“Fuocoammare”, il realismo come creazione
Giona A. Nazzaro
Nel corso degli ultimi 15 anni, o forse anche di più, il cinema italiano si è andato rinnovando in silenzio, sperimentando con le forme di quello che comunemente si definisce “documentario”. Dai lavori di Leonardo Di Costanzo al nuovo film di Gianfranco Rosi corre il tracciato della parabola di un vero e proprio rinnovamento del nostro cinema che, sfuggendo alle caratteristiche dominanti della produzione nazionale, per la maggior parte orfana di mamma (la commedia) e di padre (lo schieramento politico di principio), si è fatto largo prima all’estero, grazie all’attenzione di programmatori e festival, poi progressivamente è stato accolto anche in Italia. Festival come Filmmaker, il Festival dei Popoli e l’Infinity Film Festival di Alba della gestione di Luciano Barisone hanno colto in tempo reale l’importanza e l’urgenza di questo non-movimento senza contare le feconde intuizioni di un direttore visionario e sui generis come Marco Müller.
Ovviamente la cultura italiana reagisce in ritardo. E questo lo si dice non per banalmente ribadire quanto eravamo nel giusto anni fa (ebbene sì: abbiamo avuto ragione), quando nessuno prestava attenzione a ciò che si muoveva nel cosiddetto “cinema del reale” ma per porre in prospettiva quanto oggi è sotto lo sguardo di tutti.
E, tanto per non arretrare troppo nel tempo, ricordiamo pure, polemicamente, la fretta con la quale è stato smontato Bella e perduta di Pietro Marcello (uno dei film italiani più apprezzati all’estero) e la superficialità con la quale Louisiana – The Other Side di Roberto Minervini è stato accolto da una parte della critica.
Gianfranco Rosi ha fatto bene a ricordarlo a Berlino. Come è accaduto con il neorealismo o con il nuovo cinema iraniano, il documentario italiano, pur non essendo una scuola né un movimento, è oggi all’avanguardia del cinema internazionale. Una posizione tanto più ammirevole perché conquistata sul campo, un pezzo alla volta, inventando di fatto un campo e uno spazio che non esistevano, contro le resistenze di un’industria incapace per la maggior parte di ricalibrarsi o di intercettare quanto sta(va) accadendo.
Anche se le eccezioni ammirevoli non mancano, e tanto vale citarle. Paola Malanga a Rai Cinema che ha sostenuto da sempre il cinema di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi o Cecilia Valmarana che ha creduto in Tir di Alberto Fasulo.
Chi continua a ritenere il documentario una forma cinematografica inferiore, una specie di anticinema con il quale purtroppo fare i conti malvolentieri, si preclude di fatto il piacere di dialogare con uno dei movimenti e momenti più fertili ed entusiasmanti del cinema italiano recente. Ma tant’è.
La vittoria di Fuocoammare di Gianfranco Rosi a Berlino non è il pigro dazio pagato dallo spettacolo a una forma effimera di politica filmata per segnare in controtendenza l’infamia del tempo presente. Se non si comprende che Fuocoammare è prima di tutto un film eccellente che conduce a un ripensamento originale e nuovo le potenzialità della forma documentaria; un’opera che si mette in discussione prima di tutto come cinema per immaginare un confronto con il suo tempo e se non si comprende che Rosi ripensa il racconto documentario e lo fa in forme tali da determinare lo sviluppo futuro del cinema del reale, allora è persino inutile tentare di spiegare perché Fuocoammare è un’opera d’arte e, oltre tutto, un’opera d’arte importante.
Non è un caso che sono soprattutto cineasti documentaristi come Mary Jimenez e Robert Greene che hanno colto subito, immediatamente, all’indomani della proiezione berlinese, la forza del film di Rosi. Cosa che pone anche un altro problema: i discorsi sul cinema che conta oggi purtroppo per la maggior parte non passano (più), salvo rare eccezioni, sulle pagine dei quotidiani. Di cinema si parla altrove. Nei festival, sulle riviste on line e fra coloro che lo fanno. E coloro che lo amano, il cinema. Solo tenendo presente questo scenario radicalmente modificato, si può contestualizzare correttamente un film come Fuocoammare di Gianfranco Rosi.
Cineasta rigoroso e solitario, avventuriero e paziente, Rosi ha girato un pugno di film ma ognuno di essi è stato in grado di ridefinire la forma documentaria. Basti pensare al salto quantico rappresentato da un film come El sicario per rendersi conto che Rosi è un cineasta a tutti gli effetti e non un banale seguace dei dogmi del cinema diretto.
Ora, senza entrare nello specifico di anni e anni di dibattiti teorici, ci limitiamo ad affermare che il “documentario” in quanto tale non esiste. Esiste solo il cinema. Ma rovesciando subito la prospettiva, il cinema nasce come “documentario”. Ed è il documentario dei Lumiere che ha inventato il mondo come lo conosciamo e lo viviamo. Filmare è ripensare, reinventare il mondo.
Rosi con Fuocoammare compie un’operazione ammirevole. Non filma l’infilmabile, come pure gli è stato rimproverato, semmai filma un mondo arcaico, ancorato nel tempo, investito da una tragedia sconfinata. Nel corso degli anni di documentari sulla tragedia dei profughi ne sono stati realizzati innumerevoli. Di ogni lunghezza e formato. Eppure, tranne rare eccezioni, nessun film è riuscito a creare un contesto profondo, filmico, come quello di Rosi all’esodo delle masse africane. Rosi con Fuocoammare ha trovato la misura filmica, cinematografica, per confrontarsi con quanto accade sulle nostre coste. Non è il “discorso” di Rosi che è “necessario” e la forma del suo gesto filmico che dice la sua necessità. Il documentario è la relazione dell’occhio che filma, del gesto che porta la macchina con il mondo che si sceglie di inquadrare. E Rosi, correttamente, si pone in relazione con un intero mondo; tenta di osservarlo in prospettiva, di vederne la storia.
Come non considerare i pescatori di Lampedusa e il piccolo Samuele discendenti diretti di La terra trema di Luchino Visconti? Non in nome di un frainteso realismo, quanto nel senso di una rielaborazione del dato del reale in cifra filmica. I pescatori viscontiani, anche se colti nel loro ambiente, non sono reali. Sono creazioni poetiche di una mente visionaria in grado di trascendere nell’atto del filmare il reale per attingere a un altro reale, un reale cinematografico, squisitamente filmico.
Allo stesso modo Rosi reinventa il dato cosiddetto realistico e lo pone in relazione non solo con quanto accade a pochi chilometri dalla costa, ma anche con la storia del nostro cinema. Samuele che mangia gli spaghetti succhiando rimanda con forza impeccabile alla fame del piccolo Scajola di Ladri di biciclette (la scena della pizzeria del film di De Sica). Il reale italiano, a partire da quello neorealista, è sempre stato una creazione filmica e Rosi si muove con grande forza in una direzione che non è mai cronachistica o succube del dogma del cinema diretto.
Si potrebbe dire per Rosi che con Fuocoammare passa dal “documentario”, inteso come forma, al realismo come creazione. In Rosi c’è la pietà per un mondo antico fatto di devozioni e riti che diventa però la porta per l’Europa delle masse africane. Un mondo che con coscienza addirittura prepolitica comprende immediatamente cosa fare e tenta di farlo anche quando non ha nemmeno i mezzi per strutturare una risposta adeguata al proprio sentire. È un film di strutture arcaiche e moderne (l’apparato s
anitario e militare) che tenta di presentarsi come forma, la forma dell’Europa dell’accoglienza, a un’urgenza umanitaria che si presenta in forme storiche assolutamente inedite. E il film di Rosi replica – in questo senso, sì – con precisione “documentaria”, il conflitto in atto; l’inadeguatezza, colta con intuizione poetica sublime, nelle parole del dottor Bartolo.
Il racconto procede a cerchi concentrici, come nel caso di Sacro GRA, con lo sguardo di Rosi che s’immerge nel mondo dei materiali di Lampedusa intuendone il ritmo nascosto. Ed è solo all’interno delle coordinate di un mondo così composto che Rosi progressivamente si avvicina a quello che è il rimosso della cronaca politica dei nostri giorni: i corpi africani morti nel cuore del mediterraneo. La pietà infinita con la quale lo scandalo dell’indicibilità della morte è rivelata, immergendosi nel ventre del barcone, folgora per la commozione dolente e la inevitabile giustezza dell’unico punto di vista possibile. Quei corpi, anche se solo per un momento, non sono i corpi degli altri: sono i corpi di un ritmo vitale che abbiamo visto e udito pulsare, intuito nell’alternarsi dei giri di luna e di sole di Lampedusa, e che adesso giacciono privi di vita. Sono i corpi che impongono un altro vedere.
La precisione con la quale Rosi mostra la strage degli innocenti è al di là di qualunque accusa di abiezione. Le sue immagini non sono quelle dell’informazione spettacolo né tantomeno quelle di una qualsiasi installazione di Ai Wei Wei. Rosi a quelle immagini ci arriva come in un viaggio. In un progressivo movimento di avvicinamento. Non a caso giungono quasi alla fine del film; come in un progressivo movimento verso il cuore di tenebra del mediterraneo.
In questo senso Rosi, nel suo recupero del romanzesco, come avviene per certi versi anche nell’ultimo film di Lav Diaz, costruisce una struttura narrativa degna di Joseph Conrad mentre l’affidarsi allo sguardo di Samuele lo avvicina addirittura a Mark Twain. Di Conrad prende soprattutto la capacità di osservare il motore economico di una comunità, mentre di Twain recupera l’approccio mitico attraverso la natura.
Per Fuocoammare di Gianfranco Rosi si possono adottare le riflessioni del compianto Gianni Rondolino su India di Roberto Rossellini: “Un cinema di inchiesta ma anche di elaborazione dei dati, di informazione ma anche di critica, di documentazione ma anche di interpretazione del reale. Un cinema che favorisce il contatto diretto tra lo spettatore e la realtà rappresentata, che tende a nascondersi dietro l’evidenza dei fatti senza tuttavia rinunciare a una scelta precisa (a una selezione del reale), che vuole operare una mediazione tra differenti esperienze e conoscenze, promuovendo il superamento degli schemi interpretativi consueti e il richiamo continuo alla realtà fenomenica”.
(22 febbraio 2016)
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.