Cinema: “Blackhat” di M. Mann e “La solita commedia: inferno” di F. Biggio, F. Mandelli e M. Ferro

Giona A. Nazzaro

Blackhat di Michael Mann

Di fronte all’disinteresse quasi generalizzato del pubblico e di buona parte della critica è inevitabile chiedersi, ancora una volta, sono gli inevitabili tormentoni del mestiere, cosa significa, oggi, “cinema d’autore”? Negli Stati Uniti, Blackhat, il film di Michael Mann, è fallito tristemente al botteghino. A fronte di un costo non indifferente, i magri incassi del film hanno convinto la produzione a non investire per il lancio della pellicola in Europa pur consapevoli del rispetto e l’affetto di cui Mann gode presso la critica e la cinefilia.

Il risultato di questa non-strategia non si è fatto attendere, nonostante la distribuzione italiana abbia organizzato numerose proiezioni per la stampa nell’evidente speranza di suscitare un passaparola che purtroppo, pur divampato nei social network, non è stato in grado di modificare le sorti commerciali del film al botteghino. (Magari se la produzione americana avesse provato a lanciare il film prima in Europa…?).

Il punto cruciale è che pur costando quanto una grande produzione spettacolare, Blackhat rientra in una tipologia di film cui né Hollywood, né il pubblico statunitense (ma anche quello europeo) sembrano più essere interessati.
Paradosso crudelissimo per un film così schiettamente contemporaneo, Blackhat, in termini di pura merceologia hollywoodiana, è un oggetto inattuale. Cosa che rende la riflessione politica del film (di questo si tratta) sul paesaggio massmediale nel quale siamo calati ancora più urgente. E probabilmente, ma è una previsione sin troppo facile, quando leggerete queste righe il film – purtroppo – sarà già stato ritirato dalla programmazione…

In questo senso Blackhat, la sua apparizione al cinema, paragonabile a un “blip!” sullo schermo di un pc prima che si oscuri, ha assunto, nel quadro della programmazione cinematografica delle sale italiane, le dimensioni di un’incursione virale benigna tesa a scompaginare modalità di fruizione e, soprattutto, sguardo.

Piace immaginare che William Gibson, mentre scriveva Neuromante, avesse in mente uno scenario tutto sommato naturalistico, documentario, come quello di Blackhat. D’altronde all’epoca, mentre Gibson scriveva, a quanto pare a macchina, si faticava a immaginare che le incursioni nella matrice, immaginate come avventure fantastiche degne di Mètal Hurlant, un giorno, grazie ai modem prima e alle connesioni wifi poi, sarebbero diventate parte integrante di quanto Marshall McLuhan descriveva come il sistema nervoso esteso e che lui immaginava, appunto, come una rete.

Michael Mann compie con Blackhat una mappatura del mondo oggi. Consapevole che esiste lo spazio interiore, mai così esteso e stratificato, è il campo dove accadono le cose, mentre lo spazio fisico, invece, si riduce sempre di più. Uno spazio esteriore percorribile con aereoplani, elicotteri, macchine e altro, mentre per quello interiore basta un click! e ci si trova dall’altro capo del mondo. Lo spettro drammatico di Blackhat sta tutto nel mettere in relazione figurativamente le diverse velocità di pensare il mondo oggi. Blackhat è il film del collasso dello spazio.

Avvenimento che Mann tematizza nell’approccio assolutamente innovativo al digitale. Invece di nascondere i pixel dell’immagine, Mann li lascia affiorare e permette alla macchina, soprattutto nelle scene d’azione, di rivelarsi come lavoro. Non è un caso che alcuni dei momenti del film sembrino dichiaratamente “finti” (basti pensare all’incredibile finale) dove la grana della pellicola evoca una ripresa quasi rubata all’insaputa degli attori. Mann è come se tentasse di saggiare la tenuta dei pixel. Come se volesse osservare quanta realtà un insieme di pixel può contenere. E, soprattutto, se il cinema può ancora esistere in questa tensione fra pixel, immagine e reale.

La malinconia del film, presente in tutti i film digitali di Mann, esplosa incontenibile in Miami Vice, ma mai, sinora, così teorica come in Blackhat, è indizio di un sentimento dell’esilio, da se stessi e dal mondo. Come se la metamorfosi del principio d’individuazione e, di conseguenza del principio stesso di realtà, abbia prodotto un’atomizzazione del sentire che, nuova forma dell’errare, piuttosto che rinchiudersi, tenta di replicare l’espansione molecolare della percezione, cercando corpi e luoghi cui aderire. Cosa che il montaggio di Mann traduce in forme precisissime e lancinanti. Come un costante danzare dello sguardo da un punto all’altro dei corpi e dello spazio.

Ed è in questa nuova forma di nomadismo, segno di un esilio da se stessi e dal mondo, che Blackhat riesce a cogliere le forme nuovo non solo di un sentire, ma delle dinamiche stesso dello sguardo. Come se invece che uno dei film d’azione più intensi e potenti degli ultimi anni fosse invece un documentario teso a registrare la nuova antropologia digitale del 21esimo secolo. Chissà quali riflessioni avrebbe scatenato in Marshall McLuhan un film come Blackhat.

La solita commedia: inferno di Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli e Martino Ferro

Il cinema italiano sta da un’altra parte. Senz’altro da un’altra parte rispetto a chi si erge a tutore dei costumi e della presunta purezza dell’arte cinematografica. E che Concita De Gregorio si sia smarrita di fronte al fenomeno televisivo de I soliti idioti dimostra solo quanto inadeguato possa essere il cosiddetto wishful thinking di chi, al riparo della propria posizione, giudica, opina e invoca “arte”, ma poi di fronte a Godard pontifica e s’annoia. D’accordo, questa era facile. Ma irresistibile. D’altronde solo Marco Giusti, cinefilo raffinatissimo al contrario di molti dei suoi denigratori che si lamentano dell’ “egemonia stracultista” (dove? come?) aveva, in netta contro tendenza, evidenziato la straordinaria vena anarchica e insurrezionale della sortita cinematografica del duo, legandola, correttamente, alla televisione dalla quale proveniva. Apriti cielo! Giusti, che non ha bisogno di difese d’ufficio, ritratto quale nostalgico antistorico del cattivo gusto che non ha compreso che ciò che una volta era minoritario oggi è, invece, egemone. E che sono finiti i tempi belli di Nando Cicero e via discorrendo.
Questo per fare il sunto delle puntate precedenti.

E ora, con La solita commedia – Inferno ci si ritrova davanti a un oggetto inatteso, sorprendente e, a tratti, persino geniale. Irreverente, trasgressivo e, senza troppi giri di parole, contemporaneo. Un film che se ne frega altamente del “padre”, il grande complesso del cinema italiano d’oggi visto che non si riescono più a fare i film come ieri (ultimo esempio in ordine di tempo lo sconcertante Latin Lover, ossia quando la nostalgia antistorica diventa revisionismo). Un film senza nessun complesso d’inferiorità nei confronti dell’arte ma con un senso dell’urgenza del cinema schietta, rigenerante. Davvero inusuale.

Già, perché se Fabrizio Biggio ammette senza problemi che ciò che riesce meglio alla coppia &egrav
e; costruire sketch, occorre notare l’abilità filmica con la quale il regista Martino Ferro riesce a tenere insieme il tutto senza mai arrendersi alla tentazione di incollare situazioni e momenti, prestando enorme e meticolosa attenzione alla fluidità delle scene (esemplare l’episodio della crackhouse per gli smartphone-dipendenti).

La precisione con la quale nel film le carrellate, gli stacchi di montaggio e persino le inquadrature fisse (geniale quella vuota nel salotto di Carlo e Mirella dove tintinnano solo i cristalli del lampadario con i protagonisti fuori campo) diventano fatti di costruzione del linguaggio, lavoro sulla forma del cinema. Ma non solo. Si pensi alle pubblicità che si animano e insultano i protagonisti. Come in un cartone di Tex Avery, le sagome dei cartelloni diventano tridimensionali e toccano, desiderando, i corpi dei potenziali acquirenti che invece si ritraggono spaventati di fronte all’invasione del loro principio d’individuazione. Come dire che Biggio e Mandelli intervengono in quanto autori di cinema rispetto al mondo nei cui confronti si pongono con spirito critico.

Anche Biggio e Mandelli, come i Taviani, si rifanno a un’autorità culturale superiore per intervenire rispetto al paese in cui vivono. Ma mentre i Taviani risultano alla fine cristallizzati in un rispetto di classe nei confronti della cultura “alta”, come se fosse anche questo appannaggio di pochi, Biggio e Mandelli utilizzano Dante con uno spirito schiettamente punk, iconoclasta non nei confronti del poeta ma di quanti si celano dietro l’aura della cultura per giustificare immobilismo e privilegi (e complimenti a Martino Ferro per gli endecasillabi che mette in bocca a Dante: un autentico tour de force di virtuosismo pastiche).

E attenzione: perché se Dante nella commedia muove dall’inferno al paradiso, nel film di Biggio e Mandelli si ritrova esiliato, laicamente, sulla terra. Come dire che troppo tempo in paradiso (lontani dalla storia) non si può mica stare. D’altronde, lo sapeva anche Sartre, l’inferno sono gli altri. Che guarda caso sono i nostri prossimi. E con questi bisogna fare i conti. Ed è questa precisione nello stare nell’oggi, qui ed ora, il punto di forza del film di Biggio e Mandelli. Un film che si nutre anche di altro cinema, come è giusto che sia: le portiere strappate omaggio ai Due superpiedi quasi piatti passando alle gag visive del Fantozzi neriparentiano, Tea Falco che cita l’Alanis Morrissette del Dogma di Kevin Smith, senza dimenticare la sortita oltretombale di Topolino.

Una fucina di citazioni rielaborate criticamente e formalmente e non solo pigramente messe in campo con il solito atteggiamento museale del cinefilo che omaggia ma non capisce niente. Un cinema che si guarda intorno e che, come nei film di Evan Goldberg e Seth Rogen, accetta la presenza del sangue (Tea Falco finisce sgozzata da una katana e il sangue sgorga come in un horror di Joe D’Amato) e dialoga con la retorica supereroistica (sempre Tea Falco che nei panni di Gesù schizza via come Superman, il mostro pubblicitario che insegue i protagonisti).

La solita commedia – Inferno è un film al presente anche se omaggia Risi e ai suoi mostri e strizza affettuosamente l’occhio ai Troisi e Benigni di Non ci resta che piangere. Ma è la posizione che assume rispetto ai modelli a fare la sua forza. Biggio e Mandelli i loro modelli li triturano. Procedimento punk, questo. Si prende tutto e lo si processa a velocità nuove.

Basti pensare al supermercato CarrHELLo (Hell=inferno) dove gli zombi di romeriana memoria si sono(ri)trasformati in una massa di soliti idioti neoliberisti lobotomizzati il cui linguaggio si è atrofizzato fino a ridursi a una serie di frasi ripetute all’infinito dove cambia solo, leggermente, l’intonazione e la pronuncia. Senza contare la citazione di Dorè dove i peccatori invece di stare semisepolti spuntano come sculture di Dalì dai banchi delle merci. Siamo ciò che consumiamo. Più situazionisti di così…

Di fronte a La solita commedia – Inferno non si può fare a meno di pensare che “i soliti idioti” abbiano firmato il film che spiega alla critica cosa hanno fatto in televisione e al cinema sino a questo momento. Come se di fronte alle geremiadi di coloro che si stracciavano le vesti per i “dai ca**o!” loro ci provassero di nuovo sospirando: “Ok: ve lo spieghiamo un’altra volta. Vediamo se capite a ‘sto giro”.

E non è un caso che da Biggio e Mandelli giunga l’unica grande lezione di laicità del cinema italiano da molti anni a questa parte e che curiosamente ci ritroviamo a vivere alla luce dei fatti di Charlie Hebdo (il film è stato girato lo scorso agosto).
E infatti, puntualmente, Alessandro Zaccuri dalla pagine de l’Avvenire del 13 marzo scorso rimprovera ai due il loro ritratto del paradiso e del relativo consesso dei santi e chiede retoricamente cosa loro considerino blasfemo considerato che, a suo giudizio il film non fa ridere. Richiesta questa, piuttosto perentoria piazzata a fine articolo che ovviamente evoca lo scenario di libertà simmetrica tracciato da Paolo Flores d’Arcais . “Se il criterio dell’offesa diventa il paradigma della libertà, a decidere sarà la suscettibilità”. Appunto.

Che sorpresa dunque, vedere in un film italiano un atteggiamento sanamente laico nei confronti del clero. Non mediato dal solito ossequio dei Don Matteo o degli spiritualismi di riporto dei borghesi in crisi. Il tutto condito da gag geniali e velocissime (Tea Falco che s’accende una sigaretta con il cuore sacro che le pende sul petto) che rimandano all’intelligenza critica dei Monty Python. E per una volta non c’è niente da spiegare o da capire. È tutto chiaro.

(19 marzo 2015)



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