Cinema: “La mafia non è più quella di una volta” di Franco Maresco
Flavio De Bernardinis
Sullo schermo appare un uomo tarchiato, capelli neri, lunghi e arricciati, uno dei tanti che rispondono alle tendenziose domande di Franco Maresco ne “La mafia non è più quella di una volta”. Maresco lo incalza: “Mi perdoni, ma sa che lei assomiglia proprio a Tommaso Buscetta!?”. Risoluto l’uomo risponde: “A Buscetta? No! A Maradona…”.
Qui si misura la convergenza e insieme la distanza tra “Il traditore” di Marco Bellocchio e questo ultimo film di Franco Maresco. Se Bellocchio fruga e scruta la contraddizione all’interno dell’inamovibile edificio mafioso, l’uomo medio italiano, tutto onore e famiglia, Maresco fa dell’edificio, la “cupola” di Giovanni Falcone/Tommaso Buscetta, lo stadio, o meglio il centro commerciale della contraddizione.
Perché la mafia non è più quella di una volta? Perché oggi anche la mafia è un brand. Una griffe, una “firma” sul mercato. E brand devono così apparire Falcone e Borsellino, stampati su t-shirt e festoni, su fogli e teli. La contraddizione che Maresco mette in scena come nessuno quindi risuona: lo Stato, che a propria volta riproduce l’icona “Falcone e Borsellino” facendola circolare come “firma” della legalità, partecipa del brand?
In ogni modo, ciascun brand, immesso sul mercato, icona suprema di supreme promesse, è la cinghia di trasmissione del desiderio. Desiderio di legalità, Falcone e Borsellino: a specchio, legalità del desiderio, la mafia. L’onore degli uomini, ossia la società civile/Stato, che si manifesta sotto l’icona dei giudici eroi, e gli uomini d’onore, ovvero l’associazione a delinquere, che si assesta accanto all’icona degli eroi giudici.
La circolarità del brand e del desiderio è ormai integrale. Falcone e Borsellino possono essere ovunque, anche nei meandri del quartiere “infernale” dello Zen, luogo che la camera di Maresco puntualmente raggiunge, là dove i cantanti neomelodici palermitani esibiscono il concerto proprio per loro, gli eroi giudici, “che il Signore li ha chiamati a sé”.
A poco serve la frontalità con la quale Maresco cattura le testimonianze di uomini e donne, perché ciascuna dichiarazione vale non per ciò che dice/non dice, ma come immagine del desiderio nel labirinto del brand. La stessa voce di Maresco non è guida alla visione, ma eco, o rimbalzo, di una traiettoria dello sguardo sempre rimandata, rivoltata o sterzata: tentare di osservare e capire, nel labirinto, la logica implacabile del capitalismo, all’insegna della tautologia. Perché non si sfugge: il brand è il brand, il desiderio è il desiderio.
Maresco filma la tautologia attraverso la figura artistica dello specchio. La cerimonia in onore e ricordo di Falcone e Borsellino si sdoppia in una versione diurna e in una versione notturna. Quella di giorno, dove partecipa la società-civile, insinua Letizia Battaglia, grande fotografa di tante battaglie, è simile a una “sagra”. L’altra di notte, in cui si manifesta la società-in-civile, è esplicitamente una sagra. Lo sdoppiamento in realtà è una tautologia: nel labirinto del capitalismo, le due cerimonie risultano a specchio, due sagre, perché improntate al medesimo brand, Falcone e Borsellino, che la società, in entrambe le versioni, quella “buona” e quella “cattiva”, identifica come luogo del desiderio.
Il tema centrale de La mafia non è più quella di una volta è così il tema cruciale dell’Italia contemporanea, ovvero la fine della differenza. Nel momento storico, che Maresco filmando ancora non poteva prevedere, in cui è stato soddisfatto e consumato il grande desiderio contemporaneo della società civile, all’insegna di un altro brand image, ossia il connubio PD/5stelle: il desiderio, persino spasmodico, di riunificazione dello sdoppiamento, coniugare società civile e casta politica, in modo che la prima curi e sani la seconda, e la seconda istruisca e professionalizzi la prima.
Tutti i personaggi del film, dall’indomabile testimone/fotografa Letizia Battaglia all’inossidabile imprenditore di feste di piazza Ciccio Mira, sono le figure di una società civile sperduta nel labirinto capitalistico del brand. Dove verità e menzogna, buona e cattiva fede, si sciolgono e si confondono l’una nell’altra. Qui interviene la logica capitalistica del desiderio. La mafia non è più quella di una volta, perché Ciccio Mira, evidentemente “autorizzato”, può organizzare un concerto in onore di Falcone e Borsellino al quartiere ostile dello Zen. Se alcuni personaggi minacciano velatamente il suo socio in affari, durante l’esibizione dei cantanti neomelodici, si ha l’impressione che non siano emissari di entità superiori, ma semplici cittadini “indignati”. Se alcune canzoni scritte ad hoc per gli eroi giudici vengono sostituite con più riconoscibili motivi tradizionali, tuttavia il palco sormontato dall’immagine di Flacone e Borsellino sorridenti viene eretto e intatto rimane fino all’esplosione dell’ultima nota musicale.
Il film, nell’ ultima parte, si conclude allora giustamente sulla raffigurazione di un altro fortissimo brand image, ossia la sentenza di tribunale, protagonista il pm Nino di Matteo, in cui si dà ufficiale conferma della trattativa Stato/mafia. Un desiderio fortissimo di identificazione e riconoscimento che la società civile ha sempre coltivato per sé, e che il cinema ha più volte sfiorato, non ultima la sequenza, onirica (ma si sa, i sogni son desideri), del bacio tra Andreotti e Riina ne Il divo di Paolo Sorrentino.
Il film di Maresco completa e rovescia davvero quello di Marco Bellocchio. Lì la società civile era tutta racchiusa, e spremuta, nella figura di Tommaso Buscetta “uomo medio”, dedito alla “famiglia”, in tutti i sensi possibili. Qui la società civile si apre, esprimendosi, alla diligente e consapevole consumazione del brand. ovvero i “giudici eroi” e lo “Stato complice”, espressioni linguistiche che possono valere sia per la società buona, diurna, che quella cattiva, notturna, all’insegna del reciproco riconoscimento. Sul palco dello Zen, un cantante neomelodico intona che Falcone e Borsellino “li abbiamo uccisi noi”. Ed è vero: noi che sapevamo da sempre che Andreotti e Riina si fossero effettivamente “baciati”, e insieme i protagonisti effettivi del bacio stesso, siamo “noi” che abbiamo ucciso i due giudici eroi.
Le due società, ecco la contraddizione intrisa di desiderio, si riuniscono finalmente, all’insegna della tautologia prodotta dal brand, ossia dalla logica ferrea del capitalismo per cui, con facile gioco di parole, quello che è stato è Stato.
Sì. Quello che è stato è Stato, e adesso è possibile ricominciare davvero. Adesso, fuori dal film, ma assolutamente dentro il cinema che Franco Maresco caparbiamente manifesta, si può adempiere all’estremo desiderio, c
he la società civile si contamini finalmente con la politica, ovvero che i 5stelle, il “diurno”, e il PD, il “notturno”, si desiderino e si riconoscano. Il brand image dei nostri sogni: che infine tutti i “puliti”, come si deve, si sporchino un poco, e quelli dalle “mani sporche”, come si può, si ripuliscano il necessario. Anche qui il brand funziona, la doppia società, si ricompone: nel luogo in cui il capitalismo può realizzare finalmente il suo più bruciante desiderio, annullare i concetti di destra e sinistra.
E a proposito di brand, è assolutamente giusto e importante, come La mafia non è più quella di una volta sia distribuito dall’Istituto Luce di Roberto Cicutto, perché, oltre al riconoscimento artistico veneziano, se c’è un film civile e di servizio, ebbene eccolo qui, lo è proprio quest’ultimo grande film, ideato e diretto da Franco Maresco.
(17 settembre 2019)
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