Chiesa e bioetica, eppur “si spacca”
Marlis Ingenmey
Nonostante ciò che continuano ad affermare i vertici della Conferenza episcopale italiana, l’atteggiamento della Chiesa cattolica sul “testamento biologico” non è affatto univoco, bensì solcato da profonde contraddizioni. Lo dimostrano le posizioni della Conferenza episcopale tedesca come di molti esponenti di primo piano della gerarchia ecclesiastica.
Una “biobufala”?
Nel numero 29, del 14 marzo dell’anno scorso, “Adista” ospitò alcune mie riflessioni sul Testamento biologico in cerca, allora, di un posto nell’ordinamento giuridico sia in Italia che in Germania (dove nel frattempo l’ha trovato)[1] e in particolare sulla differenza nell’approccio al problema da parte dei vescovi italiani e dei loro colleghi d’Oltralpe: . L’articolo fu ripreso due giorni dopo da “Micromega-online”[2] e corredato di stralci, in traduzione, di un documento da me citato, redatto nel 1999 e riveduto nel 2003 dalla Conferenza episcopale tedesca (DBK) insieme al Consiglio della Chiesa evangelica in Germania, Disposizioni del paziente cristiano, un opuscolo di 42 pagine che consta di un’ampia Introduzione al tema (premesso che, per legge, “nessuno può essere costretto a sottoporsi, contro la sua volontà, a trattamenti diagnostici o terapeutici per quanto promettenti essi siano”, vengono ribaditi i paletti posti tuttavia al “credente” dai documenti dottrinali) e di un modulo prestampato. Sottoscrivendo quest’ultimo, il testatore “cristiano” – libero, inoltre, di formulare in calce, se passate al vaglio della sua personale coscienza, richieste per “situazioni particolari” (come sue patologie già note o “per il caso che dovesse venire a trovarsi in stato vegetativo permanente”[3]) – dispone, onde poter “morire con dignità e in pace”[4], per la fase terminale di una sua malattia non più curabile[5], il non inizio o la cessazione di trattamenti salvavita (compresa la nutrizione artificiale)[6] capaci ancora soltanto di prolungare la sua agonia, nonché l’eventuale uso di potenti analgesici anche se questi dovessero anticipare il suo decesso, omissioni e azioni per i vescovi tedeschi “eticamente ammissibili” in quanto “aiuto” – non a morire, cioè finalizzato a provocare la morte (“eutanasia attiva”, detta anche “diretta”), ma – “nel morire”, a processo del morire già avviato, “aiuto” che consiste nel non fare più nulla per contrastare la morte (“eutanasia passiva”) e di tutto per renderla il meno straziante possibile (“eutanasia indiretta”).[7]
Quel documento fu presentato con un titolo provocatorio, [8], che difatti sortì l’indomani una breve nota del portavoce della DBK, Matthias Kopp – inviata al SIR (Servizio di Informazione Religiosa Online) che ne diramò un riassunto –, tesa a puntualizzare che la Chiesa cattolica tedesca “è in linea con il Vaticano sul tema dell’eutanasia”, giacché “i concetti di ‘eutanasia passiva’ ed ‘eutanasia indiretta’ … spiegati in modo esauriente” nell’Introduzione “non contrastano in alcun modo con le affermazioni del Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. paragrafi 2278 e 2279)”. Nessun commento invece da parte del Vaticano e della CEI che si guardarono bene dal pubblicizzare quella traduzione, la quale fu comunque rilanciata da numerosi siti, anzitutto, ma non soltanto, del cattolicesimo variamente alternativo. Tra i pochi giornali che ne diedero notizia, spicca “Il Foglio” del 18.03.09, con un articolo, addirittura in prima pagina, di Maurizio Crippa che, preso lo spunto dalla “smentita” di Kopp e rivisitato, per corroborarla, il Catechismo, strapazzò “Micromega” per avere tentato, con una “lettura forzata e fuorviante di un documento già noto e mai criticato”, di “montare”, “in concomitanza con il dibattito parlamentare sulla legge per il Testamento biologico”, uno “scandalo interno alla Chiesa” – una “non innocente” “biobufala”.
Si sarà in seguito reso conto, Crippa, di avere, così facendo, spostato l’attenzione sul vero problema? Vale a dire: se la DBK, consentendo al testatore “cristiano” di avanzare, come penultime volontà, richieste tanto di “eutanasia passiva” quanto di “eutanasia indiretta”, “è in linea con il Vaticano”, può esserlo – con la sua contrarietà all’autodeterminazione della persona in ordine alla propria morte e una difesa a oltranza della “vita umana, valore non negoziabile” che vorrebbe, tramite il “sondino di Stato”, forzare la mano allo stesso Creatore – anche la gerarchia ecclesiastica italiana?
Ubi maior …
Per la verità, il 21 gennaio del 2007, a un mese esatto dalla morte di Piergiorgio Welby – malato terminale di distrofia muscolare, che, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, aveva chiesto e ottenuto la sospensione della terapia di sostegno respiratorio –, si era levata, fuori dal coro, la voce vibrante di umanità del cardinale Carlo Maria Martini per invitare la Chiesa a dare “più attenta considerazione anche pastorale” a “situazioni simili” che “saranno sempre più frequenti”. Scriveva il cardinale allora su “Il Sole–24 Ore”: “… le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando non giovano più alla persona. E’ di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella <rinuncia … all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo> (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l’accanimento terapeutico <non si vuole … procurare la morte: si accetta di non poterla impedire> (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278) … Il punto delicato è che, per stabilire se un intervento medico è appropriato, non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica …, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate”.
Come per i vescovi tedeschi, anche per il cardinale Martini l’unica forma di “eutanasia” da rifiutare comunque è quella “attiva”, “diretta”, che “intende abbreviare la vita” a una persona (reato, del resto, in entrambi i Paesi); come per loro, anche per lui “non può essere trascurata” – perché garantita costituzionalmente e perfino nel paragrafo citato del Catechismo –, cioè va rispettata “la volontà del malato”; anche per lui la “rinuncia”, di fronte alla morte incombente, a “cure … proposte” che non danno “ragionevole speranza di esito positivo” è legittimata dallo stesso paragrafo del Catechismo e da uno dei “dialoghi” del più recente Compendio (2005) del medesimo (1992).
Le riflessioni ponderate dell’illustre porporato furono però, indirettamente, sconfessate già l’indomani, nella sua prolusione davanti al Consiglio permanente della CEI riunito per la sessione invernale, dal presidente uscente, cardinale Camillo Ruini, che aveva negato, come vicario del pontefice e pastore per le anime della diocesi di Roma, le esequie ecclesiastiche a Welby, reo, a suo dire e ribadire in quella sede, di avere “fino alla fine … perseverato lucidamente e consapevolmente nella volontà di porre termine alla propria vita”. Nei passi del suo discorso dedicati a Welby e alla questione delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento” (anche allora in esame in Parlamento), il presidente, infatti, dopo aver definito “essenziale” “il rifiuto dell’eutanasia, quali che siano i motivi e i mezzi, le azioni o le omissioni, addotti e impiegati al fine di ottenerla”, giudicava, sì, “legittimo rifiutare l’accanimento terapeutico, cioè il ricorso a procedure mediche straordinarie che risultino troppo onerose o pericolose per il paziente e sproporzionate rispetto ai risultati attesi”, ma poi precisava: “La rinuncia all’accanimento terapeutico non può giungere però” – dato il “valore di ogni vita umana, di cui nemmeno la persona del malato può disporre” – “al punto di legittimare forme più o meno mascherate di eutanasia” (come, sembrerebbe sottinteso, nel caso di Welby) “e in particolare” (da metà dicembre del 2006, dopo l’ennesimo no dei giudici all’istanza di Beppino Englaro, era sotto gli occhi di tutti anche la vicenda di Eluana) “quell’<abbandono terapeutico> che priva il paziente del necessario sostegno vitale attraverso l’alimentazione e l’idratazione”.
Parole in libertà
Il presidente Ruini, quel giorno, non rispose al confratello Martini per le rime di citazioni precise, che sarebbe stato ben più difficile. I quattro sostantivi da lui messi in fila per chiarire il concetto di “eutanasia” richiamano tuttavia alla mente il paragrafo 2277 del Catechismo che tratta del “mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte” (cioè ucciderle) e del “porre fine al dolore” (“eliminare radicalmente le ultime sofferenze”[9], fare in modo che la persona finisca di soffrire, morendo) con “un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte”, atti definiti, “qualunque ne siano i motivi e i mezzi”, di “eutanasia diretta”, dichiarata “moralmente inaccettabile”. Nel riassunto di Ruini non figura, accanto alla parola “eutanasia”, l’aggettivo caratterizzante “diretta”, fondamentale invece per permettere, nel raffronto, di interpretare correttamente i due paragrafi successivi, che riguardano omissioni (§ 2278) e azioni (§ 2279) che non vogliono “procurare la morte” (comunque “prevista e tollerata come inevitabile”), atti che, nella maggior parte dei Paesi a noi culturalmente vicini, sono considerati di “eutanasia passiva” e di “eutanasia indiretta” e, in quanto tali, giuridicamente ed eticamente leciti.[10] La mancata menzione dell’aggettivo “diretta” riferito a “eutanasia” altera arbitrariamente il messaggio del paragrafo 2277 e fa apparire i paragrafi 2278 e 2279 in palese contraddizione con esso.
Anche la definizione di “accanimento terapeutico” è viziata da una non meno significativa forzatura. Parafrasando il primo periodo del paragrafo 2278, Ruini ordina diversamente i quattro aggettivi che nell’originale designano altrettante categorie distinte di “procedure mediche” (“onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi”) la cui “interruzione … può essere legittima”. Il suo rimaneggiamento riconosce legittimità unicamente al rifiuto di “procedure mediche straordinarie che risultino”, allo stesso tempo, “troppo onerose o pericolose per il paziente e sproporzionate rispetto ai risultati attesi”. Che una tale restrizione non fosse nelle intenzioni di chi firma il Catechismo postconciliare (l’allora cardinale Ratzinger) è dimostrato dalla “sintesi”, citata e ben illustrata dal cardinale Martini, di quel paragrafo nel Compendio (che ha la stessa paternità), per cui è legittima “la rinuncia <all’accanimento terapeutico>, cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo”[11].
In sostanza Ruini pronuncia un duplice no: all’“eutanasia” senza aggettivi e dunque in tutte le sue accezioni, e, con quel cumulo di requisiti, praticamente anche – non all’“accanimento terapeutico”, come recita lo slogan più gettonato di qua e di là del Tevere, bensì – alla “rinuncia” a esso. Con queste premesse non desta meraviglia che neghi perfino “alla persona del malato” terminale (quale era pure, ormai, Welby) la facoltà di avvalersi del diritto all’autodeterminazione in materia di salute – riconosciuto a ognuno di noi dalla Costituzione (cui, a differenza dei vescovi tedeschi e del cardinale Martini, il presidente non accenna nemmeno) e concesso anche al credente dallo stesso paragrafo 2278 del Catechismo –, di quel “diritto alla morte” [sic!], ossia “di morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”, di cui parlava già nel 1980 la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede[12] (e prima ancora la DBK)[13], il diritto di “prendere” – “nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati” – “in coscienza la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita”[14]. Né desta meraviglia che egli, non distinguendo nettamente il paragrafo 2277 dagli altri due, si aspetti, in una presunta zona franca, derive eutanasiche laddove si tratterebbe in realtà solo del legittimo desiderio di malati non più curabili e prossimi al traguardo, di non intralciare ulteriormente o di ripristinare il normale percorso biologico. Quanto alla definizione di “alimentazione e idratazione” artificiali, Ruini, parlando di “necessario sostegno vitale”, si attiene ai documenti dottrinali che, contro ogni evidenza e ignorando le indicazioni delle principali Società italiane, europee e americane di Nutrizione clinica[15], le citano dal 1995 espressamente tra le “cure normali”, “ordinarie” o “minimali” “dovute all’ammalato”[16] e le giudicano dal 2004 “un mezzo naturale di conservazione della vita”, “moralmente obbligatorio”[17].
La linea “prevaricante” della CEI
In quell’intervento-reprimenda del presidente Ruini c’erano già tutti i paletti posti dalla CEI riguardo all’autodeterminazione dell’individuo in materia di salute (“… una visione che va contro le radici cristiane della nostra cultura”)[18], poi rappresentati come “irrinunciabili” anche ai politici chiamati a legiferare in proposito, operazione di cui, tra l’altro, all’epoca (col governo Prodi), i vescovi non vedevano la “necessità”, temendo, sulla scia del caso Welby, con Ruini, “un’errata e pericolosa sovrapposizione tra accanimento terapeutico ed eutanasia”[19] e, in concreto – per dirla con le parole del loro segretario generale di allora, monsignor Giuseppe Betori –, che si mirasse a “svuotare il ruolo del medico e affidare invece ogni decisione all’arbitrio della persona”[20]. Come Ruini, anche Betori – che pure, nella stessa occasione, volle definire quello della “libertà religiosa” “uno dei principi costituzionali fondamentali” – non menzionò gli articoli della Costituzione sulla “libertà personale” e sul “diritto” alle “cure” che, senza imporre nulla a nessuno, mettono, nella nostra Repubblica democratica e pluralista, ciascuno nella condizione di esercitare responsabilmente le proprie scelte in merito. Come Ruini, anche lui disattende il Catechismo laddove recita (§ 2278) che le “decisioni” per un’eventuale “interruzione di procedure mediche …” “devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”[21]: il Catechismo – come, del resto, la Costituzione – non assegna alcun potere decisionale al medico o altro estraneo, Stato o Chiesa che sia. Come Ruini allora, anche Betori ribadirà di lì a poco – alla pubblicazione, nell’ottobre del 2007, della sentenza della Cassazione decisiva nella vicenda di Eluana Englaro perché permetteva alla Corte d’appello di Milano di riesaminare il caso – che nutrizione e idratazione “indotte” sono da riconoscersi “non come accanimento terapeutico” bensì “come diritto della persona alla vita”[22].
Un anno dopo, a fine settembre 2008, il successore di Ruini alla guida della CEI, il cardinale Angelo Bagnasco, sconcertato per i “pronunciamenti giurisprudenziali” che, accogliendo alla fine l’istanza presentata dal padre e tutore di Eluana, avevano “inopinatamente aperto la strada all’interruzione legalizzata del nutrimento vitale”, sperava che il Parlamento (nella nuova composizione uscita dalle elezioni anticipate, con Berlusconi premier) votasse al più presto una legge, non sul Testamento biologico[23], ma “sul fine vita” che desse “tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche – di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza”; “in tale logica”, disse, non vi sarà “la necessità di specificare alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie”. In conclusione reputava che dovessero essere evitate “inutili forme di accanimento terapeutico”, in nessun modo, invece, “legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico”, e che così venisse “esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano”[24]. A differenza del suo predecessore, Bagnasco chiama in causa la Costituzione, ma a difesa di uno solo – quello che preme a lui – dei due “diritti” fondamentali, costituzionalmente garantiti, coinvolti nella diatriba, ignorando totalmente il diritto della persona ad autodeterminarsi. Alla vigilia del voto al Senato si dilunga sul caso di Eluana, “fatta morire”, in nome di un “<diritto> di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi e a dare la morte in talune situazioni”, rievocando “quel saggio <principio di precauzione> per il quale nulla di irripristinabile va compiuto se i dati scientifici non consentono una valutazione obiettiva del rischio”. Per questo chiede senza mezzi termini “alla politica” (che recepisce il messaggio, dimenticando trasversalmente di avere come stella polare la Costituzione di uno Stato laico, non la dottrina di una Fede che dovrebbe, semmai, governare la vita privata del politico se credente) di “approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che … preservi il Paese da altre analoghe avventure”[25]. Nel settembre scorso infine giudica “il lavoro già compiuto al Senato … prezioso, perché dice la volontà di assicurare l’indispensabile nutrimento vitale a chiunque, quale che sia la condizione di consapevolezza soggettiva”[26], e lo segue a ruota nell’apprezzarlo l’attuale segretario generale dei vescovi, monsignor Mariano Crociata, per il quale il testo approvato dal Senato (Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento) rappresenta “un equilibrio significativo” che “auspichiamo … sia mantenuto nel dibattito e nell’esito della discussione alla Camera con il consenso più largo possibile”[27].
Cosa resta da “dichiarare”, oggi per domani, non solo al cittadino di più o meno provata fede cattolica, anche al diversamente credente e al non credente? Non il proprio consenso o la rinuncia a determinati trattamenti sanitari – scelte vincolanti se calzanti, cioè aderenti al quadro clinico specifico che si presenterà (come vuole, purché non venga leso l’“interesse della collettività”[28], la Costituzione) –, bensì appena il proprio “orientamento circa la loro attivazione o non attivazione”[29]. E cosa lo dichiara a fare: tanto, le sue “indicazioni” non saranno rispettate ma “valutate dal medico, sentito il fiduciario, in scienza e coscienza, in applicazione del principio dell’inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza”[30].
Voci autorevoli da Oltretevere
Il giurista. All’effettivo inizio dell’iter parlamentare dei disegni di legge sul Testamento biologico nella XIV legislatura[31], uno dei maggiori giuristi della Curia romana, già Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e Presidente della Corte di Cassazione dello Stato della Città del Vaticano, il cardinale Mario Francesco Pompedda (morto nel 2006), intervenendo a due puntate, fra gennaio e febbraio del 2005, della rubrica “Il medico delle leggi” del GR Parlamento, portava il “sì” del Vaticano al “Testamento di vita” in Italia. “Questo Testamento di vita in previsione dell’incapacità del soggetto a decidere, ci dice che esso deve servire per determinare la volontà del paziente in caso di sua malattia e anche in caso di morte”, il che “corrisponde a un principio fondamentale di ogni diritto umano, e cioè che ogni individuo deve poter autodeterminarsi per il trattamento sanitario da subire … Il giudizio complessivo sul Testamento di vita è positivo sotto l’aspetto giuridico-logico ed è anche apprezzabile nel contenuto etico-religioso, e mi pare che coincida pienamente con il Catechismo della Chiesa cattolica e che sia confacente con la sua dottrina”[32]. Alla discussione radiofonica prese parte, tra gli altri, anche l’allora (e ora) presidente della Commissione Sanità di Palazzo Madama, primo firmatario di un ddl, Norme in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento, presentato nel maggio del 2004 e assunto dalla Commissione come testo base da fondersi con altri due giusto nel febbraio del 2005[33], il senatore Antonio Tomassini, che volle rassicurare l’alto prelato dicendo che il Testamento di vita “non ha nulla a che fare con l’eutanasia, ma è il rispetto delle volontà di autodeterminazione dell’individuo anche contro l’accanimento terapeutico”[34].
Il “ministro della Salute”. Come i vescovi tedeschi e il cardinale Martini deve averla pensata, sulla differenza tra eutanasia e rifiuto dell’accanimento terapeutico, subito dopo la diffusione, nel settembre del 2006, del video-appello di Welby al presidente Napolitano onde “poter ottenere l’eutanasia”, anche il cardinale messicano Javier Lozano Barragàn, l’allora (e fino all’aprile dell’anno scorso) presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori sanitari, più toccato, evidentemente, dalla vicenda umana del malato che turbato per la parola aborrita da lui usata. Premesso, comunque, che l’“eutanasia … è sempre una forma di assassinio” (“peccato mortale”, “la vita è un dono di Dio e come tale va sempre salvaguardata”), Barragàn aveva, infatti, a caldo, dichiarato: “E’ bene comunque non dimenticare che per la dottrina ecclesiale una cosa è l’eutanasia, altra cosa è l’accanimento terapeutico” che “non è un obbligo. Anzi, prolungare l’agonia con medicinali che non risolvono nulla, ma contribuiscono ad abbassare la vita umana a livello di una macchina, non è morale. E’ solo un inutile accanimento a danno del malato, che così facendo viene inutilmente condannato a lunghe ed inutili sofferenze. Di fronte a questi drammatici casi è ragionevole lasciare che la vita faccia il suo corso naturale ed affidarsi alla volontà di Dio. Ce lo ha insegnato – è bene ricordarlo – Giovanni Paolo II col suo esempio[35] e la sua dottrina[36]”. Fautore delle cure palliative, aveva inoltre giudicato “sempre doveroso lenire il dolore con medicine … La dottrina non ha niente in contrario all’uso di sostanze ad hoc come psicofarmaci, anfetamine e quanto di più avanzato la scienza ha individuato per diminuire inutili sofferenze”[37]. – E’ da segnalare tuttavia che già il giorno dopo (era, ancora una volta, la vigilia della ripresa del confronto sul Testamento biologico al Senato) il cardinale volle – o ritenne opportuno o dovette – spostare gli accenti del suo discorso, insistendo piuttosto sul “no” della Chiesa “all’eutanasia” (“un percorso di morte”) per invitare i parlamentari cattolici a “essere coerenti ed esprimere il pensiero cattolico dentro i Parlamenti”, chiedendo esplicitamente che una eventuale legge (“se contempla solo l’accanimento terapeutico … può essere legittima”) non includesse “pratiche volte ad accorciare la vita”, e precisando che, per “i malati che sopravvivono attaccati alle macchine”, “l’idratazione o la nutrizione non fanno parte dell’accanimento terapeutico”[38].
Il presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Monsignor Elio Sgreccia (in carica dal gennaio del 2005 al giugno del 2008), che già a più riprese aveva lamentato la strumentalizzazione per fini politici del caso “estremamente pietoso, estremamente delicato e al confine della sopportabilità umana”[39] di Piergiorgio Welby, l’indomani della morte di lui, avvenuta il giorno stesso in cui il Consiglio Superiore della Sanità aveva negato alle cure che lo tenevano in vita il profilo di “accanimento terapeutico”, disse in proposito, intervistato da Radio Vaticana, che si era trattato piuttosto di una “richiesta di interruzione” di un “trattamento abitualmente somministrato ai malati di quel tipo di malattia, la gran parte dei quali lo sopportano e lo desiderano”. Consapevole del fatto che “il rifiuto delle cure” è “giuridicamente ammesso dalla Costituzione italiana”, Sgreccia obiettava tuttavia che “dal punto di vista etico, rifiutare le cure, se esse sono proporzionate, è una richiesta illecita”, ma aggiungeva subito: “se il paziente insiste nel rifiutarle, non lo si può costringere”, e lasciava intravedere una significativa apertura: “Noi non possiamo sapere se [Welby] ne ha fatto richiesta perché rifiutava questo trattamento per lui insopportabile, e in quel caso la richiesta poteva essere moralmente lecita, oppure se il paziente ne ha fatto richiesta per farne una battaglia politica e, quindi, per ottenere una legge che spiani la strada all’eutanasia”[40]. Un mese dopo, commentando anche lui – ma con spirito di dialogo, sia pure in parte critico – il citato articolo del cardinale Martini, Sgreccia colse l’occasione per spiegare meglio, parlando in generale del paziente in condizioni gravi e di terapie nella fase critica, quelle sue considerazioni riferite allora a Welby. Secondo lui “il giudizio sulla proporzionalità-sproporzionalità” di un intervento e/o mezzo terapeutico individuati “in ordine al raggiungimento di un determinato obiettivo medico … richiede una valutazione, che va fatta dal medico, sul piano squisitamente tecnico-scientifico e alla luce dei dati di esperienza”. Non per questo un tale trattamento, giudicato proporzionato, può essere praticato subito, anzi, può darsi che non debba essere praticato. Prima, infatti, proseguiva il vescovo e teologo, bisogna sincerarsi “della volontà e del parere del paziente” e “tenerne conto”, un’“esigenza sentita nella dottrina tradizionale della morale cattolica” fin “dai tempi di Pio XII”, che “è collegata al concetto di ordinarietà-straordinarietà che assumono le terapie in relazione alle condizioni fisiche, psicologiche, sociali ed economiche del paziente considerato nella sua situazione concreta … Ci può essere una terapia che in se stessa risulta proporzionata dal punto di vista medico, ma che il singolo paziente giudica come straordinaria e non appropriata alle sue condizioni”, insomma, non, o non più, a un certo punto, “sopportabile”: allora, concludeva Sgreccia, “egli non sarà moralmente obbligato a sottoporvisi, ma potrà lecitamente farlo se lo decide”[41].
Il Vaticano, dunque – ribadito il “no all’eutanasia”, “pratiche volte ad accorciare la vita”, e precisato che nutrizione e idratazione, anche artificiali, secondo la morale della Chiesa “non fanno parte dell’accanimento terapeutico” –, riconosce il diritto fondamentale della persona a “autodeterminarsi per il trattamento sanitario da subire” (per la CEI esso non si concilia con “le radici cristiane della nostra cultura”), apprezza, perciò, il Testamento biologico perché permette che venga conosciuta la “volontà del paziente” anche nel caso di un’eventuale sua futura “incapacità … a decidere” (la CEI ne demonizza perfino il termine: “la vita non è a disposizione di nessuno, nemmeno di se stessi”), e rispetta tanto la “Costituzione italiana” che “ammette” “il rifiuto delle cure” anche se “proporzionate”, quanto il fatto che “non si può costringere” chi “insiste nel rifiutarle” (la CEI fa come se la nostra Carta non esistesse, e vorrebbe che tutti i cittadini si orientassero piuttosto ai principi della Fede cristiana). Infine, il Vaticano non solo approva la “rinuncia all’accanimento terapeutico” e “l’uso di sostanze ad hoc” per “diminuire inutili sofferenze”, cioè le omissioni e azioni (da distinguersi da quelle citate al paragrafo 2277) dichiarate “legittime” dai paragrafi 2278 e 2279 del Catechismo e contemplate dalla dottrina della Chiesa (testi che la CEI piega al proprio volere per poter buttare col ranno di ipotetiche “derive eutanasiche” anche il legittimo desiderio di malati non più curabili di morire di “morte naturale”), ma si spinge, con Sgreccia, perfino oltre, giusto come suggeriva di fare, invocando “un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando non giovano più alla persona”, il cardinale Martini, e come fanno i vescovi tedeschi che sono riusciti a togliere, con le Disposizioni del paziente cristiano, anche al “credente” la paura di finire vittima della tecnologia medica.
Nessuno vorrà, in coscienza, sostenere che, su questi temi, la CEI sia – al di là del “no” all’eutanasia “diretta” (condiviso dai legislatori della maggior parte dei paesi) e del “sì” al “sondino di Stato” (un unicum nel mondo) – “in linea con il Vaticano”.
L’asso nella manica della DBK
Già era stata una buona carta in mano ai tedeschi, utilissima per affrontare con maggiore pacatezza la discussione sul “fine vita”, il citato sinonimo di “Euthanasie”, “Sterbehilfe”, che noi non abbiamo né possiamo coniare e che significa soprattutto “aiuto nel morire”[42]. Se Welby, quel giorno di settembre del 2006, anziché chiedere, anche per passione civile, “l’eutanasia”, avesse comunicato ai suoi medici – magari informandone ugualmente il presidente Napolitano, il Parlamento e i media – di ritirare, giunto ormai al capolinea, il proprio consenso a un trattamento sanitario da cui nessuno si poteva più “fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”[43], avrebbe di certo trovato più facilmente ascolto da parte dei diretti interessati e indotto a più miti consigli bioeticisti, politici e perfino le gerarchie ecclesiastiche (e la stessa discussione sul Testamento biologico avrebbe potuto prendere un’altra piega). Infatti l’anestesista che aiutò Welby “nel morire, non a morire”, come precisò anche l’Ordine dei medici di Cremona archiviando il 01.02.07 il procedimento a suo carico (“Non si rilevano violazioni del Codice deontologico”), fu prosciolto con formula piena (“Il fatto non costituisce reato”) dal Tribunale di Roma dall’accusa di “omicidio del consenziente”: “La condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciutogli in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione”, “L’imputato ha agito alla presenza di un dovere giuridico”[44].
I tedeschi invece non avevano, per loro fortuna, né hanno voluto coniare quando si trattava nel 1993 di tradurre il nuovo Catechismo, il termine “accanimento terapeutico”, giudicato un nonsenso; lo si trova, del resto, solo e di rado, nella letteratura specifica (e nelle traduzioni del Catechismo) dei paesi di lingue neolatine. La traduzione tedesca dei primi due periodi del paragrafo 2278 è perciò non letterale, bensì a senso: “La morale non richiede terapie a ogni costo. L’interruzione di procedure mediche straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi, onerose e pericolose può essere legittima”. Formulato così, il messaggio arriva più chiaro, ed è ben marcata, con l’uso della stessa parola “morale”, la differenza tra “l’interruzione” di “procedure mediche” (nessuna esclusa) prevista da questo paragrafo, pertanto “moralmente accettabile”, e un’“azione” od “omissione” di cui al paragrafo 2277, “moralmente inaccettabile”. Ecco perché anche il testatore tedesco “cristiano” può, già da più di dieci anni, per il caso che venisse a trovarsi un giorno “in una situazione in cui ogni trattamento salvavita fosse senza prospettive di miglioramento e prolungherebbe soltanto il processo del suo morire”[45] – e a maggior ragione può farlo il malato lucido e capace di pronunciarsi attualmente – disporre la rinuncia “p. es. a nutrizione artificiale, ventilazione assistita, dialisi, somministrazione di antibiotici, ecc.”[46].
Piergiorgio Welby non avrebbe incontrato, all’epoca, in Germania nessun ostacolo: la sua richiesta sarebbe stata accolta senza esitazioni dai medici, perché costituzionalmente garantita, avallata da pronunce di magistrati di ogni grado e prevista dal Codice deontologico (quando viene meno il consenso di un malato a un trattamento sanitario, questo deve essere interrotto, altrimenti il medico rischia l’incriminazione per “lesioni personali”); nessun porporato della Chiesa cattolica avrebbe alzato la voce, nessun “pastore” avrebbe negato alla famiglia il funerale religioso[47]. Nessuno, poi, in Germania avrebbe lasciato accadere che Giovanni Nuvoli, malato terminale di sclerosi laterale amiotrofica che voleva “morire senza soffrire, addormentato”, non trovasse – dopo che le forze dell’ordine avevano bloccato un anestesista pronto a staccare il respiratore – altra strada se non quella di smettere di mangiare e di bere, per andarsene da questo mondo, una settimana dopo, aiutato solo da alcuni sedativi, con l’apparecchio in funzione.
“Viviamo in uno Stato di diritto”
Così Beppino Englaro commentò, a 6146 giorni dall’incidente occorso alla sua figliola, la sentenza definitiva della Corte di Cassazione a Sezioni unite civili, depositata il 13.11.08, che dichiarava “inammissibile” il ricorso presentato in extremis dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano contro il decreto, depositato il 09.07.08, della stessa Corte milanese, 1° Sezione civile. Con quel decreto – che, secondo i supremi giudici, evidenziava bene “l’inconciliabilità della concezione” di Eluana “sulla dignità della vita con la perdita totale e irrecuperabile delle proprie facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere” – il padre era stato finalmente autorizzato “a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale” praticato alla sua Eluana “mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico”.
Una precedente sentenza della Cassazione, decisiva per il riesame del caso, depositata il 16.10.07, aveva già chiarito: 1) che “l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino naso-gastrico costituiscono un trattamento sanitario … che sottende un sapere scientifico … e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche”, “qualificazione … convalidata dalla comunità scientifica internazionale”; 2) che il “rifiuto di terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”; 3) che – detto in sintesi –, in osservanza del “principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità”, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno nel caso in cui un soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà, e 4) che allora, ove mancassero “dichiarazioni di volontà anticipate” sull’accettazione o meno di determinate terapie, è autorizzato a esprimere tale scelta – “non al posto dell’incapace, né per l’incapace, ma con l’incapace”, ricostruendone la “presunta volontà” – il suo legale rappresentante, la cui decisione deve essere “realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta da sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.
Il citato ricorso, respinto dalla Cassazione, contro il decreto “liberatore” per la famiglia Englaro, non fu, come si ricorderà, l’unico tentativo di impedire l’attuazione di quanto ormai autorizzato. Ci provarono la Camera e il Senato segnalando un possibile “conflitto di attribuzione” tra poteri dello Stato, ossia il sospetto che i magistrati abbiano invaso le competenze del Parlamento (“inammissibile” per la Consulta); ci provò, per l’area di sua competenza, la Regione Lombardia (con un provvedimento bocciato dal TAR locale: “Il diritto costituzionale di rifiutare le cure … è un diritto di libertà assoluto, il cui dovere di rispetto s’impone erga omnes, nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura”); ci provò il ministro Maurizio Sacconi, allora titolare anche della Salute (con un “atto di indirizzo” valido per tutto il territorio nazionale, sconfessato poi dal TAR del Lazio: “Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari è fondato sulla disponibilità del bene <salute> da parte del diretto interessato … Da tale premessa consegue che i pazienti in stato vegetativo permanente, che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare e non devono, in ogni caso, essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di farlo, possano, nel caso in cui la loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti”); ci provarono diverse associazioni di ispirazione cattolica e un gruppo di parenti, amici e medici di malati in stato vegetativo rivolgendosi alla Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo (che replicò con un “irricevibile”); ci provò il Presidente del Consiglio, prima con un decreto legge (incorso nel rifiuto di emanazione del Capo dello Stato: “Io non posso farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti”) e poi con un disegno di legge “da approvare in due o tre giorni”, da poche ore in discussione al Senato quando, la sera del 9 febbraio dell’anno passato, giunse in Aula la notizia della morte di Eluana, rendendolo inutile. Tutte le componenti giudiziarie interpellate diedero risposte limpide nei contenuti.
E’, infine, dell’11 gennaio di quest’anno il decreto del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Udine, Paolo Milocco, secondo il quale “la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era legittima in quanto contrastante con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa per conto dell’incapace”, per cui il procedimento relativo all’“iscrizione a notizia di reato per omicidio volontario” nei confronti di Beppino Englaro e di altre 13 persone fra medici e paramedici – come richiesto dalla Procura della Repubblica di Udine con istanza depositata il 26 novembre 2009 – è stato archiviato[48].
I “casi” di Piergiorgio Welby (paziente “capace”) e di Eluana Englaro (paziente “incapace”) dimostrano che per i naturali esegeti, i giudici, la nostra Costituzione, la legislazione ordinaria[49], indicazioni della Consulta e norme di diritto internazionale riconoscono al cittadino, da un lato il diritto al rispetto della propria integrità fisica, dall’altro il potere di disporre liberamente del proprio corpo ovvero del bene “salute” e dunque la facoltà non solo di scegliere, quando si ammala – o anticipatamente per quell’eventualità –, fra i vari trattamenti sanitari possibili, ma anche di rifiutarli tutti, e ciò indipendentemente dal tipo e dallo stadio della malattia: esattamente quanto garantisce la legge sul Testamento biologico approvata l’anno scorso in Germania, dove l’esecutivo e il legislatore, in un’evidente ottica di collaborazione tra poteri dello Stato, avevano trasfuso nei tre disegni di legge depositati e discussi al Bundestag i principi fondamentali enucleati dai magistrati nelle decisioni da loro assunte nel corso degli anni.
Cibo e acqua – “saevitia therapeutica”?
Disse il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, dopo la sentenza del TAR, per lui “aberrante”: “Eluana morirà con una lunghissima e dolorosissima agonia. Morirà di fame e di sete, con dolori, crampi muscolari, le mucose si seccheranno e ci saranno ulcere, il corpo subirà crisi convulsive generalizzate”[50]. Altri gridarono alla “mostruosità disumana” (“Fermate quella mano assassina!”) perché “non si può infliggere una morte terribile per fame e per sete” (card. Barragàn), “Togliere idratazione e nutrizione [a Eluana] è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi” (card. Bagnasco), bisogno “di un po’ di cibo e un po’ d’acqua” (card. Ruini), “Anche la mamma obbliga a mangiare il piccolo che fa i capricci” (mons. Fisichella), e via rimostrando.
Mettiamo, per un attimo – gli specialisti escludono l’ipotesi[51]li –, che Eluana avesse davvero potuto provare sensazioni come fame, sete e dolore: quanto dolore avrebbe allora provato, questa donna, giorno dopo giorno, per diciassette lunghi anni? E si sono mai chiesti, quei signori, cosa significherebbe per un malato terminale (mettiamo, di tumore con metastasi devastanti, o nelle condizioni di Giovanni Nuvoli) “cattolico praticante” (ma si vorrebbe imporre lo stesso supplizio ai cittadini tutti), poter interrompere legittimamente, perché ormai “sproporzionate rispetto ai risultati attesi”, tutte le “procedure mediche”, come previsto dal paragrafo 2278 del Catechismo (“Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire”), tranne una, quella che, fornendogli, sotto forma di un composto chimico, “un po’ di cibo e un po’ d’acqua”, ritarda, invece, ancora il sopraggiungere della morte, allungando la sua agonia?
“Saevitia therapeutica” è il termine coniato per rendere “accanimento terapeutico” nella traduzione latina del Catechismo, diventata il “testo definitivo”, approvata e promulgata da Giovanni Paolo II il 15 agosto del 1997.
Il malato terminale tedesco “cattolico praticante” – per chi non è praticante o nemmeno cattolico ovviamente il problema non si pone – riesce, grazie al sano pragmatismo della DBK, come si è visto, a schivare questa “sevizia” finale, e, se la sua coscienza personale gli ha permesso di premunirsi, ci riesce anche chi è venuto a trovarsi in stato vegetativo permanente, dove resterà il tempo da lui stesso stabilito.
“Alle Conferenze episcopali è lasciata molta libertà”
Con queste parole (sottinteso “da parte del Vaticano”) mi congedò, un giorno di ottobre del 2007, un amico prelato al quale avevo fatto vedere il modulo delle Disposizioni del paziente cristiano dei vescovi tedeschi e riassunto il testo che lo accompagna. Infuriava allora, da noi, la polemica sulla sentenza (per il Vaticano, la CEI e il Polo “inaccettabile”, frutto di un “relativismo dei valori”, “significa orientare fatalmente il legislatore verso l’eutanasia”) con cui la Cassazione aveva riaperto il caso di Eluana precisando che “la salute dell’individuo non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva”, che “deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita” e che “il rifiuto delle cure” non è “eutanasia” ma esercizio di un diritto garantito dalla nostra Costituzione “organizzata … sul pluralismo dei valori” – principi, all’epoca già da lunga pezza acquisiti in Germania (la prima sentenza per un caso simile emessa dalla Suprema Corte tedesca risale al 1994) e riconosciuti anche dalla DBK.
Evidentemente le Conferenze episcopali, nel portare avanti le proprie istanze, sono “libere” di tenere conto delle situazioni e culture in cui operano, e dunque fanno scelte diverse nel merito e nel metodo. La DBK ha dovuto e saputo misurarsi con una tradizione e una politica laiche, degne di questo nome, che governano davvero il pluralismo dei valori e permettono decisioni legislative anche difficili, atte a rendere giustizia a tutti gli interessati. Nel catechismo locale tedesco c’è, a proposito della “libertà di coscienza” (tanto sbandierata sul tema, ma con altri intenti, anche da noi), un passo che avrà spinto non pochi parlamentari “credenti” ad approvare questa legge sul Testamento biologico: “Il voto secondo coscienza non deve mai comportare che vengano lesi i diritti degli altri o che vengano recati loro dei danni”[52]. Nel nostro Paese manca una mentalità autenticamente laica, mentre – per non parlare ancora delle pressioni da parte di componenti della CEI – ha potuto fare presa su non pochi nostri deputati e senatori un richiamo come quello del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato della Santa Sede, al “diritto-dovere dei cristiani”, affermato dal Concilio Vaticano II, “di esprimere la loro opinione quando sono in gioco i diritti della persona e i valori fondamentali, anche per migliorare e correggere eventuali proposte di legge”[53]. E dire che Giovanni Paolo II aveva, nel 1991, giudicato “assai delicate … le situazioni in cui una norma specificamente religiosa diventa, o tende a diventare, legge dello Stato, senza che si tenga in debito conto la distinzione tra le competenze della religione e quelle della società politica. Identificare la legge religiosa con quella civile può effettivamente soffocare la libertà religiosa e, persino, limitare o negare altri inalienabili diritti umani”[54].
Il dado, comunque, sembra ormai tratto, dopo che il 20 gennaio la maggioranza in Commissione Affari Sociali della Camera ha bocciato, tra gli altri emendamenti del PD all’articolo 2 del testo in esame, addirittura anche quello (prima firmataria Livia Turco) che prevedeva che “nel rispetto del principio di autodeterminazione, salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento medico e sanitario è attivato previo consenso informato”. “Mala tempora currunt!”, è stata l’esclamazione della cofirmataria Paola Binetti alla fine dei lavori. Non c’è che dire.
Fuorionda
Il fatto è che la Germania di Kant – e non solo lei – è uscita ormai “dallo stato di minorità”. In Italia, invece, ancora oggi, non per “difetto di intelligenza”, ma per “mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro”, ovvero per “pigrizia” e “viltà”, “tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho … un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”[55].
NOTE
[1] In Germania, ormai, un maggiorenne, capace di prendere decisioni in merito, può anticipatamente dare o negare il proprio consenso a determinati trattamenti medici che dovessero un giorno risultare indicati in ogni stadio di una qualsiasi sua malattia. Le sue disposizioni, revocabili o modificabili in ogni momento, saranno vincolanti se rispondenti alla situazione (stato di salute e trattamenti possibili) venutasi a creare. Nella maggior parte dei casi la negazione (o limitazione nel tempo) del consenso riguarderà trattamenti salvavita e tra questi anzitutto la nutrizione e l’idratazione artificiali. Cfr. www.micromega-online/Una legge laica e un modulo per il paziente cristiano.
[3] Nella prima edizione delle Disposizioni la rinuncia a trattamenti salvavita per pazienti “con perdita irrecuperabile di funzioni vitali dell’organismo”, comprese “persone in SVP”, era prevista addirittura nello stesso modulo prestampato. La creazione, nel 2003, di uno spazio per “Integrazioni” lasciate alla “coscienza” del singolo testatore, sarà da ascriversi alla necessità dei vescovi cattolici di tenere in qualche modo conto del documento della Pontificia Accademia per la Vita, Il rispetto della dignità del morente (2000), che riconosce tale facoltà solo a malati terminali quando la morte “appare ormai inevitabile ed imminente” (n. 6, ultimo capoverso); ancora oggi la DBK considera le persone in SVP non “malati terminali” bensì “affette da grave disabilità” (cfr. Stellungnahme zu den Gesetzentwürfen, 03.03.09). – Il Consiglio della Chiesa evangelica ritiene invece già da anni (cfr. Eckpunkte des Rates der EKD für eine gesetzliche Regelung von Patientenverfügungen, 22.06.07) che al testatore debba essere data, anche per l’eventualità di trovarsi un giorno in SVP, almeno la possibilità di limitare nel tempo (“p. es. a 6 mesi”) ogni trattamento salvavita praticato in un primo momento (“compresa la nutrizione artificiale che non fa parte delle cure ordinarie”), ed è significativo che la nuova presidente di quel Consiglio, Margot Kässmann, vescova di Hannover, abbia dichiarato a pochi giorni dalla sua elezione (il 1° novembre u.s. in un’intervista pubblicata dalla “Welt am Sonntag”) di giudicare “ammissibile” che la gente si tuteli per quell’eventualità, “fissando un termine oltre il quale vadano staccati tutti gli apparecchi ausiliari” e anche “la sonda gastrica”. – Una terza edizione delle Disposizioni del paziente cristiano, che terrà conto delle novità introdotte dalla legge sul Testamento biologico ora in vigore, è annunciata per il mese di marzo.
[4]iv Nell’Introduzione i vescovi dicono a chiare lettere: “Nulla deve rimanere intentato per rendere possibile alle persone di vivere, fino alla fine, in pace, dignità e autodeterminazione”. Già nel 1975, del resto, cinque anni prima che il Vaticano elaborasse la sua Dichiarazione sull’eutanasia, la DBK pubblicò una pastorale intitolata Il diritto alla vita e l’eutanasia, con cui condannava fermamente l’“eutanasia” (porre “di proposito”, “sia pure su richiesta” e “per pietà”, anticipatamente fine a una vita umana “significa uccidere”), ma riconosceva, nel contempo, a “ogni persona” “il diritto a una morte dignitosa”, “umana”, cioè “a essere aiutata” in tanti mai modi “nella tremenda prova che è il morire”, non ultimo con l’accettazione, “quando non c’è più speranza in un miglioramento”, della sua “rinuncia”, “eticamente ammissibile”, a trattamenti e mezzi sanitari, straordinari e ordinari, atti ancora soltanto a “differire artificialmente il momento del suo decesso”.
[6] Nessuno in Germania mette in dubbio che la “nutrizione artificiale” sia un trattamento medico, nemmeno i vescovi cattolici, per cui anche il testatore cattolico può rifiutarla o chiederne la cessazione, sia pure solo per la “fase terminale” della sua malattia. Quanto, invece, alla “somministrazione di cibo e acqua per via naturale” (che, pur rientrando nelle cure ordinarie, può comunque essere rifiutata dall’interessato), le Disposizioni fanno propria la formulazione della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Grundsätze zur ärztlichen Sterbebegleitung, citati nell’edizione del 1998): cibo e acqua, che “possono anche rappresentare un’ulteriore gravosità per il moribondo”, gli sono dovuti unicamente “per appagare fame o sete manifestate come sensazione soggettiva”.
[7] Il sostantivo composto femminile “Sterbehilfe” (“sterben”, morire, “Hilfe”, aiuto) è comunemente usato nei paesi di lingua tedesca sia come termine tecnico nella letteratura specifica sia nella prassi quotidiana – avendo la stessa connotazione e le stesse tre sottospecie (“aktive”=“direkte”, “passive” e “indirekte” “Sterbehilfe”) – al posto di “Euthanasie” (che sopravvive ancora soltanto come sinonimo di “aktive”=“direkte” “Sterbehilfe”).
[10] “Vi è”, infatti – a certificarlo è, nel 2000, la stessa Pontificia Accademia per la Vita –, “grande differenza etica tra <procurare la morte> e <permettere la morte>: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa” (Il rispetto della dignità del morente, n. 6, ultimo capoverso).
[11] Nell’enciclica Evangelium vitae, 1995, anche Giovanni Paolo II distingue, “per un corretto giudizio morale”, nettamente tra “eutanasia in senso vero e proprio” (“… un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”) e “la decisione di rinunciare al cosiddetto <accanimento terapeutico>, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia” (n. 65, 1° e 2° capoverso).
[12] Dichiarazione sull’eutanasia, cit., cap. IV, 1° capoverso.
[13] V. sopra, nota 4.
[14] Dichiarazione sull’eutanasia, cit., cap. IV, ultimo capoverso. I vescovi tedeschi erano, già 35 anni fa nella citata pastorale (cfr. nota 4), ancora più espliciti: con una tale “rinuncia”, non solo “non viene violato il diritto alla vita” del morente, ma, anzi, “viene rispettato il tempo a lui concesso da Dio”.
[15] Proprio nel gennaio del 2007 la Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale ribadiva (Precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche della Nutrizione artificiale) che “… la Nutrizione artificiale è da considerarsi, a tutti gli effetti, un trattamento medico” che “richiede il consenso informato del malato” o “del suo tutore o rappresentante legale”, giudizio condiviso dal presidente della Federazione delle Società Italiane di Nutrizione e da lui illustrato nel maggio di quell’anno alla Commissione Sanità del Senato che stava elaborando un testo unico per una legge sul Testamento biologico. – In un documento approvato il 13.06.09 (85 voti favorevoli, 5 contrari, 7 astensioni) anche per la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici “… la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie, … calibrato su specifici problemi clinici mediante la prescrizione di nutrienti, farmacologicamente preparati e somministrati attraverso procedure artificiali, sottoposti a rigoroso controllo sanitario”, “richiedente il consenso informato del paziente in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo”.
[16] Fino al 1995 i documenti dottrinali pertinenti parlano, come lo stesso Catechismo, genericamente di “cure normali dovute all’ammalato” da distinguersi da “mezzi che la medicina può offrire”, “trattamenti”, “interventi medici” o “procedure mediche”. La Carta degli Operatori sanitari (1995) specifica: “L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando” (piccola apertura) “non risultino gravose per lui” (e possano, dunque, sfiorare l’accanimento terapeutico).
[17] Nel suo Discorso ai partecipanti a un congresso internazionale su progressi scientifici e dilemmi etici (20 marzo 2004) Giovanni Paolo II sottolinea “come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze” (nessun accenno a un’eventuale “gravosità”). Con riferimento all’“ammalato in stato vegetativo” (che “ha diritto ad una assistenza sanitaria di base”, ossia “nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.”) aggiunge: “… le scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno” non possono “giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione”. – Soprattutto a queste considerazioni di Giovanni Paolo II attinge la Risposta a quesiti della Conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali, pubblicata nel settembre del 2007, anche se nella Nota di commento viene ipotizzato che “in qualche raro caso” esse possano “comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico”. La classificazione della “somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali” come “mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita” e quindi “obbligatoria”, è una decisione presa all’interno della Chiesa cattolica, non condivisa, in Italia, intanto dalla Chiesa Valdese (che ha da poco avviato a Milano la raccolta di “Direttive anticipate per i trattamenti sanitari” che possono riguardare anche la rinuncia a tali procedure), e, in Germania, né dalla Chiesa evangelica né – eccetto che per le “persone in SVP” – dalla stessa DBK (v. note 3 e 6).
[18] Così monsignor Giuseppe Betori nella sua ultima conferenza stampa come segretario generale della CEI, il 30.09.08.
[19] Cfr. “Corriere della Sera”, 16.05.07 (articolo di Francesco Verderami).
[20] In un’intervista a conclusione dei lavori del Consiglio permanente della CEI, in onda su RAI UNO nella puntata del 28.01.07 della trasmissione “A Sua immagine”.
[21] Sono pertanto da “rispettare” sia la “volontà” attuale del paziente competente e capace, sia quella presunta, ricostruita e fatta valere da chi fa “legalmente” le veci dell’incapace.
[22] Cfr. “Il Sole-24 Ore”, 17.10.07 (articolo di Angela Manganaro).
[23] “Preferiamo non parlare di Testamento biologico …: la vita non è a disposizione di nessuno, nemmeno di se stessi. Il problema è proteggere la vita e rendere degno il momento della fine della nostra esistenza” (Giuseppe Betori nella conferenza stampa di cui alla nota 18).
[24] Nella sua Prolusione al Consiglio permanente della CEI del 22.09.08.
[25] Nella sua Prolusione del 23.03.09.
[26] Nella sua Prolusione del 21.09.09.
[27] Nel corso della sua conferenza stampa del 29.09.09 a conclusione dei lavori del Consiglio permanente della CEI (cfr. comunicati dell’Agenzia SIR e sul sito di Radio Vaticana).
[28] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 32, comma primo.
[30] Ivi, art. 7, comma secondo.
[31] La strada per una possibile legiferazione in materia si era aperta, durante il secondo governo Berlusconi, con la pubblicazione, nel febbraio del 2004, del documento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, approvato il 18.12.2003 dal Comitato nazionale di Bioetica, e il suo approdo alla Camera. “Il Comitato”, affermò in quell’occasione il suo presidente, prof. Francesco D’Agostino, “ribadisce il valore etico dell’autonomia del paziente; nel documento, infatti, si riconosce la libertà anticipata del soggetto di dire no alle cure” con “riferimento ad un eventuale futuro stato di incapacità di intendere e volere” (comunicato ANSA del 05.02.04). – Merita ricordare che lo stesso Comitato aveva già sottolineato nel 1992 l’importanza dell’“autonomia delle decisioni che spetta alla persona umana, sia essa sana che ammalata” e “la doverosità” del “consenso informato” all’atto medico “come base della correttezza stessa della pratica professionale” (Informazione e consenso all’atto medico, 20.06.1992)
[32] “Le Dichiarazioni anticipate di trattamento”, argomento di due puntate (31.01. e 07.02.05) della rubrica settimanale “Il medico delle leggi. La salute in Parlamento”, Radio Rai, GR Parlamento. Cfr. i comunicati dell’AGI (02.02.05) e dell’ANSA (03.02.05).
[33] Si tratta – nella versione votata nell’estate del 2005 in Commissione dai rappresentanti di entrambi gli schieramenti – di un testo che, nel complesso, avrebbe potuto portare a una legge equilibrata (ma non giunse mai in Aula). Esso partiva infatti dal presupposto costituzionale per confermare che ogni trattamento sanitario “è subordinato all’esplicito ed espresso consenso dell’interessato, prestato”, “dopo accurate informazioni”, “in modo libero e consapevole” (e può, pertanto, nessuno escluso, essere anche rifiutato), mentre era sottinteso che, come diceva il presentatore nell’Introduzione, chiedere “l’eutanasia non è assolutamente consentita dai codici del nostro Paese”. Le “direttive” contenute nelle Dichiarazioni anticipate dovevano essere “impegnative per le scelte sanitarie del medico”, salvo in presenza di “sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche” non previsti dall’interessato al momento della loro redazione.
[35] C’è, com’è saputo, chi afferma, chi conferma (come, sembrerebbe, qui Barragàn) e chi nega che a Giovanni Paolo II non siano state praticate, perché da lui giudicate troppo gravose, o comunque non in tempo utile, tutte le cure che avrebbero potuto tenerlo ancora in vita, come il posizionamento, deciso solo tre giorni prima che morisse, di un sondino nasogastrico per la nutrizione enterale.
[36] “Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte” (Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae, cit., n. 65, 2° capoverso).
[37] Così nell’intervista di Orazio La Rocca su “la Repubblica” del 25.09.06.
[38] Cfr. “la Repubblica”, 26.09.06 (articolo di Elena Dusi) e “La Stampa”, 26.09.06 (articolo di Maria Grazia Bruzzone).
[39] Così a margine della presentazione del libro Creati per amare del cardinale Carlo Caffarra, il 28.11.06 a Bologna.
[41] Elio Sgreccia, Colloquio a distanza con il cardinale Martini sul “bene del malato”, “Corriere della Sera”, 23.01.07. – Sgreccia anticipava con questa distinzione delle competenze la formula vincente che ha fatto passare in Germania la legge ora in vigore che, per evitare ogni automatismo, prevede un “Colloquio per l’accertamento della volontà del paziente”: “Il medico curante, considerati lo stato di salute generale del paziente e la prognosi, individua il trattamento eventualmente indicato. Lui e il tutore discutono il trattamento prescelto tenendo conto della volontà del paziente quale base della decisione da prendere”. – Il testo integrale della legge è riportato nell’articolo di cui alla nota 1.
[42] V. sopra, n. 7.
[43] Codice di deontologia medica, 2006, art. 16. “… in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona” (art. 35).
[44] Così si legge nella motivazione della sentenza del 23.07.07 del gup del Tribunale di Roma, Zaira Secchi, depositata il 18.10.07, che fa riferimento all’art. 51 del Codice penale che recita: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità …”.
[45] Introduzione alle Disposizioni del paziente cristiano, p. 20.
[46] Ivi, p. 12. – Nel catechismo locale, Katholischer Erwachsenen-Katechismus, a cura della DBK, vol. II (1995), viene menzionata in particolare la “ventilazione assistita”, la cui “non prosecuzione” è, per i vescovi tedeschi (“onde lasciar morire il paziente con dignità”) “moralmente lecita”, quando essa, incapace ormai di curare, guarire o riabilitare, “serve unicamente a mantenere attive delle funzioni biologiche” (p. 310).
[47] Da rimarcare che il Papa tedesco, non potendo condannare in Italia una richiesta e un atto che non avrebbe potuto condannare nella sua Germania, si è tenuto sulle generali, ricordando all’Angelus della vigilia di Natale 2006 – giusto mentre si svolgevano, con rito laico, i funerali di Welby nella piazza antistante la sua parrocchia – che “il Natale di Cristo ci aiuta a prendere coscienza di quanto valga la vita umana, la vita di ogni essere umano, dal suo primo istante al suo naturale tramonto”. – Anche nei giorni intorno alla morte di Eluana, mai da lui nominata, Benedetto XVI ha ribadito genericamente (durante l’Angelus del 01.02.09) che “l’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza”, e insistito nel dire che “la vita dell’uomo non è un bene disponibile”, ma “uno scrigno prezioso da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento” (nel suo “Messaggio” per la Giornata mondiale del malato, l’11.02.09).
[48] Anche per il gip di Udine, “chi ha espresso tale volontà e il personale sanitario che ha conseguentemente operato per sospendere il trattamento e rimuovere i mezzi attraverso cui veniva protratto, ha agito alla presenza di una causa di giustificazione e segnatamente quella prevista dall’art. 51 c.p.”, di cui alla nota 44.
[55] I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo? (1784).
(10 febbraio 2010)
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