Chiesa e fine vita, due paesi e due misure

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di Marlis Ingenmey, da Adista

“Non nascondiamoci dietro un gioco di parole: in realtà questa è eutanasia”: monsignor Fisichella l’aveva detto subito – quando, il 9.7.2008, Beppino Englaro era stato autorizzato dalla Corte d’appello di Milano “a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale” praticato a sua figlia Eluana – per poi commentare anche a novembre: “La Cassazione ha sancito un’eutanasia di fatto e di diritto”. Prima o poi tutti i più alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche di qua e di là del Tevere hanno usato e riusato, in questo contesto, il medesimo termine: il cardinale Bagnasco (“un inaccettabile atto eutanasico” che “rischia di far scivolare l’Italia verso una deriva eutanasica”), monsignor Crociata (“secondo la morale della Chiesa” “qualsiasi azione volta ad interrompere l’alimentazione e l’idratazione si configurerebbe, al di là delle intenzioni, come un atto di eutanasia”), il cardinale Barragán (che ha parlato addirittura di “un crimine”, “un delitto”, “un vero e proprio omicidio”, “un abominevole assassinio”: “Fermate quella mano assassina!”), e altri ancora, non ultimo – senza, tuttavia, fare riferimento diretto al caso Englaro -, l’1 febbraio, durante l’An-gelus, lo stesso pontefice (“L’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza”), che, pochi giorni dopo, in occasione della Giornata del Malato, ha voluto ribadire anche il “principio non negoziabile” della difesa della vita “dal momento del suo inizio fino al suo naturale compimento”.
Il cardinale Bagnasco, che nella precedente legislatura non vedeva “la necessità di una legislazione specifica sul Testamento biologico”, reclama ora – e con lui buona parte del mondo cattolico – “una legge giusta”, “una legge dai contenuti inequivocabili nella salvaguardia della vita”, una legge per la quale, col suo placet, già il 30 settembre u.s., al termine del Consiglio permanente della Cei, monsignor Betori aveva piantato i paletti. Quel giorno, infatti, l’allora uscente segretario generale, constatata la “contrarietà dei vescovi all’autode-terminazione della persona in ordine alla propria morte”, aveva prospettato, in compenso, un’“apertura condizionata” verso una “legge sul fine vita”, ossia sul modo dignitoso di essere curati nella fase terminale della vita, una legge che, senza lasciarsi fuorviare da “interpretazioni giurisprudenziali”, escludesse dai trattamenti sanitari rinunciabili “l’idratazione e l’alimentazione, che non sono attività curative, ma attività di sostegno vitale”, e non conferisse “carattere vincolante” a volontà anticipatamente espresse. Quello stesso giorno, al margine dei lavori dei vescovi, il cardinale Bertone, segretario di Stato della Santa Sede – auspicando che sul “fine vita” e su altre leggi riguardanti la “vita umana”, valore “non negoziabile”, anche in Italia ci si confrontasse “su ragioni fondate” -, aveva voluto ricordare che il Concilio Vaticano II “afferma il diritto-dovere dei cristiani di esprimere la loro opinione quando sono in gioco i diritti della persona e i valori fondamentali, anche per migliorare e correggere eventuali proposte di legge”.

La risposta della politica
Puntualmente si è appreso alla fine di gennaio dal senatore Calabrò, relatore del ddl del Pdl, testo base per le “Dichiarazioni anticipate di trattamento” (Dat) ora in discussione al Senato, che “nutrizione e idratazione”, essendo “atti eticamente e deontologicamente dovuti in quanto forme di sostegno vitale, la cui sospensione configurerebbe un’ipote-si di eutanasia passiva”, non potranno essere rifiutate; e il testo, a guardarlo da vicino, non si ispira davvero alle recenti “interpretazioni giurisprudenziali”: le Dat – che non saranno (art. 6.1) “vincolanti” – mettono subito in chiaro che (art. 1.1) “La Repubblica tutela la vita umana fino alla morte, accertata ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n. 578” [che recita: “La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”], e che (art. 1.4) “La Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile ed indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui il titolare non sia più in grado di intendere e di volere” [eloquente la confusione di aggettivi: “inviolabile” non è più, come nella Costituzione e in tutte le Dichiarazioni, Carte e Convenzioni che si occupano dei “diritti inviolabili dell’uomo”, il “diritto” alla vita, ma “la vita”, che diventa, per giunta, “indisponibile”, come vuole la dottrina della fede cattolica]. Ci si domanda, già a questo punto, senza andare oltre nell’esame del testo, come possa una legge, con queste premesse, rispettare gli articoli 2, 3 [che non viene neanche richiamato], 13 e 32 della Costituzione e garantire (art. 1.2) “la dignità della persona umana riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina” [cioè: rispettare inoltre gli articoli da 5 a 9 della Convenzione di Oviedo, ratificata anche dall’Italia].
Nota Bene. 1) Per la giurisprudenza – con pronunce a tutti i livelli, fino alla Suprema Corte e alla Corte Costituzionale, e non solo nel caso di Eluana -, “il rifiuto”, in base a un diritto personalissimo garantito dalla Costituzione, “di qualsiasi trattamento medico, anche quando conduca alla morte”, “non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia” (“la cui essenza consiste nell’indotta accelerazione del processo di morte”), ma “si caratterizza per il rispetto del normale percorso biologico sotto il profilo di non interferenza con il suo corso ovvero di suo ripristino, se forzatamente rallentato”. 2) Per le principali Società di Nutrizione Artificiale italiane, europee e americane, “la nutrizione artificiale è da considerarsi, a tutti gli effetti, un trattamento medico” che “richiede il consenso informato del malato” o, “se riconosciuto incapace di intendere e di volere”, “del suo tutore o rappresentante legale” (Documento della Sinpe, gennaio 2007). 3) Per il Codice di deontologia medica (2006), il “rifiuto consapevole di nutrirsi” (art. 53) va rispettato (“… il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale”): vuol dire che anche in questo caso occorre, come per tutti gli interventi diagnostici e/o terapeutici, il consenso del malato, che, “allorché si tratti di minore o di interdetto” (art. 37), “deve essere espresso dal rappresentante legale”. 4) Il Comitato Nazionale per la Bioetica, col suo Parere del 24.10.2008, approvato con la sola astensione di 3 membri, riconosce – intanto al “paziente cosciente e capace di intendere e di volere”, “consapevole” – il diritto di chiedere “il non inizio e la sospensione” anche di “trattamenti sanitari salva-vita”, richiesta che è stata giudicata da alcuni membri “moralmente e giuridicamente giustificabile”, mentre alcuni altri ritengono che il paziente, “pur avendo la legittimità che gli proviene dal diritto di rifiutare le cure”, abbia “l’ob
bligo morale di vivere”. 5) L’art. 3 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini… sono eguali davanti alla legge, senza distinzione… di condizioni personali”. Se un paziente “consapevole” può chiedere, in qualsiasi fase della sua malattia, “il non inizio” o “la sospensione” di qualsiasi trattamento sanitario anche salva-vita, non si vede perché lo stesso diritto debba essere negato a chi, “consapevole”, decide, in “Dichiarazioni anticipate”, oggi per domani.

La lezione tedesca
Macroscopicamente diverso dall’approccio della Cei (e di parte del mondo cattolico italiano, dalla nomenklatura ai fedeli) a questa tematica è la posizione, ben nota in Vaticano e soprattutto a papa Ratzinger, dei vescovi tedeschi (e dei loro fedeli e perfino dei politici di ispirazione cattolica).
Neanche in Germania esiste ancora una “legge” (è in discussione al Parlamento dal 2004 e di nuovo in queste settimane) sul Testamento biologico, ma circa 9 milioni di cittadini ne hanno già compilato uno, non ultimo grazie all’apertura della Chiesa che giudica quelle “disposizioni anticipate del paziente” “un saggio strumento che fornisce informazioni preziose sulle volontà che la persona gravemente malata vorrebbe sapere rispettate”. La Conferenza episcopale tedesca ha elaborato nel 1999, con il benestare della Santa Sede, insieme al Consiglio della Chiesa evangelica tedesca (“Dobbiamo togliere alla gente la paura di diventare alla fine vittima della tecnologia medica”), un comune modello, aggiornato nel 2003, di Disposizioni anticipate del paziente cristiano. Con l’iniziativa – premesso che “nessuno può essere obbligato a trattamenti diagnostici e terapeutici per quanto possano essere promettenti” e ricordato che “per il credente” la vita è un “dono di Dio” e, come tale, “indisponibile” – le due Chiese intendevano “indicare una via di mezzo tra un prolungamento della vita a oltranza, improponibile, e un suo deliberato abbreviamento, che non può trovare legittimazione”. Dal divieto, per il credente, di disporre liberamente della propria vita, non deriva un suo obbligo di ricorrere a tutti i ritrovati della scienza medica per prolungarne la durata.
Nella Nota introduttiva viene spiegata la netta distinzione, in uso ormai nella maggior parte dei Paesi a noi culturalmente e giuridicamente vicini, tra, da un lato, [cito testualmente] “eutanasia attiva”, “aiuto a morire” (“mira a provocare la morte di una persona, p. es. con la somministrazione, per os, iniezione o infusione, di un sostanza letale”), che, “reato in Germania”, “non si concilia con la concezione che della vita ha il cristiano”, e, dall’altro lato, “eutanasia passiva” (“vuole lasciare morire con dignità un malato incurabile, rinunciando a trattamenti salvavita, come p. es. la nutrizione artificiale, la respirazione assistita, la dialisi o anche l’impiego, p. es., di antibiotici”), e, parimenti, “eutanasia indiretta” (“consiste nella somministrazione, al malato terminale, di farmaci antidolorifici che potrebbero anche avere come conseguenza, non voluta, l’anticipazione del suo decesso”), pratiche che sono giudicate dalle due Chiese cristiane – “se richieste dall’interessato” e “considerato che il medico ha il duplice dovere di tutelare la vita e di lenire le sofferenze dei suoi pazienti” -, in quanto “aiuto nel morire”, “giuridicamente ed eticamente lecite”.
Chi, in Germania, vuol fare un Testamento biologico può, volendo, servirsi di uno dei tanti moduli in circolazione (oltre 230), tra cui spicca per importanza quello – di orientamento, da personalizzare – “laico”, diffuso dal Ministero della Giustizia, che le Chiese non contestano. Con esso, in osservanza del diritto all’autodeterminazione del malato come diritto primario della persona, è lasciata al cittadino – con la sola esclusione, dettata dalla Legge, della richiesta di “eutanasia attiva” e con la puntualizzazione che atti di “eutanasia passiva” e di “eutanasia indiretta”, compiuti in esecuzione della volontà dell’interessato, “non si configurano come ‘omicidio del consenziente’ né come ‘aiuto al suicidio’” – libertà di scelta, cioè di chiedere espressamente o di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario (comprese rianimazione, ventilazione assistita, nutrizione e idratazione artificiali, dialisi, emotrasfusioni, ecc.) in presenza di qualsiasi patologia grave e irreversibile (compresi lo stato vegetativo permanente o persistente e forme di demenza all’ultimo stadio).
Ben 2,9 dei 9 milioni di testatori tedeschi hanno optato per il modulo “cristiano”, e tutti sanno che nel loro Paese le volontà anticipatamente espresse (anche solo a voce, da ricostruire, e dunque “presunte”) sono di norma rispettate automaticamente – di rado si deve ricorrere all’intervento di avvocati o adire i tribunali -, perché così vogliono i principi della Costituzione e le sentenze diventate esemplari (la prima, su un caso simile a quello di Eluana, risale al 1994) della Suprema Corte, il Bundesgerichtshof (in Germania Beppino Englaro avrebbe potuto accompagnare a riposare in pace la sua sfortunata figliola già tanti anni fa).
Il Modulo preparato dalle due Chiese per il “credente” tedesco prevede soprattutto richieste sia di “eutanasia passiva” (come la rinuncia “a tutti i trattamenti salvavita se, secondo scienza e coscienza, essi non lasciano più sperare in un miglioramento del mio stato fisico, mentre prolungherebbero soltanto il processo del mio morire”), sia di “eutanasia indiretta” (come la raccomandazione di garantire, nel caso predetto, “un’adeguata terapia antalgica anche qualora non fosse da escludersi, come conseguenza, un abbreviamento della mia vita”). Dal 2003 è lasciato inoltre spazio – e libertà di coscienza – al testatore per “Integrazioni personali” che possono riguardare disposizioni, anche al di fuori della fase terminale, per sue patologie specifiche, per la cura di eventuali malattie intercorrenti e in particolare “per il caso che dovesse venire a trovarsi in stato vegetativo persistente o permanente”.
La Chiesa cattolica tedesca pertanto non solo riconosce la legittimità etica dell’“autodeterminazione della persona in ordine alla propria morte”, ma giudica anche “eticamente lecite” omissioni (“eutanasia passiva”) e azioni (“eutanasia indiretta”) che permettano al malato che lo desideri di compiere “naturalmente” il suo ciclo vitale. In Italia solo il cardinale Martini era, già due anni fa, sulla strada giusta quando, dopo la morte di Piergiorgio Welby – ma subito corretto dall’allora presidente della Cei, cardinale Ruini -, invitava a “non trascurare la volontà del malato” e a “distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi”. Bisogna andare oltre, se si vogliono garantire e rispettare, in uno Stato laico, i diritti e le libertà della persona con la sua dignità, che sono “diritti” e “libertà”: nessuno è costretto a servirsene se la sua coscienza, per non dire il Catechismo, non glielo consente. Bisogna distinguere, anche in Italia, entro il termine “eutanasia”, quella “attiva” da quella “passiva” e “indiretta”, come usa oltre confine.

(16 marzo 2009)< /em>



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