Cinema in rivolta. Intervista a Paolo e Vittorio Taviani
La candidatura di “Cesare deve morire” agli Oscar per l’Italia non è che l’ultimo riconoscimento di una carriera lunga e straordinaria. In questa lunga intervista, tratta dall’ di MicroMega in edicola, i due celebri fratelli del cinema italiano raccontano la loro formazione, le loro vite, il loro cinema. Con una consapevolezza che li accompagna anche lontano dalla macchina da presa: “Non c’è la resa, mai. Si dice che invecchiando si è più generosi, più tolleranti. Non è vero niente. Abbiamo lo stesso istinto di ribellione di sempre”.
Paolo e Vittorio Taviani in conversazione con Fabrizio Tassi, da MicroMega 6/2012
Uomini d’altri tempi. Ma profondamente moderni (per nulla «post»). Amanti del melodramma, di Shakespeare e Tolstoj, del Rossellini-Masaccio di Paisà, di quella summa di tutte le arti che è il cinema. Tornati prepotentemente alla ribalta con Cesare deve morire, tanto per ricordarci che loro sono ancora e sempre dei «sovversivi», anche nei modi di produzione di un film. Paolo e Vittorio Taviani, 80 e 82 anni, sono i registi (tra gli altri) di Un uomo da bruciare, San Michele aveva un gallo, Padre padrone, La notte di San Lorenzo, Kaos, Good Morning Babilonia, Le affinità elettive. Sono due utopisti che parlano ancora di ribellione, ma sanno che la natura è più forte dell’uomo e non le perdonano di averci nascosto il senso di tutto questo. Hanno una serenità, una lucidità appassionata, una sensibilità, che andrebbero brevettate e poi distribuite alle generazioni che non hanno vissuto la guerra e il Sessantotto, che non hanno potuto confrontarsi con Visconti, Zavattini e Pasolini, che non hanno avuto la fortuna di sopravvivere al fascismo e alla Dc, a Craxi e a Berlusconi, nell’arco di una sola vita.
Li abbiamo incontrati nel loro studio di Roma, in Trastevere, dove abbiamo ripercorso la loro storia. Ci hanno chiesto di non distinguere le risposte di uno da quelle dell’altro, ma di considerarle il frutto dello stesso spirito («Dopo sessant’anni che facciamo le cose insieme, quello che dice lui è quello che dico io e quello che dico io è come se lo avesse detto lui»). Ci hanno chiesto di non dipingerli come dei grilli parlanti o dei registi vicini alla pensione in vena di celebrazioni. No, non lo sono neanche un po’. Se non fosse per la saggezza dovuta all’età e al mestiere, per i pensieri pieni di ricordi, sembrerebbero dei ragazzini, entusiasti e impertinenti. Chapeau.
Ripartiamo da quella sala di Pisa in cui avete visto Paisà per la prima volta.
Era una bella sala, si chiamava Cinema Italia. Oggi non esiste più. Eravamo giovanissimi, andavamo al liceo.
L’amore per il cinema è nato sui banchi di scuola.
Una volta il preside chiamò nostro padre e gli disse: «Lei ci deve rimborsare un banco, suo figlio l’ha rovinato con un temperino». Avevo inciso i nomi di Dreyer, Rossellini, Ejzenštejn…
Quel giorno, al Cinema Italia, siete entrati a metà proiezione.
Una volta era una cosa normalissima, anche se oggi a noi sembra assurdo, come fumare al cinema. L’impatto fu con l’episodio di Firenze. Paisà a tutt’oggi è un’opera d’arte a livello di Masaccio. E diciamo Masaccio perché è quello più vicino alla semplicità classica di Rossellini. Ci emozionò tantissimo. Uscivamo dalla guerra (un’esperienza che abbiamo cercato di raccontare in La notte di San Lorenzo). Erano passati solo due anni. Vedemmo quelle immagini sullo schermo e capimmo davvero quello che avevamo vissuto. Ci siamo detti: se il cinema ha questa forza, la capacità di farci capire la nostra realtà e quindi noi stessi, allora noi faremo cinema. Da quel momento tutta la nostra vita è stata proiettata verso quella direzione.
Con voi c’era anche Valentino Orsini, che sarà vostro collaboratore nei primi due film.
E c’erano anche quattro stronzi, dietro di noi, che dicevano: «Ma che è sta’ roba… Ma che, questo è cinema?». Al che ci voltammo, anzi, si voltò soprattutto Orsini che era più grande di noi, un omone forte e grosso (io pesavo 50 chili), e disse: «Questi sono i soldi, vi pago il biglietto, andate fuori che noi vogliamo vedere il film in pace». La nostra storia d’amore con il cinema è cominciata così.
Che tipo di ragazzi eravate?
Famiglia borghese, a San Miniato, cittadina stupenda ma feudale. C’erano i nobili, i marchesi, la classe dominante, e poi c’era la borghesia di cui facevamo parte anche noi. La gente del popolo non aveva nessun potere. Erano considerati quasi dei paria. Certi poveri, a San Miniato, vivevano nelle stalle. Durante la settimana c’era il giorno di ricevimento della marchesa, poi quello del conte, e la gente stava alla finestra a guardarli passare. Su tutto questo, poi, c’era il fascismo.
Nostro padre era uno dei pochissimi – si contavano sulle dita di una mano – che non prese mai la tessera. Ma i casi della vita sono sempre strani. I fascisti a San Miniato erano molto fascisti: li ricordiamo di ritorno dalla guerra di Spagna, con le fiaccole, di notte, a gridare sotto le finestre. Però il segretario del partito di San Miniato, che era di un’onestà terribile oltre che terribile come fascista, aveva studiato a scuola con nostro padre, erano amici, e gli salvò spesso la pelle. Capitava comunque che papà dovesse scappare di casa per qualche giorno. Nostra madre non ci spiegava perché andava a nascondersi. Poi, dopo un giorno o due, quando il pericolo era scampato, ci diceva: «Andate a ritirare vostro padre». A quei tempi non c’erano i telefonini. Papà si nascondeva nel campanile di don Micheletti, che tra l’altro era anche il mio insegnante di latino. Fino a quando eravamo piccoli nostro padre non ci ha mai spiegato perché lui non indossava quei meravigliosi cappelloni che invece portavano i padri dei nostri compagni. Poi, un giorno, risalendo a San Miniato, ci spiegò tutto. Capimmo perché dovevamo odiare il fascismo.
Papà era mazziniano, repubblicano, uomo di grandi valori e princìpi. Nostra madre invece era una manzoniana. Lei era la parte letteraria, mentre papà era la parte musicale. Quando è morta non ha voluto nessuna croce sul petto, ma I promessi sposi. Molti, venendola a trovare, dicevano: «Ha voluto la Bibbia!». Sì, la sua.
Prima del cinema, vi eravate appassionati al melodramma.
Se andavamo bene a scuola avevamo un premio: andare a Firenze, al Maggio musicale, a vedere le opere. Lì c’è stata la prima scoperta di ciò che è la finzione, la finzione che svela la realtà, il sipario rosso che si apre, quelle apparizioni sul palcoscenico, l’incanto. Avemmo la fortuna di cominciare col Trovatore, che inizia con una fiaba: nel buio della scena, i soldati del castello dicono che a mezzanotte forse arriverà lo spirito della strega, e tu sei lì ad aspettare i rintocchi e l’apparizione… Abbiamo scoperto il piacere dell’invenzione attraverso queste storie d’amore, d’odio, di potere, di cattiveria, di duelli. Si dipanava dinanzi a noi ciò che a quel tempo potevamo solo intui
re, il destino umano, i suoi valori, i grandi sentimenti. Papà poi ci portava il disco dell’opera che avevamo visto e cantavamo. Facevamo il karaoke [Vittorio tenore, Paolo baritono e Mariagrazia soprano].
L’opera è stata importantissima per noi. Ma una volta scoperto il cinema, abbiamo azzerato tutto (anche se il melodramma tornerà, dopo, nei nostri film). Il cinema fu una rivelazione anche traumatica. Tutta una generazione scoprì una nuova realtà, che era molto diversa da quella dell’Ottocento. Da quel momento per noi ci fu il cinema e soltanto il cinema.
All’Università di Pisa, in biblioteca, scoprimmo l’unica Storia del cinema che esisteva allora, quella di Pasinetti. Ce la siamo studiata parola per parola.
Avete trascritto quel libro un pezzo alla volta. Un lavoro da monaci amanuensi.
Era il nostro vangelo.
Ci pensate al fatto che oggi gli appassionati di cinema dell’ultima generazione hanno centinaia di libri a disposizione e migliaia di film sul computer a portata di clic?
Oggi il problema è che c’è troppa scelta. Si tratta di trovare prima di tutto se stessi e poi scegliere dei maestri come punto di riferimento.
Un altro film fondamentale per la vostra formazione è Ladri di biciclette. L’avete inseguito in giro per la Toscana.
A volte ci dicono: che cosa meravigliosa avete vissuto! L’età dell’oro! Ma che oro, nemmeno di bronzo! Noi abitavamo in provincia di Pisa. Sapevamo che davano il film di De Sica in un paesino lontano e partivamo con la nostra bici. Poi lo davano a Livorno e noi andavamo in treno. Volevamo capire. Prendevamo nota delle inquadrature, i carrelli, i primi piani. Abbiamo scritto tutto. Poi di nuovo andavamo a cercarlo e scoprivamo che il 40 per cento della struttura cinematografica l’avevamo catturata, ma il 60 per cento no. L’abbiamo raccontato tante volte. C’è quella scena, quando Bruno, il figlio, vede un ladro che sta rubando una bicicletta, e i passanti lo prendono e lo picchiano, e capisce che quel ladro è suo padre. Vedendola, noi scrivemmo: lungo carrello intorno al primo piano del bambino. Straziante. Poi siamo andati a rivederlo e ci siamo accorti che invece il carrello è brevissimo. E lì abbiamo capito che se inserisci un elemento formale giusto nel momento giusto, diventa qualcosa di dirompente.
Oltre al cinema, avete studiato anche il teatro.
Sempre in nome del cinema studiavamo i testi teatrali per imparare a scrivere i dialoghi. Noi non abbiamo frequentato scuole o centri sperimentali. Come si scrive un dialogo? Abbiamo preso l’Enrico IV di Pirandello e l’Amleto, li abbiamo letti e riletti, e poi li abbiamo riscritti. Quando poi siamo andati a confrontarli, abbiamo scoperto delle rime baciate che non avevamo intuito, o battute che ripetevano, in altro modo, lo stesso concetto di cinque pagine prima. Ci infliggemmo delle autoumiliazioni terribili. È possibile che il testo fosse così diverso rispetto a come lo avevamo trascritto? Grazie a quegli errori, qualcosa abbiamo imparato.
Torniamo a quel giovane cinefilo che ha centinaia di film disposizione. Ipotizziamo che un giorno decida di diventare regista.
Se quel giovane vuole fare cinema deve copiare, copiare, copiare. La nostra esperienza è questa. Deve prendere i 6 o 7 film che ama di più e continuare a guardarli. Coi dvd è facile. Può riguardare i film tutte le volte che vuole e poi magari provare a riscriverli, come facemmo noi con Ladri di biciclette, cercando di capire quali sono i movimenti di macchina, quando viene usata la macchina fissa, i rapporti tra macchina fissa e carrelli… Dopo che ha copiato e copiato, può cominciare a sperimentare scrivendo. Questo mestiere, che sembra un mestiere per fannulloni, in realtà è un lavoro continuo. Faticosissimo. Bisogna lavorare sempre, non solo girando. È importante provare a scrivere una storia (cinematografica), cercando di dimostrare a se stessi che siamo ciò che pensiamo di essere. È inutile dire: «Non trovo i soldi per fare un film». Va bene, continua a cercarli, intanto però devi scrivere, produrre, devi applicarti.
Ma il cinema da solo non basta. Ho provato a mettere insieme i nomi che di solito associano a voi come numi tutelari: Rossellini, Visconti, Brecht, Thomas Mann, Chaplin, Goethe, Verdi, Gramsci, Pisacane, Pollock, Tolstoj… Vi riconoscete nell’elenco?
È perfetto! O meglio, quasi. E a proposito di Tolstoj: noi ora andremo a Mosca per la promozione di Cesare deve morire, che esce in Russia. Ma abbiamo fatto una richiesta molto precisa. Abbiamo detto: veniamo volentieri, però ci dovete accompagnare a Jasnaja Poljana [la tenuta in cui visse lo scrittore russo, situata a 12 chilometri da Tula]. La casa di Tolstoj a Mosca già la conosciamo, ora vogliamo vedere Jasnaja.
Parliamo dei vostri interessi extracinematografici, così importanti per la vostra formazione.
Da ragazzi eravamo molto legati alla musica, suonavamo uno il pianoforte e l’altro il violino. Ma leggevamo anche molto. A partire dai libri della Scala d’Oro. In quei volumi c’era una cosa che non è bella ma per noi è comunque bella: le grandi opere venivano riassunte da autori bravissimi. Certi romanzi li abbiamo scoperti con la Scala d’oro. Guerra e pace (fondamentale per noi, così come Shakespeare) ce lo siamo riletti dopo molti anni, scoprendo che lo possedevamo e non lo possedevamo.
Una volta, in un’aula universitaria in cui ci hanno chiesto di parlare di cinema e letteratura, abbiamo osato dire che amiamo Tolstoj perché non ha bisogno del linguaggio. Detto così può sembrare una sciocchezza. Noi, in realtà, amiamo moltissimo la scrittura di Tolstoj. Volevamo dire che nei suoi romanzi il passaggio dalla pagina scritta alla vita vissuta è talmente insensibile che sembra quasi che non abbia utilizzato nessun mezzo. Sembra un continuum. Tolstoj ha questa forza.
Ci ha sempre affascinato una cosa che lui diceva: scrivere è come camminare. Non pensi mai che quando metti avanti la gamba destra poi devi avanzare la sinistra. Si cammina e basta. Se ci pensi, inciampi.
È facile accorgersi quando, in un film, un regista inciampa. Si nota che ci ha pensato troppo. Che il passaggio è forzato.
Sì, a volte senti lo sfogliare della sceneggiatura. Oppure c’è quella cosa che fanno spesso i giovani nelle prime opere: tengono un’inquadratura lunga, troppo lunga, pensando che così diventi più importante. Non è vero per niente.
Quando è uscita la steady [macchina da presa che, grazie a un’imbracatura, si muove insieme all’operatore mantenendo però ferma l’immagine], è stata una conquista importante, visto che permette di fare un carrello a precedere. Noi abbiamo usato molto la macchina fissa nel nostro cinema. I carrelli li abbiamo utilizzati sempre di lato, perché non puoi stare davanti, se no vedi il binario. Gli americani invece stavano frontali, perché avendo tanti mezzi, quelle gru meravigliose, realizzavano dei carrelli a precedere che noi abbiamo sempre invidiato. La steady è stata una conquista del linguaggio cinematografico. Ma quando è arrivata, c’erano giovani, esordienti o no, che facevano un’unica inquadratura: uno usciva di casa incontrava la ragazza saliva sulla metropolitana e andavano e scendevano dalla metropolitana… e «cazzo, quanto è bravo!», si diceva. No! Questa è la negazione dell’essere creativi nel cinema.
Un carrello a precedere voi lo avete fatto in uno dei p
rimissimi cortometraggi, Curtatone e Montanara. Partiva dal cortile dell’università di Pisa.
Esatto, sì. È uno di quei documentari che non riusciamo più a rintracciare. Pensa come siamo vecchi: allora il carrello non era in ferro, ma di legno massiccio. Bisognava partire e poi puntare la macchina da presa verso l’alto, in modo che non si vedessero i binari.
Vi dissero che quel documentario era troppo «astratto».
Sì. Concorreva ai premi di qualità e lo bocciarono. Per l’astrazione. E perché ci rimproverarono un «falso storico».
Succederà altre volte.
A noi ci hanno sempre affibbiato due etichette: cinema storico e cinema politico. Sono sballate tutte e due.
Parliamo dal primo equivoco. Il «cinema storico» dei Taviani.
È chiaro che ci piace la storia e ci piace nella storia trovare delle anticipazioni e delle risposte. Ci ha sempre suggestionato l’aspirazione di Pisacane all’utopia, il tentativo di cambiare la realtà sociale del Sud illudendosi di avere le forze per poterlo fare. È un po’ come il nostro cinema. Noi realizzavamo film per il pubblico. Dicevamo: il nostro cinema è un po’ come la spedizione di Pisacane, solo che ancora non ci hanno ammazzato. Pensavamo di fare cinema per il pubblico e invece il pubblico ci massacrava, perché non andava a vedere i film. Sentivamo che quello sforzo terribile che sono le spedizioni di Pisacane era uguale al nostro.
In Allonsanfan abbiamo voluto mettere le camicie rosse, in un’epoca in cui Garibaldi era ancora un bambino. Ce le siamo inventate, perché avevamo bisogno di quel segno rosso. Quando presentammo il film, un professore si alzò e disse: «Io non lo farò mai vedere ai miei studenti, perché voi avete tradito la storia». Aveva ragione dal suo punto di vista, perché lui avrebbe voluto un’illustrazione storica. Ma un film è un’altra cosa. Gli facemmo l’esempio classico di Giovanna d’Arco, dei tanti modi in cui è stata rappresentata nel cinema e nella storia. Per Shakespeare è una strega orrenda. Al cinema c’è la Giovanna di Dreyer, una fanciulla ingenua, forte, innocente, ma anche spaventata, poi c’è quella di Rossellini, che è molto diversa, e poi quella di Bresson. Qual è quella vera? Nell’arte sono vere tutte, perché chi le ha raccontate è riuscito a renderle vere. La verità dell’opera d’arte è altro. Noi non cerchiamo la verità della storia, ma la verità del film.
Secondo equivoco: il «cinema politico».
È una cosa che ci ha sempre perseguitato.
Forse anche perché avete raccontato che è stato il cinema a farvi scoprire il «mondo rosso».
È vero. Ci ha fatto scoprire un’umanità che non conoscevamo. Il neorealismo non è un cinema politico, però ci ha permesso di scoprire un mondo che da borghesi non conoscevamo, quello degli oppressi, del mondo operaio e soprattutto del mondo contadino.
Noi siamo nati in un periodo molto particolare: il fascismo, il nazismo, i partigiani, la resistenza, la ricostruzione. Siamo vissuti in mezzo al grande movimento della storia, della politica, della società.
Facciamo una citazione liceale. L’uomo è zoos politikos, è un animale politico, perché vive in mezzo agli altri e, se minimamente si relaziona agli altri, assume anche se non lo vuole un atteggiamento, un modo, un essere politico. Questo noi diciamo. Abbiamo sempre raccontato le cose, gli uomini che ci stavano intorno, noi stessi in rapporto col nostro tempo. Ognuno ha i suoi sentimenti, i suoi valori esistenziali, anche personalistici, ognuno fa le sue scelte e ha i suoi sogni, ma c’è sempre anche un momento in cui l’uomo si confronta con la società e con gli altri. Non abbiamo mai pensato: ora voglio fare un film politico per dimostrare questo o quello. Nel ’44 nel giro di un’estate si è capovolto il mondo. Dai nazisti ai partigiani e alla libertà. La realtà non è mai definitivamente chiusa. C’è sempre la possibilità che si rovesci nel suo contrario. È un’esperienza che abbiamo vissuto sulla nostra carne, perché anche noi siamo scappati sui colli, ci hanno sparato dietro, hanno ammazzato i nostri amici, abbiamo visto la sofferenza, il sangue, i morti. Tutto questo è cambiato nello spazio di pochi mesi. Nei momenti più difficili, quelli in cui sembra che la vita non abbia più un senso, e non sai più cosa ti aspetta, quando si smarrisce il significato di ciò che facciamo, ripensiamo a quell’estate. Ma non politicamente. Ripensiamo al fatto che l’umanità ha in sé questa forza di cambiare. E quindi quella memoria, quel ricordo, diventa un presente, e questo ci aiuta molto.
Vale anche per gli anni che portarono al Sessantotto?
In quegli anni fare politica significava decidere chi amare. Tutto passava attraverso il filtro politico, perché si pensava che fosse in atto una trasformazione della società. Politica significava filosofia, sentimenti, rapporti. Queste cose, e le persone con cui le vivevamo, noi le abbiamo raccontate, non perché volevamo fare un film sul Sessantotto, ma perché volevamo raccontare un’esperienza vissuta sulla nostra carne. Nei Sovversivi c’è la morte di Togliatti, ma ci sono anche i rapporti con i nostri genitori, con la nostra terra, con personaggi «esoterici», con omosessuali, addirittura uno dei protagonisti si chiama Leonardo da Vinci. Quando ci dicono che facciamo «cinema politico» ci arrabbiamo molto. Vuoi realizzare un film politico? Fai un documentario! Fai informazione! Uno di quei film che vanno fatti e subito mangiati. Ma non è quello che facciamo noi.
Perdonateci il riferimento alto: si fanno esempi massimi solo perché così ci si attacca ai grandi. Quando si parla di Dostoevskij e Tolstoj, si parla della loro religiosità. I loro romanzi, soprattutto quelli di Dostoevskij, hanno un’ideologia che è quella religiosa. Ma nessuno pensa che siano libri di propaganda religiosa. Sono libri sui grandi temi dell’uomo, della vita, della società. I loro libri non offrono un messaggio dottrinale, ma un modo per avvicinarsi al mistero del mondo.
Il «vostro» Tolstoj è privo di ogni riferimento religioso. Quando avete adattato Il divino e l’umano (in San Michele aveva un gallo) si diceva che gli atei Taviani al posto del «divino» ci avevano messo il «politico».
È vero. Anche in Resurrezione il finale di Tolstoj è molto religioso. Ed è brutto. Noi ne abbiamo scritto un altro. Secondo noi più bello.
Non vi siete mai chiesti, in quel clima politico, con quella tensione che anche voi avete sempre condiviso verso una società diversa, se il film che stavate realizzando era utile allo scopo?
No. Noi pensavamo che tutta la nostra vita fosse protesa verso il cambiamento. L’elemento utopico era sempre presente. Non pensavamo: questo film servirà specificamente a una certa cosa. Quando abbiamo realizzato I sovversivi eravamo usciti dal Pci per i fatti di Ungheria, ma eravamo sempre legati al partito. Eppure il film fu attaccato dalla sinistra. Realizzando il nostro primo film, Un uomo da bruciare, non pensavamo certo a un eroe sovietico. Già era stato detto molto su Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia. Prima di girare accadd
e una cosa che ci emozionò molto. Possiamo divagare?
Dovete!
Stavamo realizzando un documentario per il governo Milazzo sulla Sicilia. Girammo tutta quanta l’isola. Una volta incontrammo un rappresentante della camera del lavoro, socialista, in un paesino in cima a una montagna. Mangiammo insieme, e a un certo punto disse: è arrivato il momento del comizio. Andò in piazza, con tre o quattro compagni, prese una seggiola, la mise al centro, salì e cominciò a parlare. In mezzo alla nebbia. E parlava con una forza! Diceva: «Perché io lo so che voi dietro le finestre mi state ascoltando». Era vero. Ed era incredibile il coraggio di quest’uomo, in un paese di mafia.
In quel viaggio facemmo tanti incontri del genere. E tra gli altri andammo a conoscere la madre di Salvatore Carnevale. La prima donna che aveva rotto l’omertà, aveva denunciato, facendo nomi e cognomi. Pensavamo di trovare una donna grande e forte, una Paxinou. Invece ci imbattemmo in una donna piccolina, fragile, molto gentile. Ci portò al cimitero, sulla tomba di Carnevale. Avevamo una macchina da presa Ariflex, quella di una volta, senza sonoro, che mentre andava faceva cla cla cla cla. Lei si era inginocchiata, ma la pellicola finì subito, e anche il rumore della macchina. Allora si girò e disse: «Perché non va?». Caricammo un altro spezzone di pellicola, ricominciò il cla cla cla e questa donna, appena sentì il rumore, quasi toccata da una bacchetta magica, cominciò a recitare come una Medea, come in una tragedia greca, urlando «Figlio mio!», contorcendosi, picchiando i pugni sulla tomba, facendo tutto quello che all’epoca ci si sarebbe aspettati da una donna siciliana che piange il figlio morto. Finì la pellicola e, tac, lei tornò normale e ci offrì un caffè. La cosa può anche far sorridere, ma riflettendoci capimmo che avevamo assistito a una cosa rivoluzionaria: questa donna siciliana, analfabeta, aveva capito il valore del cinema nel mondo! Aveva capito che quella macchina serviva a far conoscere la storia di suo figlio, a vendicarlo.
Questa forte emozione, di ritorno a Roma, in macchina, decidemmo di trasformarla in un film. E così nacque Un uomo da bruciare, che si ispirava alla vita di Carnevale, ma con grande libertà.
Tra le altre cose lui aveva detto una battuta tipo: «Chi ammazza me è come se ammazzasse Cristo». Era anche un po’ mitomane. Uno che dava spettacolo.
Un uomo con le sue contraddizioni.
Sì, proprio così. E per interpretarlo, scegliemmo Volonté, che era al suo esordio. Realizzando quel film attingemmo anche a nostre esperienze e al Coriolano di Shakespeare. Una volta terminato, lo proiettammo alla direzione del Pci. All’epoca usava che i registi comunisti presentassero le loro opere al partito.
Finisce il film: silenzio. Non c’era Togliatti, ma Alicata, direttore dell’Unità. E c’era Antonello Trombadori, un amico, che accennò a un applauso, ma capì subito che non era il caso. A un certo punto si alza Alicata, col dito puntato, e dice: «Voi avete infangato la memoria di un uomo della classe contadina e operaia. Vergognatevi!». Disse ciò che era giusto dire dal punto di vista di una concezione ideologica che noi rifiutiamo.
Casiraghi, il critico dell’Unità, aveva visto il film e gli era piaciuto moltissimo. Ma quando la pellicola andò a Venezia, ed ebbe un grande successo, l’Unità non pubblicò la sua recensione. A Venezia c’era anche Amendola, a cui il film era piaciuto. Allora decidemmo di andargli a dire ciò che era successo con il giornale. Lo incontrammo al Lido mentre usciva dall’acqua. E lui disse: «Io non sono d’accordo con questo comportamento, ma voi commettete un errore: considerate l’Unità un giornale indipendente. Non lo è. È un giornale di partito. Se la commissione culturale ha deciso una certa linea, la linea è quella». In realtà poi andò a Roma, si incazzò e scoppiò un casino. Questo era il clima dell’epoca. Che a noi dava forza. Perché eravamo convinti che la nostra strada fosse vera, giusta, vergine, rivoluzionaria.
Voi avete spesso detto che l’utilità di un film non esiste fuori dall’efficacia del suo linguaggio specifico. Su questo ormai siamo (quasi) tutti d’accordo. Se devi raccontare il Vietnam, occorre «vietnamizzare il linguaggio del film», non fare un comizio sul tema. La cosa però non è così semplice se, ad esempio, devi raccontare Berlusconi (lo abbiamo visto in questi anni…).
Non lo abbiamo fatto e quindi non sappiamo. Ma si potrebbe metterla sul piano del tragico grottesco. È un linguaggio anche quello. Bisognerebbe utilizzare i mezzi del cinema in modo da far sprizzare fuori il grottesco dal film. Un buon esempio è Il Caimano di Nanni Moretti.
Vi sentite ancora utopisti e sovversivi? Cesare deve morire è a tutti gli effetti un film «sovversivo» per il modo in cui è stato pensato e prodotto.
Non è che uno vuole essere, uno è. Ma siamo anche cambiati, insieme alla vita. Il senso del mistero è sempre più presente. Mistero significa credere che l’umanità può avere un cammino che si oppone a un altro cammino, ma sapere anche che la forza della natura è così più grande della forza dell’uomo che non è possibile conoscere veramente il destino finale dell’umanità.
La chiamano «la religiosità dei Taviani».
Noi abbiamo cercato di trovare almeno una scheggia di senso nella vita. Forse l’abbiamo trovata. Però una bella risposta la natura non ce l’ha data. La vera ingiustizia è questa. Che ci fanno morire senza che nessuno ci abbia dato la risposta definitiva su che cos’è la vita. Dentro la complessità del rapporto tra l’uomo e la natura ci sta tutto, compresa la politica, compresa l’utopia. Tu cerchi: cosa troverai è un mistero.
Però ci credete ancora alla necessità di lottare. Di provarci.
Certo. Non c’è la resa, mai. Si dice che invecchiando si è più generosi, più tolleranti. Non è vero niente. Abbiamo lo stesso istinto di ribellione di sempre.
Poi ci sono le circostanze.
C’è l’elemento caso. Machiavelli diceva: il talento conta per il 40-50 per cento e per il resto è fortuna. È vero! Cesare deve morire è nato dal caso. Il nostro amore per il cinema, il desiderio di fare cinema, non è cambiato. È un mestiere che ci piace. Non abbiamo nessuna intenzione di andare in pensione. Fare cinema è bello per tanti motivi. A partire dalla possibilità di vivere insieme ad altre 40-50 persone, con cui sei complice nella realizzazione di un film. E nascono amicizie, innamoramenti, anche se poi quando finisce il film tutti scompaiono e il regista rimane solo col suo montaggio da fare… Avevamo dei progetti che ci sembravano importanti. Però erano troppo tradizionali rispetto al cinema che avevamo già fatto, che è poi il rischio che corri quando invecchi: la ripetitività.
Improvvisamente, in questo clima, ecco la proposta di Daniela Bendoni che da tempo ci chiedeva di andare a Rebibbia a vedere gli spettacoli teatrali messi in scena dai carcerati. Pensavamo alla solita bella filodrammatica, non avevamo molta voglia. Ma dopo un bel po’ che ce lo chiedeva, siamo andati. Non conoscevamo Fa
bio Cavalli, il regista che lavora nel carcere. Siamo andati e siamo rimasti travolti da questa realtà. Travolti non solo emotivamente come può esserlo chiunque. Travolti come chi intravede la possibilità di esprimere quell’emozione che sta provando. Abbiamo deciso che bisognava raccontare questa emozione. Ci proponevano di fare un docu-film, definizione che troviamo mostruosa. A noi non importava il come: sarà un documentario, sarà teatro, sarà finzione. Quella emozione prendeva strade diverse che non erano definibili. Ci siamo messi al lavoro e basta. E a un certo punto ci siamo accorti che stavamo girando con la stessa incoscienza, con lo stesso tono ribaldo, con cui avevamo girato i primi film.
E siete tornati a «uccidere il padre» (stavolta Cesare) un’altra volta.
È chiaro che poi riemergono i temi di tutta una vita. È riemerso anche il nostro amore per Shakespeare, per il Giulio Cesare. Lavorandoci, ci siamo accorti che avevamo già utilizzato certe battute del testo in altri film, senza citarlo, senza pensare di omaggiarlo. Ad esempio quando Bruto e Cassio prima della battaglia dicono: «Forse non ci rivedremo. Però vorrei essere a domani per sapere come è andata». In San Michele aveva un gallo, quando i rivoluzionari sono sotto il paese, dicono la stessa cosa. «Vorrei essere a domani per sapere come è andata». È tornata fuori, in tutto quel marasma, con l’emozione che ci davano quelle facce, quei carcerati.
Ci siamo ritrovati ad affrontare di nuovo le orazioni di Bruto e Marco Antonio dopo 500 anni che questa cosa viene rappresentata, dopo Marlon Brando. Ci dicevamo: ma siamo matti! Siamo diventati pazzi! Eppure. Abbiamo scelto quel campo lungo sul campo di basket bruciato dal sole e quei due attori, che ci hanno fatto commuovere, perché ci si commuove quando si gira un film. Quando Salvatore Striano, Bruto, dice «Per questo io l’aggio acciso» abbiamo visto qualcosa nei suoi occhi. Non è che sia più bravo di Marlon Brando. È certamente un attore di talento, ma in lui, nel suo sguardo, c’è una verità in più: dice qualcosa che ha visto davvero, un mondo che lui conosce. E questo è accaduto anche con gli altri attori. Ecco cosa ci ha travolto, ed ecco, probabilmente, cosa ha travolto anche il pubblico.
Bruto non era un pretesto per dire qualcos’altro. Noi volevamo raccontare davvero il dramma di Bruto. E mentre lo raccontavamo, ci siamo resi conto che stavamo raccontando anche il dramma di chi lo interpretava. Il pubblico ha avvertito questa cosa. È stato l’incontro di queste due tragedie a creare quella forza.
Qualche giorno fa ci è arrivato il messaggio di un frate. Diceva: insieme a un confratello ho portato dieci seminaristi a vedere il film e abbiamo pianto molto. Quando siamo tornati, non siamo andati a dormire. Abbiamo voluto vegliare tutta la notte e pregare per voi, per tutti coloro che hanno realizzato questo film.
E tutto questo dopo un periodo in cui avevate ricevuto anche tante critiche per le vostre esperienze televisive.
Uno di quei lavori televisivi non lo amiamo per niente: la Luisa Sanfelice. Ma Resurrezione, ad esempio, era venuto bene.
C’è chi, a questo proposito, ha ritirato fuori Rossellini e la sua scommessa sulla televisione come strumento per diffondere conoscenza. Forse erano altri tempi. Ed era un’altra televisione.
Noi ci abbiamo creduto in quella cosa. Quando abbiamo fatto Resurrezione ci siamo detti: è uno scambio. Ma non andiamo a infilarci di nuovo nella discussione sulle differenze tra cinema e tv.
Dopo che Cesare ha vinto a Berlino, la televisione è tornata a cercarvi.
Ieri sera per strada ho incontrato un bambino con un cane, che mi ha detto: «Scusi, ma lei è uno dei fratelli Taviani?». «Sì». «Ah, allora auguri!». Un bambino mai visto. È l’effetto della tv. Poi dopo 20 giorni ti cancellano… Succedono cose strane in questo periodo. Tempo fa ci ha telefonato un signore che non conoscevamo: ha detto che dopo aver visto il nostro film ha deciso di mettere la bandiera italiana sul balcone. Ora siamo diventati anche patrioti.
Ci andate ancora al cinema? C’è qualcosa che vi ha colpito di recente?
Non vorremmo fare nomi, perché poi ci dimentichiamo sempre qualcuno. Il cinema italiano è vivissimo, pieno di talenti, ma è bloccato dalla situazione economica e da come è costruita la produzione e la distribuzione. Lo sappiamo. In Francia, ad esempio, è diverso.
Il problema è che questa coercizione dal punto di vista produttivo fa sì che nasca un prodotto medio, realizzato da gente che sa girare bene, con attori che recitano tutti bene, ma in cui tu puoi entrare in un cinema, uscire, andare in un’altra sala e avere l’impressione di vedere sempre lo stesso film. Mi rendo conto che questa è una cattiveria.
È la realtà.
Ma in fondo è sempre stato così. Quando siamo arrivati a Roma c’era un modo di fare cinema che andava per la maggiore e che non potevamo certo amare. C’è sempre stata questa bassa marea.
E il tentativo di creare dei filoni commerciali, o anche autoriali.
Dopo il successo di Padre padrone ci arrivarono diverse proposte di produzione dall’Italia e dall’estero: mamma mammona, figlio figlione, tutte storie di conflitti famigliari. Quattro o cinque proposte di questo tipo. Strana storia anche quella di Padre padrone, altro film nato dal caso, dall’incontro con Gavino. Dicono che è stato visto da un miliardo e mezzo di persone nel mondo. Nel Sessantotto si voleva usare un linguaggio violento, cattivo, che doveva essere un pugno in faccia allo spettatore addormentato. Si diceva: lo so che è un pugno, lo so che fa male, ma intanto vi scuote. E invece è arrivato quel successo planetario. Quando sai che un miliardo e mezzo di persone ha visto un tuo film, non è che cambi il modo di fare cinema, anzi, il tuo rigore aumenta, ma cerchi di avere una maggiore trasparenza, così che il tuo rigore arrivi in modo più diretto. Da lì è nato quello che chiamano il nostro cinema dell’affabulazione. Il tuo essere autore vive del tuo rapporto con gli altri. E fortunatamente si cambia, altrimenti la vita sarebbe noiosa, sempre uguale. C’è sempre un continuo scoprire, sbagliare e trovare.
Chiudiamo con una domanda «politica». Cosa pensate della situazione che stiamo vivendo in Italia? Sembra di stare ancora all’inizio dei Sovversivi: «Che cosa farete adesso poveri gattini ciechi?». Navighiamo a vista.
Non abbiamo soluzioni. Ma una cosa possiamo dirla. In fondo stiamo parlando di 70 anni di vita di un popolo. Non sono tanti. Anzi, sono proprio pochi. Prima c’era il fascismo e lì c’è stato un grande passaggio. Dopo di che, negli ultimi 70 anni abbiamo vissuto un’avventura molto simile. Una volta si diceva, non si sa bene a chi: «Ti prego non farmi morire democristiano». E poi: «Non farmi morire craxiano», «Non farmi morire berlusconiano». È una cosa che si ripete, ciclica. Siamo vissuti in questo dramma continuo di qualcosa che non riesce a imporsi, come invece sembrava dovesse accadere nei primi anni del dopoguerra, nel momento della ricostruzione e della Costituzione. Per il nostro popolo è una vita difficile e dura. Ma in maniera forse ingenua e innocente, noi pensiamo che non è mai finita. Il nostro conflitto con Pasolini, quando ci siamo incontrati, era proprio
su questo. Lui diceva: «È la fine del mondo». Noi invece dicevamo: «È la fine di un mondo», per quanto tragica. Ecco la risposta. Magari ci rideranno dietro per questa battuta, ma a noi sta ancora bene: liberté, égalité… fraternité solo nel cinema.
(26 settembre 2012)
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