Cinema: “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino
Giona A. Nazzaro
Con Chiamami col tuo nome, Luca Guadagnino chiude la sua trilogia del desiderio (o dei ricchi) i cui precedenti capitoli sono Io sono l’amore e A Bigger Splash. Guadagnino, autore in grado di evocare veri e propri ecosistemi di segni nei quali permettere ai suoi film di venire letteralmente alla luce, coglie un momento peculiare della storia del nostro paese. Il tramonto degli anni Settanta, messi in scena come se non avessero alcun sentimento del loro essere giunti alla fine del proprio ciclo storico, interfacciandolo con gli albori (e oltre) del decennio successivo (il libro di André Aciman si volge nel 1988, in Italia).
In questo movimento crepuscolare, come di una giornata che declina trattenendo il calore dei raggi del sole all’orizzonte, il regista con grande acume insinua il fiorire aurorale dell’amore fra Elio (l’umbratile, singolare Timothée Chalamet) e Oliver (il sempre più sorprendente Armie Hammer). Ambientando il suo film in un angolo d’Italia raramente visto al cinema, filmandolo con un affetto e una comprensione che forse solo Antonioni e Bertolucci hanno avuto nei confronti della loro terra, ma che in fondo evoca il magistero viscontiano per come articola il dialogo fra gli interni dove sono custoditi i segni della cultura altoborghese al richiamo dionisiaco della natura.
Guadagnino non si limita a raccontare un romanzo di formazione, la sua è una danza dolcemente ipnotica fra l’apollineo della forma e il dionisiaco del desiderio che s’incarna nelle immagini del film. Il regista, attraverso uno sguardo in grado di abbracciare tutti gli elementi del racconto, crea un vero e proprio mondo che si configura, inevitabilmente, anche come un riflesso del processo creativo che ha dato corpo al film (quelli che una volta si definivano film-cervello). Guadagnino, infatti, appartiene alla categoria di quei cineasti profondamente italiani che riescono letteralmente a reinventare lo specifico nazionale reinventandolo su un piano squisitamente filmico, dando vita a un’immagine completamente nuova del nostro paese (basti pensare al lavoro svolto sul paesaggio nel sottostimato – in Italia – A Bigger Splash, o al contrasto fra campagna e città di Io sono l’amore).
In questo senso Guadagnino è davvero un cineasta totale. Tutto nel suo cinema concorre a creare un’esperienza visiva totalizzante. Ogni dettaglio concorre alla creazione di una tela sinestetica dove i sensi dello spettatore sono chiamati a partecipare a quella che si offre a tutti gli effetti come una cerimonia dei sensi. Il magistero autentico di Guadagnino è di far sorgere questo piacere puro dell’immagine e del racconto da elementi minimi, quasi impercettibili. Lo stormire delle foglie si muta così in un balzo muto del cuore, un passaggio di cirri si fa stilla di desiderio, il cadere della pioggia estiva sull’erba, mentre il cielo s’incupisce, un languore subitaneo, dolce, morbido, che stringe d’assedio gentilmente il cuore. Da cinefilo colto e appassionato (ma anche intransigente e severo), Guadagnino evoca senza remore Renoir (la sua, in fondo, è une partie de campagne…), ma si concede pure il divertimento ironico di “panoramicare” dagli amanti al giardino notturno evocando, affettuosamente, le ipocrisie del codice Hays.
L’universo sentimentale di Chiamami col tuo nome è posto in esistenza da un piacere addirittura tattile nei confronti del cinema e del suo potere di federare sguardi e desiderio nel buio della sala. L’attenzione meticolosa con la quale il regista cura ogni dettaglio del suo film, dallo spettacolare sound design, ai segni culturali sparsi nel film (dalle auto alle riviste nelle edicole, con la copertina di RockStar che omaggia David Bowie, per esempio…), non lascia nulla al caso. Un piacere che è anche segno di una comprensione profonda del proprio lavoro, l’evidenza di un pensare per immagini professato con accorata radicalità. E nonostante questo, non vi è un solo accenno alla tentazione nei confronti della nostalgia. Il desiderio e la seduzione ancorano il film del regista nel suo preciso momento storico.
E poi c’è naturalmente lo sguardo del regista che s’innamora a ogni inquadratura, che accarezza i corpi dei suoi attori e li protegge con movimenti di macchina puntuali e attenti. Guadagnino, infatti, pratica un cinema classico impuro, ossia un cinema che ha assorbito tutte le fratture della modernità e della post-modernità, che non avverte la necessità di manifestarsi attraverso violenze formali, e a partire da questo ritrovato classicismo riesce a creare un cinema aperto, ontologicamente contaminato, libero.
Chiamami col tuo nome è il film di un cineasta nel pieno possesso dei suoi mezzi espressivi, in grado di andare persino oltre gli eccellenti risultati di film fuori dalla norma come Io sono l’amore e A Bigger Splash. Il film di un cineasta in grado di evocare suoni che si possano toccare, immagini che si ascoltano e suoni che si vedono sullo schermo tale è la loro presenza icastica. Ed è proprio questa sinestesia politica e sensuale a offrire il suo maggiore contributo critico al dibattito che sta rimettendo in discussione il sistema del potere eterosessuale bianco (e che tanto fa – giustamente – discutere).
Senza contare la meraviglia assoluta di momenti indimenticabili come Elio che implora la madre di raccoglierlo alla stazione dopo la partenza di Oliver, il finale che reinventa quello altrettanto magnifico di Vive l’amour di Tsai Ming-liang, il dialogo fra Elio e suo padre (il notevolissimo Michael Stuhlbarg, che si può apprezzare anche in The Shape of Water e The Post), la magnifica Esther Garrel e così via. Ma sono i raccordi fra le immagini, i movimenti di macchina, il montaggio attentissimo di Walter Fasano così fluido da far sembrare il film un unico piano sequenza, la fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, le canzoni di Sufjan Stevens, tutto insomma concorre a creare un’esperienza cinematografica nel segno della filmicità più profonda, articolata e complessa. E tutto questo enorme lavoro in fondo non è altro che il segno del piacere insurrezionale che Luca Guadagnino prova nel giocare con le libertà offerte dalle forme del cinema. Chiamami col tuo nome è – a ben vedere – il dialogo d’amore fra Luca Guadagnino e il cinema. L’antitesi del cinismo dominante. Ed è uno spettacolo così bello da togliere il fiato.
(25 gennaio 2018)
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