CINEMA – “Fai bei sogni” di Marco Bellocchio
Giona A. Nazzaro
Non cessa di stupire la leggerezza di Marco Bellocchio il quale continua a mettersi in gioco rispetto alle idee acquisite riguardanti il suo cinema con straordinaria libertà e, soprattutto, enorme energia rigenerante. Dopo il lacerante free-jazz da camera di Sangue del mio sangue, inquieto e inquietante detour sul potere e le sue forme di autoconservazione che affonda le sue radici nella rimozione della seduzione e della libido, con Fai bei sogni il regista si confronta con straordinaria lucidità con le forme del melodramma di formazione.
Rispetto al romanzo di Massimo Gramellini, Bellocchio non si concede il facile lusso del tradimento o del rovesciamento. L’aspetto più intrigante, e riuscito, di questo incontro fra talenti e calibri agli antipodi fra loro, è il rispetto profondo con il quale il regista tratta la materia del libro gramelliniano. Il senso dell’operazione bellocchiana non va cercata in un facile ribaltamento del senso del libro, quanto nello sforzo compiuto dal regista e dai suoi sceneggiatori (Santella e Albinati) di individuare una serie di punti di contatto fra la pagina scritta e le possibilità di un incontro su un altro piano. Ossia il film come reinvenzione del romanzo.
Il mondo materno perduto, lontano e irrecuperabile, al di là della lettera della sceneggiatura che è il racconto di una complessa e stratificata elaborazione di un lutto è anche, a nostro avviso, una riflessione, articolata e politica, su un paese sorto dalla fine della seconda guerra che tenta di diventare adulto trovando una sua identità industriale adulta, innovativa, il cui prezzo, in termini di immaginario e affettività, è stato alto e pagato da donne e uomini i cui figli hanno tentato, poi, di ricostruire, attraverso quella dei genitori, l’immagine stessa del loro paese.
In Fai bei sogni, l’assenza della madre (la magnifica, umbratile Barbara Ronchi, un’autentica rivelazione) è la custode di un contraddittorio eden domestico, nel quale Massimo bambino si rifugia come se si trattasse dell’utero materno esternalizzato e trasformato dall’ideologia dell’arredamento per interni della classe media che ha creduto alle sirene del miracolo economico. Le prime immagini del film di Bellocchio, magnifiche nel loro offrirsi come danza segreta e al tempo stesso sotto gli occhi di tutti, proprio come la successiva ricerca di una verità rimossa ma evidente, offrono immediatamente la dimensione emotiva e sentimentale del film.
La madre, luogo di una bugia dolcissima, luogo segreto e oscuro, eppure accogliente ed erotico, incarna il farsi di una possibilità di un’emancipazione che non osa darsi come tale e che, latentemente, preferisce continuare a tenere in vita il gioco dell’interdipendenza, sino a quando questa non si interrompe, drammaticamente, con la morte. La morte come apparente punto terminale dell’economia dei fantasmi e del desiderio. Non è un caso che la corrente dell’incesto attraversi con grande determinazione il film di Bellocchio come immagine e specchio del rifiuto della morte.
Sorprende dunque la molteplicità di tensioni e le stratificazioni che Bellocchio riesce a inserire nel corpo dell’indicazioni biografica del libro di Gramellini restando fedele al racconto e senza mai forzarne le articolazioni drammatiche di fondo. Forse l’aspetto più interessante e affascinante di Fai bei sogni è il suo offrirsi come controcampo dei fantasmi e delle inquietudini bellocchiane. Una sorta di verifica negativa svolta in un altro luogo. Il segno, dunque, di un altrove (possibile o temuto), traslato come su un altro piano di realtà, nonostante la cifra di fondo resti ancorata saldamente a un realismo apparentemente naturalistico. Ed è proprio questa, invece, la cifra più misteriosa del film.
Autentico esempio di gotico domestico italiano, il rovescio esatto dell’ideologia del focolare come pietra angolare dell’economia e della famiglia, Fai bei sogni è come se ponesse in prospettiva, sotto un’altra luce, le ossessioni del cinema di Marco Bellocchio non come un tentativo tardivo di conciliazione, quanto piuttosto come un’eterotopia, oggettivazione di un’impossibilità documentata, però, dal cinema.
Il dato, davvero notevole del film di Bellocchio, è che mentre Fai bei sogni è suscettibile d’essere letto come l’altrove della poetica del regista (un luogo nuovo, altro), dall’altro si offre anche come possibilità di una fiaba. Ed è questo piacere ritrovato e rinnovato del racconto (che da Il principe di Homburg in poi si è offerto con una straordinaria generosità e ricchezza di risultati), che nel precedente film s’innervava in una serie di invenzioni formali folgoranti, qui permette al regista di costruire un’opera polistratificata, apparentemente lineare, nel quale il tempo si scompone senza sosta come se fosse inciso su un nastro escheriano.
Questo tempo non lineare è ovviamente il segno di un principio di realtà e la traccia di un procedere incerto, sempre tentato dal ritorno al ventre materno. Questa ritirata dal mondo e dalla storia, questa tentazione costante, che fa sì che il Massimo adulto si muova come un sonnambulo attraverso la piega degli accadimenti che è chiamato a raccontare (letteralmente a mettere in scena) e che nel magnifico finale, forse in assoluto la chiusa bellocchiana più sorprendente degli ultimi anni, si offre come un altro “sogno della farfalla” (storia di un altro Massimo).
Il finale del film mette in scena il desiderio di tornare a un mutismo fondativo, nel quale il protagonista tornando alla madre, annullandosi, finalmente può essere vivo in quanto liberato da sé stesso. La madre come segno del principio autoritario dell’amore e luogo chiuso, normativo e commovente. Smettere di parlare, per affermare un desiderio indicibile. Ed è questo paradossale “sogno della farfalla” il dolcissimo e intossicante cuore di tenebra di un film misterioso e complesso come Fai bei sogni.
(10 novembre 2016)
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