Chiesa, democrazia e bunga bunga
Michele Martelli
Perché la Chiesa ufficiale non condanna, senza se e senza ma, il bunga bunga (dissociandosi per esempio, dalla campagna ateo-devota di Giuliano Ferrara, la cui devozione mescola le porpore cardinalizie con le mutande arcoriane)? La questione ha un duplice aspetto: politico e morale. Riguarda il rapporto della Chiesa al tempo stesso con la nostra Costituzione e col Catechismo.
Nello scandalo del Rubygate e dintorni sono coinvolti, politicamente, il premier, cioè la quarta carica dello Stato (il B-telefonista salva-Ruby alla Questura di Milano), la consigliera lombarda Minetti, smistatrice di escort dalla villa arcoriana agli alloggi dell’Olgettina, e la Camera dei deputati: la maggioranza forzaleghista, dopo aver deliberato, al di là di ogni senso del ridicolo, che la B-telefonata – forse non prevedendo le imminenti dimissioni di Mubarak, di cui spacciava Ruby per “nipote”! –, avrebbe evitato un incidente diplomatico internazionale, ora è pronta a nuove leggi ad Caimanum (processo breve e divieto di intercettazioni). Il raìs di Arcore grida al “golpe morale” contro la magistratura, che ne ha chiesto il processo con rito immediato, mentre sparuti gruppi di acefali fedeli manifestano davanti al Palazzo di Giustizia a Milano. Siamo alla stretta finale. Aut Aut. O Caimanato o democrazia. L’esito dipende dalla parte incorrotta delle istituzioni, e dalla mobilitazione della società civile (Egitto docet!). Di questa fanno parte anche preti e vescovi, che, in quanto «cittadini italiani», «hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione repubblicana» (Cost., art. 54, c.1). Quindi di difenderla dai suoi nemici.
Il saccheggio caimani(a)co della Costituzione è sotto gli occhi di tutti. Non intervenendo, la Chiesa italiana, ovvero la Cei, tradisce i suoi doveri di cittadinanza e la sua lealtà democratica. Vendendo l’anima al mercimonio di Arcore in cambio di soldi e privilegi (vedi, per ultimo, il pacco-regalo governativo dell’esentasse agli alberghi ecclesiastici, la cui irregolarità è stata già impugnata dall’Ue); anzi, criticando i presunti «eccessi della magistratura», come ha fatto il cardinal Bagnasco in riferimento al pool giudiziario di Milano (ma forse anche ai giudici di Roma che indagano sull’ipotesi di reato di riciclaggio di denaro sporco di cui è accusato lo Ior, la banca vaticana), oltre a fornire una mezza copertura ai reati penali di cui B. è indagato (concussione e favoreggiamento della prostituzione), si rende complice dell’eversione in atto. Non ci sarebbe purtroppo da meravigliarsi, vista la complicità delle gerarchie ecclesiastiche col fascismo, durante e dopo la sua ascesa squadristica al potere. Non si opposero al Duce nemmeno dopo il delitto Matteotti, con cui fu assassinata la democrazia in Italia. Che gli importava dell’Italia, se il Duce gli stava già preconfezionando il pacco-regalo dei Patti lateranensi? E che gli importa, si direbbe, dell’Italia di oggi, se il premier bunga bunga gli garantisce finanziamenti e leggi bioeticistiche anticostituzionali (il ddl Calabrò-Bagnasco contro il bio-testamento, già approvato dal Senato, attende il passaggio alla Camera)?
Nello scandalo del Rubygate e dintorni è implicata anche la dottrina morale, presunta sacra e assoluta, del Catechismo. Se le gerarchie fossero coerenti con i loro precetti morali (6. “Non fornicare”; 7. “Non mentire”; 10. “Non desiderare la donna d’altri”), dovrebbero perlomeno severamente rimbrottare, se non scomunicare il peccatore Re nudo del bunga bunga. In tempi passati, gli avrebbero chiesto di strisciare come un verme davanti al papa e di baciargli i santi piedi. Oggi potrebbero almeno dissociarsi? Perché non lo fanno? Perché non condannano pubblicamente se non il “peccatore”, almeno il “peccato” del bunga bunga”?
Gli interessi temporali e materiali della Chiesa, che sono in gioco, e la predisposizione antidemocratica dei suoi vertici, sono solo una spiegazione. L’altra è la concezione tradizionale ecclesiastica e inquisitoriale della donna. O meglio del corpo della donna. Dell’Eva-Serpente tentatrice e peccaminosa, che causò la punizione divina dello sprovveduto Adamo. O della filosofa e scienziata greca Ipazia d’Alessandria, il cui corpo ancora vivo andava fatto a pezzi e incenerito per ordine del santo vescovo Cirillo. O delle streghe del Seicento, accusate di volare sulle scope ai segreti incontri notturni dei saba, alla mercé di diavoli assatanati, e perciò il Torquemada di turno le infilzava (dal retro o dalla vagina su pali acuminati), mutilava, scuoiava, squartava. La salvezza delle donne era affidata solo alla castità (anche nel matrimonio, dove la donna accetta il sesso solo a fini procreativi), meglio garantita con la loro reclusione conventuale, “volontaria” o forzata. Il corpo delle donne, insomma, sarebbe davvero “puro” solo se asessuato!
Sotto questo riguardo, Chiesa e bunga bunga (absit iniuria verbis!) paradossalmente condividono la stessa idea del corpo femminile. Un oggetto a disposizione del maschio, senza autonomia, debole o incapace di pensiero e volontà propria, “qualcosa” da assoggettare o di cui appropriarsi per manipolarlo ad libitum, con la violenza sadico-inquisitoriale dell’autorità religiosa e della tortura, o con la forza ricattatoria-mercantile del danaro e del potere politico. Si tratta delle due classiche, ma in questo caso impresentabili facce della medesima medaglia: la sfrenata libidine fallocratica. Dissociarsi non è moralismo o bacchettonismo! La libertà sessuale di ciascuno/a è fuori discussione. Ad ognuno le sue mutande, si potrebbe dire. Come scriveva il filosofo laico e liberale inglese John Stuart Mill: «Su se stesso, sul suo corpo e sulla sua mente, l’individuo è sovrano» (Sulla libertà, 1859). Purché non commetta reato, ovviamente. Fermo restando che, dal punto di vista di una morale laica, la propria e l’altrui dignità, anche sessuale, non è cosificabile e mercificabile.
Alle “donne in piazza” del 13 febbraio va oggi l’incommensurabile merito della difesa non solo della loro, ma anche della nostra dignità.
(14 febbraio 2011)
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