchio perfetto. Accusato di ‘ateismo dogmatico’ e di ‘ateologia da bestseller’, l’evoluzionista di Oxford in realtà non fa che utilizzare in modo rigoroso e senza sconti la razionalità. Giungendo così ad affermare che, sebbene l’inesistenza di Dio sia tecnicamente indimostrabile (come del resto quella di una teiera cinese che orbita tra la Terra e Marte), essa è tuttavia altamente probabile.

di Telmo Pievani

Se risulta che Dio esiste, non credo che sia cattivo. Il peggio che si possa dire di lui è che fondamentalmente ha avuto poco successo.
Woody Allen

Leggere un libro di Richard Dawkins procura un piacere intellettuale che va ben oltre i motivi di possibile dissenso sulle sue idee. Al limite, se ne trarrebbe giovamento per la mente anche qualora si fosse in totale disaccordo con ciascuna delle sue ipotesi. L’ultimo volume di cui ora si discute accesamente anche in Italia, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere (Mondadori, Milano 2007) non fa eccezione. Non è difficile comprendere perché un uso così tagliente, spigoloso, urticante della ragione possa risultare indigesto a molti che preferiscono attingere allo scaffale, sempre ben fornito, dei sedativi della mente.
Dawkins non piace a molti credenti, naturalmente. Il fatto più imprevedibile è che piace ancor meno a un vasto numero di laici non credenti, che talvolta reagiscono con un fastidio supplementare. Le motivazioni addotte da questa seconda categoria sono decisamente più interessanti e rivelano forse la presenza di alcuni tabù culturali. Proviamo allora a improntare un semplice confronto: da una parte, la proposta teorica effettiva di Dawkins, che cosa ipotizza davvero di tanto scandaloso o di tanto semplicistico in L’illusione di Dio; dall’altra, gli argomenti addotti dai suoi avversari laici, soprattutto in Italia. Potremmo scoprire che vi sono argomenti, dalle nostre parti, di cui semplicemente non è buona educazione parlare.

Le ragioni per non credere
Vi sono molte buone ragioni per non essere d’accordo con Richard Dawkins. Per cominciare, si può pensare che la sua ipotesi evoluzionistica circa l’origine delle religioni, tutta centrata sulla logica universale del replicatore egoista – sia esso un gene o un meme (1) – abbia numerosi punti deboli e debba essere perlomeno integrata con altri fattori. Da qui si potrebbe estendere l’obiezione alla visione più generale dell’evoluzione intesa come un algoritmo selettivo generalizzato, un implacabile processo di ottimizzazione funzionale e ingegneristica sospinto dalla competizione fra linee genetiche e alleanze di replicatori. Idea quanto mai influente ed efficace, ma forse non del tutto esaustiva per comprendere realisticamente l’intreccio di espedienti e di meccanismi dell’evoluzione biologica. Forse un darwinismo più flessibile potrebbe offrire strumenti migliori per comprendere anche la storia naturale delle credenze.
Su un altro versante, si può osservare che il capitolo dove viene rapidamente liquidato l’intero catalogo delle prove classiche dell’esistenza di Dio avrebbe forse meritato qualche approfondimento e che non è così scontato che la ragione scientifica, in virtù di nuove prove, possa lasciarsi alle spalle alcuni secoli di contributi teorici di quella «filosofia naturale» che della scienza moderna è stata il crogiuolo e, al contempo, l’interprete. In effetti, il fulcro del libro non riguarda soltanto i rapporti fra la scienza e la teologia, ma anche quelli fra le scienze naturali e la filosofia. Quest’ultima sembra chiamata a rinunciare alla proprio autonomia di indagine, per adattarsi a divenire parte integrante dell’impresa scientifica. Così le «ragioni per non credere» addotte da Dawkins non vogliono essere argomentazioni filosofiche compatibili con o dedotte da conoscenze scientifiche, bensì «ragioni scientifiche» tout court.
Una simile impostazione è del tutto prevedibile, poiché l’assunto da cui muove l’autore – non certo per la prima volta in questo libro – è che le scienze naturali siano in fondo l’unica sorgente di conoscenza attendibile e plausibile sul mondo. Da questo naturalismo scientifico stretto discende la possibilità che la questione dell’esistenza o inesistenza di Dio sia compresa all’interno della portata esplicativa della scienza. È una tesi senz’altro ardita, minoritaria anche all’interno della comunità scientifica, che tuttavia produce solitamente reazioni scomposte che poco hanno a che vedere con il suo specifico contenuto teorico.
Il punto in questione è se l’atteggiamento scientifico debba condurre a un agnosticismo di principio, che Dawkins chiama «agnosticismo permanente teorico», oppure a un agnosticismo temporaneo e sostanzialmente pragmatico. Nel primo caso, lo scienziato ammette che il problema di Dio è completamente al di fuori della sfera delle sue indagini, perché non potrà in linea di principio trovare mai prove o argomenti per dare una risposta in un senso o nell’altro. Si assume che l’interrogativo in sé non sia risolvibile per via scientifica e che debba essere delegato ad altre modalità di ricerca, filosofica o teologica.

L’improbabilità di Dio
Dawkins sceglie invece temerariamente di applicare al problema di Dio un «agnosticismo temporaneo». L’esistenza o inesistenza di Dio diventa per lui «un’ipotesi scientifica come un’altra». Sfidare l’autorità di pensatori come Kant e Hume non lo intimorisce: «Dio esiste o non esiste. È una questione scientifica; un giorno conosceremo la risposta e nel frattempo possiamo dire qualcosa di abbastanza concreto in merito alle probabilità» (p. 55). La storia della scienza insegna a essere cauti nello stabilire che una certa posizione agnostica debba resistere per sempre. Difficile dargli torto, ma varrà davvero anche per l’entità sovrannaturale per eccellenza? Qui Dawkins non compie l’errore di portare l’argomentazione al suo estremo, cioè di affermare che esiste una prova scientifica certa e definitiva della non esistenza. Tuttavia, che Dio esista o meno «è un fatto scientifico inerente all’universo, dimostrabile in teoria, se non in pratica» (p. 56).
L’avvio del suo ragionamento si incentra sul presupposto che l’impossibilità di dimostrare l’esistenza o la non esistenza di qualcosa non metta l’esistenza o la non esistenza di quel qualcosa su un piano di parità perfetta. Esistono criteri che possono far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, e sono di due tipi. Il primo, secondo Dawkins, è la probabilità, da cui possiamo derivare una maggiore o minore plausibilità logica. Esistono infiniti oggetti che noi possiamo concepire e di cui non possiamo confutare l’esistenza. È il noto argomento di Bertrand Russell della teiera cinese orbitante fra la Terra e Marte, invisibile a ogni strumento umano. Dimostrare per certo che la teiera non esiste è impossibile, ma ciò non esclude che per discrete ragioni si possa considerarla un’evenienza piuttosto implausibile. Dubitare della sua esistenza non è quindi una presunzione arrogante della ragione, ma al contrario un suo prudente e retto esercizio. L’inesistenza della teiera resta indimostrabile, ma lo scetticismo sembra essere l’attitudine pi&ugrave
; ragionevole al riguardo. Ciò vale, a maggior ragione, se pensiamo che in linea di principio l’onere della prova dovrebbe spettare a chi crede in quelle entità, non a chi non vi crede.
Molti non avrebbero difficoltà a dichiararsi atei a proposito delle teiere cinesi, del dio degli spaghetti, delle superstizioni, e soprattutto degli dei degli altri. Il problema diventa allora quello di capire se esistono differenze sostanziali fra una teiera cinese orbitante nel sistema solare, un unicorno rosa immaginario e gli dei in cui credono alcuni miliardi di persone. Per Dawkins, se siamo pronti a definirci a-teieristi dovremmo anche accettare di buon grado di essere atei, almeno de facto. Da questa prima pista segue una conclusione, che darà l’avvio per la seconda mossa: «La teiera di Russell dimostra che l’ampia diffusione della credenza in Dio, rispetto alla scarsa diffusione della credenza nelle teiere celesti, non modifica dal punto di vista logico l’onere della prova, anche se sembra modificarlo dal punto di vista della politica pratica. Che non si possa dimostrare l’inesistenza di Dio è un fatto riconosciuto, se non altro perché non si può dimostrare in maniera incontrovertibile l’inesistenza di niente. L’importante non è se Dio sia confutabile (non lo è), ma se Dio sia probabile. È tutt’altra questione» (p. 60).
Qui entra in gioco il Dawkins evoluzionista che sfodera il suo pezzo forte di repertorio, cioè ritorcere la logica creazionista contro se stessa. Che Dio sia il creatore sovrannaturale dell’universo, e della vita intelligente al suo interno, è un’ipotesi fortemente improbabile. La teoria dell’evoluzione darwiniana non ha alcun bisogno di ricorrere a questa eventualità. Pertanto l’asimmetria è netta. Se accettiamo che le improbabili strutture complesse della vita siano il frutto di un processo naturale continuativo, possiamo contare su una massa ormai incontrovertibile di evidenze empiriche a nostro favore, abbiamo una spiegazione molto potente e altamente probabile della storia naturale. Se rimandiamo invece la spiegazione a un creatore o a un «progettista intelligente», ci scontriamo con la difficoltà inaggirabile di spiegare, in un regresso all’infinito, l’esistenza di qualcosa di ancor più improbabile. Se infatti esistesse un Dio architetto capace di progettare qualcosa di così complesso, dovrebbe a sua volta essere altrettanto se non più complesso, e quindi avrebbe bisogno per sé dello stesso tipo di spiegazione che si dà per la complessità da lui creata.
Ficcandoci nel vicolo cieco creazionista, secondo Dawkins, non è che usciamo semplicemente dal dominio della scienza, facciamo molto di più: stiamo postulando l’esistenza di un’entità che, contemporaneamente, è del tutto improbabile e richiede più spiegazioni di quante ne fornisca. È una scelta implausibile, che non tiene conto né dei fatti né della logica: «Per quanto l’entità che si cerca di spiegare evocando un creatore possa essere statisticamente improbabile, il creatore stesso è almeno altrettanto improbabile» (p. 115). Quindi dall’inutilità e dall’implausibilità dell’ipotesi Dio per spiegare l’evoluzione della natura Dawkins fa discendere che quell’ipotesi è, se non proprio necessariamente e certamente falsa, almeno altamente improbabile: «Sebbene non si possa tecnicamente dimostrare che non esista, Dio è molto, molto improbabile» (p. 113). Poco più avanti però sembra più ottimista sulle possibilità «tecniche» di arrivare a dimostrare l’indifendibilità dell’ipotesi sovrannaturale: «È quasi certo che Dio non esiste» (p. 161).

Un ateismo de facto
Dunque, per spiegare qualcosa di improbabile non è una buona soluzione postulare qualcosa di ancora più improbabile. Meglio cercare di capire e dissolvere l’improbabilità nella sua storia evolutiva empiricamente verificata. Se ancora non possiamo farlo per problemi più ampi come il primo attimo dell’universo o le origini della vita, è soltanto questione di tempo e di statistica. Ma vale lo stesso principio probabilistico: «Un Dio capace di calcolare i valori di abitabilità delle sei costanti fisiche fondamentali sarebbe altrettanto – o ancor più – improbabile della combinazione perfetta delle costanti, cioè molto, molto improbabile, e questa improbabilità è proprio il problema che dobbiamo risolvere» (p. 146). Il presupposto implicito in Dawkins è naturalmente che gli esseri umani debbano essere soggetti razionali dominati dall’ambizione di spiegare il mondo, piuttosto che dal desiderio di trovare una consolazione per la sua mancanza di senso. La teologia dunque non può ambire a essere riconosciuta nemmeno come un campo di ricerca, essendo una disciplina priva dell’oggetto di studio (p. 63).
L’approdo è quello di un «ateismo de facto», o metodologico, dove ancora non è detta l’ultima parola, ma quasi: «Probabilità bassissime, ma superiori a zero. Non posso saperlo con sicurezza, ma ritengo molto improbabile che Dio esista e vivo la mia vita dando per scontato che non esista» (p. 57). Non sembrerebbe una posizione così offensiva e irrispettosa, come in tanti l’hanno dipinta. In fondo, vivere come se Dio non ci fosse, etsi Deus non daretur, è riconosciuto anche da molti credenti come il fondamento della laicità. Tuttavia, è pur vero che l’opzione di Dawkins si differenzia per radicalità dalle scelte predilette da altri scienziati, che si dividono fra un agnosticismo scientifico (il problema di Dio esula per definizione dal dominio della scienza, è incommensurabile e non prendo posizione) e un ateismo metodologico circoscritto alla scienza (finché ci si occupa del mondo naturale l’ipotesi di Dio è esclusa).
In Dawkins sopravvive a stento soltanto la possibilità del Dio impersonale e spinoziano di Albert Einstein. Anche il mite e conciliante deismo di chi crede in cuor suo, al di fuori della scienza, che Dio abbia creato l’universo e le sue leggi, per poi non intervenire più in alcun modo, è escluso con una petizione di principio: «Un universo con un creatore intelligente e soprannaturale è un universo molto diverso da quello senza creatore» (p. 65). La differenza c’è, «anche se in pratica non è facile dimostrarla» (e in effetti questo è uno dei punti deboli dell’argomentazione).
Fin qui, la proposta centrale. Il resto è tutto ciò che catalizza i conflitti sui media. L’incedere intransigente di Dawkins sembra infatti precludere anche la libera scelta individuale di una fede posta oltre le colonne d’Ercole della ragione, di un credo quia absurdum, perché sarebbe intrinsecamente irrazionale e per ciò stesso dannosa. Non conviene abbracciare una credenza nemmeno per scommessa o per convenienza, nemmeno per vocazione mistica o per esigenze spirituali non confessionali, poiché i vantaggi adattativi per i quali si sono evolute le credenze negli esseri umani sono diventati oggi in gran parte controproducenti, perché non vi è alcun nesso stringente fra la rettitudine morale e le credenze religiose (semmai il contrario), perché è più autentico l’incantamento del mondo che proviamo quando ne apprezziamo meravigliati l’ordine e la bellezza naturali, perché il fanatismo e l’integralismo sono prodotti inevitabili dell’assolutismo
delle fedi, perché l’indottrinamento religioso dei bambini è di per sé ingiusto qualunque sia la confessione praticata. Le «ragioni per non credere» diventano quindi le ragioni per rovesciare analiticamente tutti gli argomenti che automaticamente attribuiscono all’ateismo, e al naturalismo filosofico, l’indebolimento del senso morale, l’allentamento degli impegni sociali, se non addirittura la perdita della dignità umana.

Come si permette, uno scienziato, di immischiarsi nella teologia?
In coda, si accumula qualche eccesso di veleno: come quando accusa di vigliaccheria e di opportunismo tutti gli evoluzionisti che non vedono un conflitto ineliminabile fra scienza e fede; quando esclude persino un’ipotetica religione senza pretese mondane; quando schiaccia qualsiasi forma di sentimento religioso sul monoteismo. Il calcolo di quanto siano stati malvagi nella storia umana i credenti rispetto ai non credenti è piuttosto arduo, e forse non così indispensabile. Il biologo e saggista Allen Orr ha fatto notare che è strano che un ateo si prefigga obiettivi di proselitismo quasi «missionario», invitando ripetutamente al «risveglio delle coscienze» e proponendo comandamenti laici alternativi.
Ci accorgiamo poi che non è ben riuscita nemmeno la riduzione della filosofia alla scienza, giacché l’argomento centrale dell’improbabilità di Dio è squisitamente filosofico e ha la stessa tonalità argomentativa delle prove di esistenza poco prima sbrigativamente derubricate. Nel libro cercheremmo invano nuove prove, nuovi fatti o nuovi esperimenti che ci persuadano dell’inesistenza di Dio. Allora il fatto che Dio esista o meno non è dimostrabile scientificamente né in pratica né in teoria, a meno di non concedere che una teoria scientifica sia dimostrabile sulla base di un ragionamento filosofico. Di solito, serve qualcosa di più. Dunque l’esistenza o inesistenza di Dio non sembra essere «un fatto scientifico inerente all’universo, dimostrabile in teoria, se non in pratica» (p. 56).
Eppure, se spostassimo l’argomentazione di Dawkins nell’arena del dibattito filosofico – quello desunto senza fraintendimenti dai risultati della ricerca scientifica – ne trarremmo tutti i vantaggi di un’interessante e rinnovata disputa attorno al naturalismo. Sfortunatamente, non è quasi mai così. Tutti preferiamo vedere in Dawkins colui che indebitamente deduce l’ateismo dal darwinismo, e lui ama stare al gioco. Un intero coro di voci si solleva per dire, con sollievo: «Ve l’avevamo sempre detto che l’evoluzionismo non è scienza, ma fin dal principio un’ideologia materialista e atea».
L’evoluzionista di Oxford diventa così l’avversario ideale dei neocreazionisti di ogni estrazione. È lo spauracchio perfetto. Ma il problema spinoso sta nel fatto che – per quante interpretazioni probabilistiche Dawkins ne possa dare – la teoria dell’evoluzione è comunque scienza corroborata, è comunque una spiegazione potente e integralmente naturalistica che non ha più alcun bisogno di ricorrere a piani preordinati, a cause finali, a provvidenze e a disegni intelligenti. Il tema controverso è capire fino a che punto l’evidenza empirica della contingenza radicale del nostro destino ci porti a dedurre non solo la totale estraneità alla scienza, non solo la debolezza sul piano filosofico, ma anche la certa e scientificamente dimostrabile falsità di qualsiasi ipotesi sovrannaturale.
Il merito indiscutibile dell’autore dell’Illusione di Dio è quello di ricordarci che si tratta ancora oggi di una sfida aperta, di una ferita narcisistica profonda non ancora cicatrizzata. Ci fa capire che non è casuale che Charles Darwin, un secolo e mezzo dopo, a differenza di Albert Einstein e di Werner Heisenberg, sia ancora un duro boccone da metabolizzare al di fuori della scienza. Ci mette in guardia da ogni facile concordismo di facciata, e in questo torna a essere terribilmente efficace e scomodo. Lo si capisce dalle reazioni di tutti coloro che, anziché entrare nel merito e mostrare semmai che la sua soluzione filosofica è tutt’altro che infallibile e ancor meno definitiva, preferiscono concentrarsi sull’incompetenza teologica dell’autore. Come si permette, uno scienziato, di discettare di Dio senza conoscere la letteratura di riferimento e senza capire cosa significa davvero il sentimento religioso? In questo modo, finisce per comportarsi come quei dilettanti che discutono di Darwin per criticarlo sulla base di argomenti che nulla hanno a che vedere con la scienza. Seguendo questa china del «rispetto reciproco» violato, un libro che può essere tutt’al più accusato di scarsa originalità – visto che in gran parte era già stato brillantemente concepito da Bertrand Russell – diventa oggetto di indignazione in quanto arrogante manifesto di «ateismo dogmatico», di «ateologia da bestseller».

L’improvviso innamoramento dei teologi per l’evoluzione
L’obiezione è plausibile, ma fondata su un presupposto scivoloso. Fino a che punto possiamo davvero asserire che la religione è immune dallo scetticismo scientifico? Sulla base di quale principio le credenze dovrebbero godere di un salvacondotto generalizzato? Detto in termini più generali, siamo sicuri che regga la distinzione fra scienza e fede come «magisteri che non si sovrappongono»? In fondo, il territorio che viene attribuito come competenza esclusiva della religione e della filosofia – il senso della storia, le domande ultime, i valori morali – non è riducibile, certo, ma nemmeno impermeabile alla scienza. Dunque le sovrapposizioni esistono. Inoltre, la scienza è un sapere in evoluzione, che allarga il suo sguardo sull’ignoto e pone sempre nuove sfide, anche di tipo etico. E poi, ammesso e non concesso che la scienza non possa rispondere a una domanda di senso, non è ben chiaro perché ciò debba implicare che possa rispondervi la teologia.
Ma soprattutto, la dottrina dei magisteri separati è resa sempre più debole dal fatto che la teologia si occupa in modo ossessivo, anziché di trascendenza, di eventi naturali. Tralasciamo per brevità i miracoli, le pallottole deviate, le bilocazioni di suore, i salti ontologici e altre divertenti interferenze nelle leggi della fisica. Pensiamo piuttosto a una frase del genere: «A me pare importante, in particolare, come prima cosa, che la teoria dell’evoluzione in gran parte non sia dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10 mila generazioni. Ciò significa che ci sono dei vuoti o lacune rilevanti di verificabilità-falsificabilità sperimentale a causa dell’enorme spazio temporale cui la teoria si riferisce. […] La teoria dell’evoluzione non è ancora una teoria completa, scientificamente verificabile». Il giudizio, netto e chiaro, è stato pronunciato dall’attuale pontefice durante il seminario di Castelgandolfo sull’evoluzione tenutosi nel settembre 2006, i cui atti sono ora usciti anche in italiano (2). Si tratta forse di un’affermazione teologica? Filosofica? Si direbbe di no. Sembra proprio un’affermazione riguardante il mondo naturale, e in particolare un programma di ricerca scientifico che lo spiega.
Ci sembra senz’altro più apprezzabile il tentativo di un teologo eterodosso, Vito Mancuso, che in L’anima e il suo destino (Cortina, Milano 2007) fa della naturalizzazione della teologia un impegno esp
licito. Finisce così anch’egli per trovare nella natura ciò che la natura non dice affatto, e cioè che esisterebbe al suo interno un piano di sviluppo finalistico «che si chiama relazione, web, come dice Fritjof Capra che ha scritto appunto The Web of Life» (p. 18). Non si capisce, ovviamente, perché la presunta efficacia di una legge di crescita della complessità nei viventi dovrebbe, oltre che permetterci di «superare il darwinismo», introdurre un principio finalistico universale basato sull’aumento di «relazioni ordinate». Sembra uno di quegli argomenti dei filosofi della complessità del Partito democratico, per i quali, siccome il mondo è complesso e l’uomo ancor di più, allora c’è spazio anche per la trascendenza: la carriera nel partito è assicurata, ma è probabile che la natura continuerà a essere recalcitrante nei confronti dei nostri desideri di vederla diversa da come è. Fatto sta che laddove si rinunci alla teleologia cosmica, secondo Mancuso, non si potrà che scadere nel più buio disordine morale, nella «volontà di potenza di Nietzsche» (p. 19). Come spesso accade, il bio-teologismo finisce per essere più deterministico del più deterministico naturalismo. Persino Dawkins è disposto ad accettare che gli esseri umani possano disobbedire, se lo vogliono, ai loro geni egoisti. Aggrappato a queste suggestioni escatologiche alla Teilhard de Chardin, il «destino dell’anima» è davvero appeso a un filo.

Religione militante e fede interiore
Gli esponenti a vario titolo della rinascita della teologia naturale vorrebbero dunque spingerci a un ragionamento bizzarro di questo tipo: un teologo sta facendo un’affermazione che riguarda il corso degli eventi naturali ma, poiché la sta facendo a partire da un argomento di fede, uno scienziato, che di eventi naturali si occupa per definizione, non dovrebbe avere nulla da obiettare. La motivazione di fondo è che evidentemente la fede gode di uno statuto particolare, di un’extraterritorialità, di un rispetto aggiuntivo che non è concesso ad altre forme di conoscenza e di ricerca.
Così se qualcuno scrive un libro ateistico diventa automaticamente un profittatore, un fenomeno da botteghino, un commerciante di bestseller all’ingrosso. Ha ragione Alberto Melloni a notare, sul Corriere della Sera dell’11 novembre scorso, che la lotta fra gli «ateologi» di moda e i militanti della fede si basa su una comune concezione «essenzialista» e moralistica della religione, che mortifica la ricchezza della vera esperienza di fede, fatta di silenzio interiore, di maestri dello spirito, di meditazione, di «esemplarità della vita, di apprendistato del mistero». Certo. Però questa storia che la fede è sempre qualcosa di molto diverso da come papi e cardinali ce la rappresentano comincia a diventare un po’ elusiva. Bisognerebbe quanto meno informarli, papi e cardinali, che si stanno sbagliando.
Per ripartire potremmo per esempio smettere di squalificare a priori qualsiasi forma di ateismo e di naturalismo come desolanti rinunce al «senso», come sconfitte dell’intelletto. Potremmo ripartire da una banalità, e cioè che anche l’approdo all’ateismo è frutto di una ricerca, è risposta a una domanda di senso, magari è persino un po’ «meditato». Potremmo contare i casi in cui ce la prendiamo con l’ateismo perché lo confondiamo con l’indifferenza, che oggi prolifica in floridi e luccicanti santuari. Anche il tetragono Dawkins si lascia sorprendere ad affermare che «se la religione sottile e raffinata dei Tillich e dei Bonhoeffer predominasse, il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore e io avrei scritto un altro libro» (p. 5).
Potremmo poi immaginare quanto sarebbe utile se le autorità «spirituali» ufficiali di questo paese, così impegnate in attività di lobby nei campi dell’etica e del «diritto naturale», sentissero con più forza la voce tonante e perplessa della loro comunità ecclesiale «non essenzialista». Già, perché in Italia lo statuto speciale della credenza organizzata crea un paradosso più grave che in altre culture. Gli argomenti di fede vengono difesi non in quanto confessionali, ma in quanto razionali e naturali. In più, si insiste sul carattere pubblico e sociale, non privatistico, dell’esperienza religiosa. Altrimenti, sarebbe «laicismo».
A questo punto, trattandosi di esperienza pubblica con conseguenze sulla vita di tutti, basata per di più su argomenti razionali e naturali, e dunque patrimonio universale di ogni essere umano, il buon senso ci suggerirebbe che una tale esperienza possa e debba essere discussa liberamente usando gli strumenti della ragione. Fra questi, la critica serrata e il disincanto. No, in Italia la fede gode del privilegio della botte piena e della moglie ubriaca. In quanto fede organizzata e razionale, ha un indiscusso ruolo sociale e ha diritto di intervenire nel dibattito pubblico e nelle decisioni politiche. Contemporaneamente, in quanto fede personale, esperienza spirituale, voce del silenzio, è incommensurabile, intangibile, insondabile. Fa parte della sfera più intima e inviolabile della libertà individuale. Come tale, va rispettata.
Risultato finale: un’autorità religiosa pretende per sé la competenza del retto ragionare, e non solo della fede, ma non accetta che i suoi argomenti siano passati al vaglio della ragione; fa appello alle norme imperative di un presunto diritto naturale, ma non accetta le evidenze della natura. Dawkins l’antipatico razionalista dà così fastidio perché molti laici si sono assuefatti a questa condizione asimmetrica di deferenza, in cui un magistero gode dell’inviolabilità sul proprio terreno ma può liberamente intervenire nell’altro.
In fondo, la sua provocazione è tutta qui: «Credo nella gente e che la gente, quando è incoraggiata a pensare con la propria testa e ad avvalersi di tutte le informazioni disponibili, finisce molto spesso per non credere in Dio e per condurre una vita piena, serena e liberata» (p. 11). Forse è un ottimismo illuministico eccessivo e mal riposto, ma ciò non toglie che «per una misteriosa, generale convenzione, la fede detiene il privilegio unico di essere al di sopra e al di là delle critiche» (p. 6). Fosse davvero una questione privata, una dimensione interiore, poco male. Ma in Italia, più che mai, non è affatto così.

(1) «Meme» è il termine introdotto da Dawkins nel 1976 per designare l’equivalente del gene nel dominio dell’evoluzione culturale, cioè un’unità di informazione culturale (un’idea, un’invenzione, una tecnica eccetera) che si propaga per imitazione attraverso le menti e i supporti simbolici della memoria. Come il gene, è un replicatore di se stesso che subisce mutazioni ed entra in competizione con altri replicatori.
(2) Creazione ed evoluzione. Un convegno con Papa Benedetto XVI a Castel Gandolfo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2007.



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