Chiesa e Rubygate, quando si aspetta la salvezza dall’alto

Enzo Mazzi

, il manifesto, 27 gennaio 2011

Il problema della crescita culturale della società come esigenza primaria emerge con prepotenza dalla vicenda berlusconiana. Incriminazioni e condanne giudiziarie, manifestazioni, campagne di firme, manovre politiche parlamentari, nuove elezioni, pressioni sulla gerarchia cattolica perché condanni e si dissoci apertamente, campagne mediatiche, sono tutti tentativi encomiabili. Ma al fondo la domanda è se e come servono per uscire dal pantano culturale in cui stiamo affogando.
Forse converrebbe rivisitare il Gramsci della ‘egemonia culturale’ che ribalta il primato marxista del cambiamento strutturale per porre invece al primo posto la crescita culturale del popolo.

Prendiamo l’attesa spasmodica del pronunciamento del Vaticano e della Cei che ha caratterizzato non solo il mondo cattolico aperto ma il mondo politico tutto e il pianeta dei media. Ma questo aspettare la salvezza dall’alto non fa parte dell’egemonia culturale della destra, non ribadisce uno dei principi fondanti del cosiddetto berlusconismo?
«Non si porta salvezza se si è complici della ingiustizia e della violenza istituzionali», afferma il vescovo mons. Raffaele Nogaro sul numero in uscita di Micromega. E’ un’affermazione di grande valore etico. Che si coniuga necessariamente e conseguentemente con un altro principio etico fondamentale: la salvezza viene sempre dal basso, viene dalla presa di coscienza, dal formarsi e dall’emergere come soggetti politici delle masse di « inesistenti », di semplici «oggetti », di «strumenti passivi».

E’ questo il messaggio che da anni, da quando sono nate, portano avanti le comunità cristiane di base col loro stesso esistere. Le quali infatti concludono un loro comunicato con la seguente affermazione: «La drammatica crisi che la società e la chiesa italiane stanno vivendo può essere anche occasione per i cattolici conciliari di maturare la consapevolezza che non è sufficiente la critica, opportuna e necessaria, ma è necessaria anche l’assunzione di responsabilità nella gestione della Comunità ecclesiale esercitando fino in fondo ruoli e funzioni che il Concilio ha affidato al Popolo di Dio».

Prima di questa affermazione le comunità di base, mentre esprimono «vicinanza e condivisione» verso le espressioni di «disagio divenuto disgusto» di parti notevoli del mondo cattolico, affermano di sentirsi chiamate «a riflettere sullo stato della chiesa italiana». E invitano «questo ‘cattolicesimo del disagio’ ad una seria riflessione sulla qualità dell’impegno intraecclesiale che non può limitarsi a elevare qualche critica occasionale verso scelte inopportune o errate delle autorità ecclesiastiche cattoliche». Per evidenziare la necessità di «prendere finalmente coscienza che, se siamo a questo punto, è perché sono arrivate al pettine le inevitabili e logiche conseguenze di una strategia pastorale orientata, scelta dopo scelta, a svuotare la Chiesa dello spirito conciliare.

Non è servito impegnarsi nel sociale senza toccare se non marginalmente la struttura ecclesiastica, mentre nel dopoconcilio veniva fatto il vuoto intorno alle esperienze conciliari più vive, che spesso venivano lasciate sole a subire, una dopo l’altra, la repressione e dalle quali si prendevano le distanze».
Tutto l’impegno che riusciamo a esprimere per uscire dal pantano ritengo che vada sempre misurato con questo tema della crescita culturale della società come esigenza primaria.

(27 gennaio 2011)

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