Cinema: “Come un gatto in tangenziale” di Riccardo Milani

Giona A. Nazzaro

Il nuovo film di Riccardo Milani offre degli spunti interessanti per tentare di comprendere – e magari delineare – in quale direzione si st(i)a muovendo la cosiddetta commedia all’italiana. Dando per scontato – almeno in questa sede – che siamo (tutti, più o meno…) d’accordo su cosa ha rappresentato la stagione della classica commedia all’italiana nella rappresentazione di un’antropologia italiana neocapitalista e su come quel modello sia di fatto irripetibile data la matrice storica, produttiva e culturale cui era indissolubilmente ancorato (anche se si è tentato instancabilmente di riprodurla con risultati quasi sempre frustranti se non frusti…), Come un gatto in tangenziale tenta dichiaratamente di dare corpo a un film che sia anche una riflessione sull’oggi. E se l’esito della vicenda sentimentale del film è scontato (basta dare un’occhiata al manifesto per capire), ciò che suscita maggiormente l’interesse dello spettatore sono le modalità attraverso le quali sceneggiatura e regia tentano di ragionare sulle trasformazioni (mai affrontate né tantomeno gestite dalla classe politica) del territorio urbano in relazione a quelle che ancora oggi si continuano a definire periferie.

Premesso che non è certo a un film che si chiedono soluzioni o indicazioni per immaginare ipotesi o nuove immagini attraverso le quali raccontare i conflitti sociali in atto (anche se sovente è proprio il cinema che formula le possibilità più politiche e interessanti), inevitabilmente, se il film in questione sceglie di situarsi proprio su quel terreno, sarà necessariamente quello il luogo dove si verificherà la sua tenuta “politica”. Albanese, nei panni di responsabile di un think tank che sproloquia nelle sedi della EU sui rapporti fra disagio, periferia e centro, incarna le miopie di una benevolenza umanitaria caratteristiche di una sinistra alla deriva cui si oppone il buon senso della Cortellesi che diffida di tutti e tutto, ma che come tutta la gggente con tre g tenta semplicemente di arrivare a fine mese e di tenere lontano il figlio dalla strada.

Se l’alchimia tra i due protagonisti funziona splendidamente, il merito è essenzialmente della Cortellesi, davvero eccellente, uno dei pochi talenti genuinamente comici degli ultimi anni che non avrebbe sfigurato su un set di Dino Risi. Il fuoco di fila delle battute, l’impeccabile senso dei tempi comici, il ritmo e l’economia corporea, il suo oscillare fra aggressività, vulnerabilità e malinconia, il desiderio di riscatto e la rassegnazione, offrono la misura di un’interprete complessa che si destreggia magnificamente nello spettro relativamente lineare dell’evoluzione della sceneggiatura. Intelligentemente Albanese non tenta di rivaleggiare con lei sul terreno del comico, ma ricorre a un registro interiore, quasi da recitazione invisibile, per dare corpo a una crisi intellettuale che nelle visite ripetute al carrozziere saggio e maestro di vita trova la sua perfetta esemplificazione in gag.

I limiti del film, dunque, non sono certo imputabili agli interpreti né tantomeno allo stuolo dei caratteristi di contorno (fra tutti le irresistibili sorelle Giudicessa) quanto all’articolazione legnosa dello scontro fra cosiddetto “centro” e “periferia”. Se la parodia delle intellighentsie capalbiesi funziona nonostante la giustapposizione fra le scarpe della Cortellesi e i piedi nudi dei borghesi che discettano della Biennale (un’opposizione classista un po’ troppo facile) lì dove il film risulta più problematico è nella sua difficoltà di articolazione di una convivenza fra ultimi e… ultimi. I rapporti con i vicini, l’ironia un po’ greve sulle abitudini culinarie (per quanto riscattate dal finale…), non posseggono mai la complessità, per esempio, del Gassman che alla ragazza afroamericana ne Il sorpasso dà della “pallidona”, provocando così, contemporaneamente, la nostra ilarità e disagio (costringendoci a vergognarci…).

Nel dare corpo a una convivenza difficile – dovuta soprattutto alla carenza cronica di infrastrutture sociali – il film ricorre alle medesime semplificazioni con le quali mette in scena la distanza europea dai “problemi veri” (curiosa nota di euroscetticismo che invece il finale si incarica di smentire…). Per cui l’ironia sulla curcuma (che fa benissimo a chi soffre di colesterolo, per inciso), il cumino e i piatti dell’Europa dell’Est sembrano provenire più che da una rielaborazione critica e ironica di una situazione complessa dal medesimo brodo di cultura che ha dato luogo allo “gggentismo” e al complottismo del “magna-magna”.

L’altro, purtroppo, nel film di Milani è ridotto a una macchietta superficiale (oggetto di risate) proprio come i sottoproletari romani, tutti panza, tatuaggi e AS Roma, ridotti, insomma al loro “colore” folcloristico (mentre, invece, sarebbe stato interessante andare a rivedere come Sergio Citti in Cartoni animati aveva messo in scena la dialettica sottoproletaria). Inevitabilmente, tutte le sfumature risultano sacrificate all’efficacia e all’esito finale della sceneggiatura. (Tutt’altra cosa, per esempio, lo sguardo su Roma e le sue periferie offerto da Cosimo Alemà nel suo sottostimato Z). E se la Cortellesi si difende grazie al suo talento di interprete, i personaggi di contorno restano intrappolati nello stereotipo della macchietta comica (anche se Sonia Bergamasco fa di tutto per sottrarvisi e in parte ci riesce pure). In questo senso il film risulta davvero specchio della crisi di una sinistra (e inevitabilmente di quello che è ancora il suo maggior partito) che pur aspirando a sottrarsi al pantano del populismo e delle destre che avanzano non riesce nemmeno a (far) votare lo ius soli.

Il discorso finale di Albanese (“sapete cosa è il cumino?”) è davvero la misura di una distanza siderale non tanto del personaggio quanto di tutta una cultura (compresa quella di una buona parte del cinema italiano) che nelle periferie ci va solo per autopromozione. Inevitabilmente il finale, più che un happy end, sembra un compromesso storico. Se invece c’era una lezione da preservare della classica commedia all’italiana era proprio quella della cattiveria risiana che, avendo lo sguardo e il cuore al posto giusto, poteva legnare sonoramente tutti, nessuno escluso, senza accettare mai la scorciatoia del personaggio o della situazione esemplare. Come un gatto in tangenziale, a prescindere dal piacere che offre la prestazione della Cortellesi, è davvero un testo sintomatico per comprendere i limiti e le aspirazioni di un cinema che fatica a orientarsi nell’Italia di oggi (dove, francamente, siamo tutti un po’ come artisti smarriti sotto un tendone da circo…).

(28 dicembre 2017)



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