L’ultimo uomo sulla terra. “Dogman” di Matteo Garrone
Giona A. Nazzaro
L’uomo cane di Matteo Garrone si offre (a nostro giudizio) nel suo accecante nitore nerissimo come un’agghiacciante estensione delle favole de lo cunto de li cunti. Opera profondamente morale, come una parabola cristologica rovesciata, nella quale l’agnello non riesce a togliere i peccati dal mondo, ma anzi ne commette altri nella sua incapacità di opporsi al male, ci sembra continui l’interrogazione nei confronti della Storia che il regista aveva messo in scena nel suo film precedente. Come siamo arrivati al punto in cui ci troviamo? La domanda è assordante e non troverà risposta.
Se nel torvo fantastico tratto da Basile il regista dava corpo e immagine a un mondo prima della Storia, ossia l’affabulazione come materia prima del tessuto sociale, in Dogman il regista è come se si collocasse consapevolmente alla fine di ogni possibile Storia. Alla fine del mondo per come lo abbiamo conosciuto e conosciamo in una landa desolata dove – seguendo l’indicazione di Eliot – si scompare non con una deflagrazione ma con un flebile gemito.
Matteo Garrone, al contrario di quanto aveva fatto nel film precedente, dove aveva conferito carne e sangue alle fole di Basile, creando un tessuto astratto e realistico, come una preconizzazione del mondo a venire, in Dogman essica con un piglio visionario impareggiabile un tratto di mondo, stretto fra un cielo cupo e basso, che si affaccia disperatamente sul mare e che potrebbe essere compreso fra il litorale domitiano e quello romano. Un territorio altro, concreto e riscontrabile, ma alieno, come la più sconcertante delle distopie fantascientifiche. Come se il film si svolgesse fra resti corrotti di un thriller fantascientifico come Andromeda di Robert Wise (e il merito è dell’occhio mai così acuto di Garrone e dello straordinario direttore della fotografia Nicolaj Brüel).
Dogman è il racconto della fine del mondo. Un’umanità derelitta e abbandonata a se stessa, priva persino di una mitologia attraverso la quale pensarsi, chiusa nei propri minuscoli commerci e botteghe, come in caverne nelle quali le ombre hanno smesso di danzare sulle pareti. Un mondo tutto maschile, nel quale le donne sono ridotte a presenze sullo sfondo, o a una impossibile e oscura speranza di redenzione (la struggente figura della figlia del protagonista).
Un mondo dal quale i colori sono stati drenati. La precisione del gesto filmico di Garrone, l’economia rigorosa ma libera che regge l’intera impalcatura del film, ha del miracoloso. Ogni elemento infatti è portatore di una forza e potenza inusitata. Eppure la precisione non soffoca mai la libertà del film. Garrone permette al suo film di respirare e di vivere, come se accadesse in presa diretta dinnanzi ai nostri occhi. Ed è solo dei grandi registi trovare l’equilibrio nel quale il controllo diventa sguardo – pensiero – e mai norma.
Bisogna osservare come il regista gestisce i tempi quando la macchina da presa sta sul corpo del protagonista – il magnifico e sorprendente Marcello Fonte – un corpo cittiano di icastica potenza e precisione. Bisogna ammirare l’economia di un finale spietato eppure potente e lirico con il protagonista trafitto dall’assenza di qualsiasi epifania o salvezza.
Il mondo fosco e minaccioso di Dogman, che si offre come se Garrone avesse intercettato gli ultimi corpi sopravvissuti al genocidio antropologico perpetrato dal neocapitalismo, è il grado zero di un mondo ridotto alla sua fame (la cocaina privata di ogni glamour è consumata avidamente come una manna, inseguendo il mito di una “purezza” irraggiungibile…).
In questo universo, Marcello è uno “schlemiel” sottoproletario, forse un possibile taumaturgo (riporta alla vita un cane rinchiuso in un congelatore…) e parla con gli animali (i suoi cani) come un Francesco di borgata. Ma non è innocente. Innocente, o meglio: colpevole proprio come quella del suo prossimo, è la sua fatica quotidiana nel tentativo di sottrarsi alla fame attraverso il denaro e alle sue promesse. In questo senso Marcello è un credente. Crede nel denaro e nel potere. Ma non gliene si può fare una colpa: è “solo” la sua condizione umana. E quella di tutti gli altri.
Straordinaria, in questa prospettiva, la presenza di un mare vicino e irraggiungibile, e un altro ancora più lontano (le Maldive, le Hawaii…). Non ci si salva da soli.
Così, fra il cielo e la terra, Marcello è l’ultimo uomo sulla terra, quello che oscuramente ancora avverte l’oltraggio portato alla sua dignità (ridotta a un bisogno di soldi e una difesa della sua roba…) anche se incapace di riscattarsi.
E non sorprende dunque che la sua vendetta avvenga con una trovata quasi boccaccesca, convincendo il suo aguzzino a infilarsi in una gabbia. Garrone (insieme ai suoi sceneggiatori) riesce a cogliere il punto in cui gli appetiti primordiali di Marcello incontrano il loro rovescio speculare. Non più affermazione di un talento che si affranca dall’ipoteca di Dio, ma di una “fame” che si perde. Il sangue però resta. Il sangue è una valuta pesante, come l’oro, e non gira. Resta sempre fra le mani di chi lo versa. La reintegrazione nel mondo non passa per il sangue. Il desiderio di tornare a giocare a pallone – essere riaccolto nel mondo – è solo la più atroce delle illusioni. Raramente l’idea che l’inferno sono gli altri ha trovato al cinema una rappresentazione più atroce dell’immagine che vede Marcello chiamare i suoi amici che non rispondono alla sua invocazione. Dio – o chi per lui – sa tacere in molti modi, pur non smettendo mai di farsi desiderare.
Dogman è il film che mette in scena la fine del mondo. Un mondo chiamato Italia.
(18 maggio 2018)
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