Cina, da piazza Tiananmen a oggi: 30 anni di guerra al dissenso

Giacomo Russo Spena

Il libro “Pechino 1989” di Ilaria Maria Sala è una testimonianza diretta di ciò che avvenne quel famoso 4 giugno coi carri armati del regime in strada contro i manifestanti: “Ho scritto questo volume per combattere l’oblio, il Partito vuole cancellare la memoria”. E poi attacca l’indifferenza dell’Occidente: “Oggi, più ancora che in passato, abbiamo un regime sempre più chiuso, ossessionato dal controllo e dunque infatuato dalle possibilità di controllo estremo offerte dalle nuove tecnologie”.

intervista a Ilaria Maria Sala

“In Cina ancora oggi vige una forte censura e ogni qualvolta che la società civile cerca di organizzarsi in modo autonomo, su qualsiasi tema – dai diritti ambientali a quelli di genere, dai diritti dei lavoratori a quelli delle minoranze – la repressione è dietro l’angolo”. Sono passati 30 anni dalla strage di piazza Tiananmen avvenuta nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989, quando i carri armati dell’esercito cinese arrivarono a Pechino e fecero fuoco indiscriminatamente su manifestanti che chiedevano riforme democratiche ed economiche, ma da allora le cose non sembrano cambiate molto. Ne parliamo con Ilaria Maria Sala, saggista e giornalista, la quale ha appena scritto “Pechino 1989”, un piccolo volume edito da Una città, in collaborazione con la Fondazione Alexander Langer. Era studentessa a Pechino nei giorni della Primavera e della successiva violenta repressione degli studenti, mentre ora risiede a Hong Kong dove sono in corso mobilitazioni per mantenere le attuali libertà, oggi sotto minaccia.

Lei, all’epoca studentessa, fu testimone oculare di quelle giornate: a 30 anni dai carri armati a piazza Tiananmen, cosa ricorda esattamente di quei concitati momenti?

Ho cercato di mettere nel mio libro i ricordi dettagliati, come li ho vissuti – utilizzando in parte il mio diario dell’epoca. Come molti testimoni di fatti violenti e drammatici, ne risento ancora il trauma, si tratta di una ferita che non può cicatrizzare. Credo, ma non posso esserne certa, che questo sia in parte dovuto al silenzio imposto in Cina su quello che è successo nel 1989, che rende impossibile una chiusura, o anche una metabolizzazione mentale di questi avvenimenti storici. È difficile dunque guardare indietro e sentire una vera distanza con quel periodo, con quegli avvenimenti, con quei ricordi.

In Occidente spesso si fa ancora fatica a inquadrare gli eventi di quel giorno nella cornice giusta. Quali erano esattamente le ragioni della protesta?

Se guardiamo a cosa li ha scatenati inizialmente – la morte di Hu Yaobang, l’ex leader del Partito Comunista epurato nel corso di una lotta di potere interna – capiamo che i manifestanti erano esasperati dal modo in cui il Partito si era arrogato il potere e lo aveva gestito in maniera del tutto arbitraria. La rimozione di Hu non aveva seguito il protocollo del Partito stesso per rimuovere un Segretario Generale. Questo arbitrio aveva messo in evidenza l’arbitrio più generale nel Paese. I manifestanti erano contrari a un potere che vive ignorando tutte le regole, incluso quelle che si era autoassegnato, ed erano esasperati dalla corruzione, e dal perdurare dei controlli e della censura.

Nel suo libro scrive: “Ogni volta che ricordo quei giorni rivedo gli sguardi pieni di ottimismo e speranza di chi marciava nei cortei, di chi pedalava per raggiungere gli altri, convinto di partecipare alla lotta per un futuro diverso, più aperto, per la Cina tutta. Sguardi che non ho mai più rivisto a Pechino”. Dove sono finiti quegli sguardi speranzosi?

Si sono semplicemente spenti. Qualche giorno fa ho letto un articolo che mi ha molto colpita, sul New York Times, in cui una giornalista scriveva che la gran parte dei cinesi non sostiene la lotta dei giovani di Hong Kong per una maggiore democrazia e che li reputa idealisti in modo ingenuo e perfino pericoloso dal momento che questo può mettere a rischio la stabilità economica di Hong Kong. Non penso che l’articolo sia davvero rappresentativo di molte persone, ma del circolo ristretto di conoscenze di questa giornalista, ma quello che mi ha colpita è come per tanti anni, anche in Cina, il luogo comune volesse che la gente di Hong Kong non si interessasse d’altro che di fare soldi e migliorare le proprie condizioni materiali. Non è mai stato vero ma la percezione della Cina, e di molti altri osservatori, era questa: un luogo apolitico e materialista. Ora mi fa sorridere vedere che il luogo comune è stato ribaltato, e sono diventati "i cinesi" ad essere quelli descritti come materialisti ed apolitici. Per certi è senz’altro vero, dato che le condizioni materiali in Cina oggi sono di gran lunga superiori a quelle di 30 anni fa, ma è una generalizzazione assurda.

Alcune analisi ci dicono che, in realtà, soprattutto nei giorni a seguire, a pagare le conseguenze di questa primavera cinese non furono soltanto i giovani ma i lavoratori che chiedevano migliori condizioni salariali ed economiche. Condivide la tesi?

Le ragioni per la protesta erano molteplici, e con il passare del tempo sono diventate più numerose, man mano che altri gruppi si univano ai manifestanti. Le richieste sindacali si espressero con la creazione, proprio ai bordi di Piazza Tiananmen, del primo sindacato autonomo, fondato da Han Dongfang, oggi in esilio a Hong Kong. Per il resto dipende cosa intendiamo per “conseguenze”: continuiamo a non conoscere il numero e l’identità delle vittime e dei feriti, ma sembra certo che il numero maggiore di morti ci fu fra i semplici cittadini di Pechino accorsi nella notte nella speranza di fermare i carri armati e il fuoco dei soldati. Rispetto alle pene carcerarie, diversi studenti hanno scontato lunghi anni di prigione, e da allora in poi gli atenei sono molto più controllati di quanto non lo fossero prima del 1989. È vero anche che moltissimi operai, cittadini dai mestieri svariati furono imprigionati dopo le proteste, anche se di nuovo abbiamo informazioni molto parziali sulle pene scontate e sul numero di persone coinvolte.

L’anniversario della strage di Piazza Tiananmen risale al 4 giugno ma in Cina le commemorazioni sono vietate, attivisti e testimoni vengono tenuti ai domiciliari o spediti lontano da Pechino, gli eventi pubblici vietati, i controlli rafforzati. Anche per tale motivo ha scritto questo libro, per combattere l’oblio?

Il regime fa da trent’anni tutto il possibile per cancellare la memoria e, quando non può rimuovere i ricordi di chi era presente, cerca di imporre un’interpretazione di quei fatti che vuole che la Cina non potrebbe essere oggi una potenza economica se non ci fosse stata la repressione di Tiananmen. Si tratta di due questioni del tutto prive di nesso, ma che il governo e la propaganda sono riuscite a collegare nella testa di molte persone. Ho scritto questo libro per un debito personale nei confronti delle persone che ho visto prendere rischi così grossi e per combattere l’oblio anche in Italia, dove si continua a guardare alla Cina come se fosse su un altro pianeta: ci si comporta come se tutti gli abusi che avvengono nel Paese non ci riguardassero.

In questi giorni ad Hong Kong ci sono manifestazioni popolari di dissenso verso la Cina che accusa i manifestanti di essere eterodiretti da forze estere. I metodi del regime passano sempre per la re
pressione sanguinaria? Sarà così anche questa volta?

Hong Kong nel 2019 non è Pechino nel 1989, per quanto Pechino sia cambiata meno di quanto mi piacerebbe pensare. Di nuovo assistiamo alle stesse tecniche nel tentativo di togliere credibilità ai manifestanti, accusandoli di essere “manovrati dall’estero” confondendo le acque e fomentando il dubbio. È una vecchissima tecnica ben affinata nei Paesi comunisti ed ex comunisti. Non credo che la repressione a Hong Kong possa essere sanguinaria come quella che abbiamo visto nel 1989, mi sembra onestamente impensabile, ma il governo per ora sta reagendo solo con la repressione: arresti, condanne, rifiuto del dialogo e tentativo sempre maggiore di controllare la società. Hong Kong però è abituata ad essere libera: reprimere persone libere è più complicato che negare la richiesta di libertà che non erano mai state concesse.

Tra censure e boom economico, possiamo dire che in Cina siamo lontani dall’idea di uno Stato minimamente democratico o qualcosa in senso progressista si sta muovendo rispetto al passato?

Oggi, più ancora che in passato, abbiamo un regime sempre più chiuso, ossessionato dal controllo e dunque infatuato dalle possibilità di controllo estremo offerte oggi dalle nuove tecnologie. Inoltre, i successi economici e diplomatici della Cina fanno sì che sia oggi molto più difficile portare Pechino al tavolo dei negoziati e chiedere al governo cinese di rispettare le promesse che ha fatto alla sua popolazione o alla comunità internazionale. Questo è in parte anche responsabilità di tutti quelli, noi italiani compresi, che abbiamo guardato a Oriente solo con cupidigia, decidendo di non sollevare più in modo significativo le questioni dei diritti umani, come se si trattasse di un dettaglio senza conseguenze. Oggi il Partito non ha nulla da guadagnare, e tutto da perdere, da possibili aperture democratiche, e temo che questo resterà vero per il prossimo futuro. Ma non sono una veggente.
(6 luglio 2019)


 



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