Chiese vuote e cieli pieni

Raniero La Valle

Da poco più di un mese è cominciato l’anno dedicato alla memoria del Vaticano II. Dopo cinquant’anni di una ricezione non certo impetuosa il Concilio è stato risvegliato come evento decisivo per la fede ed è oggetto di un gran numero di celebrazioni e rivisitazioni. Ma non ci sono solo gli osanna, ci sono anche le contestazioni al Concilio, aperte e sotterranee, e ci sono i disagi, le reticenze e le riserve.

L’istituzione fondata dal vescovo Lefebvre odia il Concilio ma non ha ancora del tutto rotto con Roma perché non vuole essere una piccola Chiesa, ma vorrebbe che tutta la grande Chiesa tornasse a essere come era prima, cioè come la setta lefebvriana continua ad essere tuttora. E neanche a Roma mancano sotterranee nostalgie in questo senso.

Altre riserve nei confronti del Concilio sono espresse in modo più sfumato e sono piuttosto sintomo di un disagio per una svolta che per quanto positiva non andrebbe riproposta senza le opportune cautele e le correzioni del caso. Così ad esempio Benedetto XVI, in un articolo pubblicato sull’Osservatore Romano nel giorno del cinquantesimo anniversario, ha trovato che il Concilio non sarebbe riuscito a cogliere davvero ciò che è “essenziale e costitutivo dell’età moderna”, benché volesse stabilire un rapporto positivo con essa e proprio questa fosse l’intenzione della Costituzione pastorale; il cardinale Piacenza, prefetto della Congregazione del clero, considera a sua volta la “Gaudium et Spes” oggettivamente datata, dice che ci sarebbe oggi una “resa della ragione” al determinismo moderno e si è chiesto addirittura se la modernità “è compatibile con l’Avvenimento cristiano”. In riferimento poi al postulato fondamentale di papa Giovanni (cambiare il linguaggio per trasmettere la stessa fede) si è chiesto se basti “mutare o adattare il linguaggio” e se “è davvero possibile mutare il linguaggio senza, in fondo, mutare qualcosa anche del contenuto essenziale del dato rivelato”: il che, per un Concilio, non è un sospetto da poco.

Un’altra delusione affiora nell’analisi di padre Piero Gheddo, un autorevole missionario che al Vaticano II fu chiamato come esperto, secondo il quale “fino al Concilio la Chiesa viveva una stagione di fervore missionario oggi inimmaginabile”, ma poi ci fu un crollo repentino: “si riduceva l’obbligo religioso di evangelizzare a impegno sociale… come se la Chiesa fosse un’agenzia di aiuto e di pronto intervento per rimediare alle ingiustizie e alle piaghe della società”, sicché oggi si preferirebbe raccogliere firme contro le armi o il debito estero piuttosto che incoraggiare alle missioni.
Anche le statistiche sono impietose: si lamenta una caduta verticale della pratica religiosa nelle nuove generazioni, e si imputa al Concilio ciò che è il prodotto della secolarizzazione, sicché sarebbe colpa del Concilio se le chiese sono vuote, i seminari deserti e i monasteri ormai troppo grandi.

Si dimentica però che lo scopo del Concilio non era di riempire le chiese, ma di salvare il mondo. Come quello di Gesù, del resto, che non voleva mettere al posto del tempio le sue chiese, ma fare del suo corpo un tempio dato per amore all’umanità tutta intera. L’idea che basti stare nella chiesa, come nella casa di Raab la prostituta, per salvarsi, non è una buona idea, e Raab come figura della Chiesa non è il migliore frutto della tradizione ambrosiana. Non bastò agli abitanti di Casarsa rifugiarsi nella piccola chiesa del borgo per salvarsi, furono tutti uccisi nel cimitero di Monte Sole, dove si sparò ad altezza di bambino, e dove ora riposa don Dossetti, simbolo moderno della pace e del diritto.

Perciò il Concilio dovrebbe suscitare non giudizi, ma domande. Come potrebbe ad esempio oggi la Chiesa combattere il relativismo, bollato come “resa della ragione”, se non fosse uscita dal conflitto con la modernità e con l’illuminismo, nel quale aveva combattuto la ragione accusandola di voler essere misura di tutte le cose, e di pretendere a un primato, a un’”ipertrofia della ragione” come la definisce il cardinale Piacenza? E come potrebbe rivendicare le radici cristiane dell’Europa, se con l’ecumenismo non avesse fatto pace con tutto il cristianesimo europeo, e non avesse tolto l’impedimento della contrapposizione confessionale all’unità dell’Europa?

E la domanda decisiva dovrebbe essere questa: dopo il Concilio, vediamo solo le chiese vuote o non vediamo piuttosto i cieli pieni? Certo li vediamo più pieni di quanto li credevamo prima. Ora sappiamo che ci sono tutti i bambini morti senza battesimo (il Limbo non era vero), che ci sono gli uomini prima dell’incarnazione, dato che “indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, ci sono musulmani ed ebrei, indù e pagani; ora sappiamo che non si salvano solo i cattolici, e nemmeno solo i cristiani, ma “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia”; insomma il mondo, e di conseguenza i cieli, non sono fatti solo per pochi eletti, essendo tutti gli altri una “massa dannata” come pensava s. Agostino. E perfino le missioni vanno bene come non mai, se come dice lo stesso padre Gheddo nel 1960 i cattolici in Africa erano 35 milioni e ora sono 172, e anche nel mitico Vietnam che ha resistito all’Occidente i cattolici sono ormai il 10 per cento della popolazione.

(21 novembre 2012)



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