Cinema: “L’altra Heimat – Cronaca di un sogno” di Edgar Reitz
Giona A. Nazzaro
Un prequel, per utilizzare il linguaggio corrente. Eppure non è strettamente necessario conoscere le “puntate” precedenti per gioire di questa magistrale lezione di cinema che è L’altra Heimat – Cronaca di un sogno.
Edgar Reitz mette mano per la prima volta al monumentale progetto di Heimat (Patria) nel 1984, più di trent’anni fa. Il primo capitolo, Eine deutsche Chronik (Una cronaca tedesca), presentato alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, ottiene il premio Fipresci e, nell’arco di undici episodi, copre un arco temporale che si estende dal 1919 al 1982. Nove anni dopo, Reitz realizza le tredici puntate di Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza che copre il decennio che dal 1960 giunge al 1970. Undici anni dopo, con i sei episodi di Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale, abbraccia la Germania nuovamente unificata dopo la caduta del muro di Berlino accompagnandola sino alla soglia degli anni Zero.
L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, può essere considerato correttamente l’antefatto della trilogia. Il suo prequel, appunto. Un prequel che può essere fruito anche come film a se stante, isolato dal contesto monumentale della trilogia che lo precede.
Ciò che sorprende immediatamente de L’altra Heimat – Cronaca di un sogno è la straordinaria forza e potenza delle immagini. Non la solita ricercatezza pompier dei cineasti giunti al crepuscolo della loro carriera che esibiscono i muscoli della confezione per dimostrare d’avere ancora frecce all’arco del loro sguardo. No. Reitz possiede, ancora miracolosamente intatta, un’inquietudine adolescenziale. Un’urgenza del fare in grado di dialogare, magistralmente, con una meticolosa sapienza nell’organizzare la materia, non solo narrativa, e che non diventa mai – mai – mero esibizionismo virtuosistico.
Di ritorno nello Hunsrück, massiccio della Renania-Palatinato e della Saarland, delimitato dalle valli fluviali della Mosella a nord, del Reno a est, della Nahe a sud e della Saar a ovest, Reitz compone una vera e propria sinfonia per immagini. Regione dominata da un clima continentale, prevalentemente piovoso e freddo, piena di foreste, retta da un’economia prevalentemente rurale, nell’immaginario di Reitz rappresenta non solo un evidente vincolo autobiografico, ma soprattutto una sorta di caverna platonica nella quale si possono discernere le ombre e la danza del futuro. La culla delle cose ancora da venire.
Senza contare i vincoli autobiografici che legano il regista alla regione.
Se il romanzo, stando alla celeberrima definizione di Hegel, è l’epopea della borghesia, allora il cinema è, senz’ombra di dubbio, il trionfo del ventesimo secolo, il luogo-narrazione stesso del Novecento.
Prendere posto di fronte allo schermo per vedere L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, è come ricollocarsi di fronte a un’idea del mondo e del cinema arcaica eppure misteriosamente ancora potentissima. Come se il treno dei Lumiere fosse appena entrato in stazione.
Reitz lavora con l’entusiasmo di chi ha il privilegio di manipolare una forma d’arte ancora giovane.
“Il cinema ha poco più di cento anni”, ci ha raccontato nel corso di una serata trascorsa in sua compagnia. “Per un uomo è abbastanza facile vedere in una vita normale tutti i film più importanti espressi da questa arte. Cosa che non è possibile fare, invece, con la pittura o la letteratura”.
Ed è proprio questo sentimento di contemporaneità della storia del cinema, uno degli aspetti più forti ed emozionanti del suo fluviale film che scorre con l’irruenza, la forza e l’energia di un mediometraggio nonostante i quasi 240 minuti di proiezione (ai quali, a dirla tutta, avremmo aggiunti volentieri altri 300…).
L’altra Heimat – Cronaca di un sogno interpella tutta la storia del cinema in una dimensione assolutamente non cinefila né tantomeno feticista. Reitz dialoga con i testi, meglio, con una tradizione testuale come se questa fosse – e lo è – interlacciata e interfacciata con la storia del nostro presente (semmai sono gli altri ad essersene dimenticati).
Con l’aiuto del direttore della fotografia Gernot Roll e dell’operatore steadycam Michael Praun, Reitz ha dato vita a un mondo organico, non a una ricostruzione scenografica.
Nel film sembra di cogliere il battito del cinema di Pudovkin e Dovženko. La solenne maestosità contadina del cinema sovietico post-rivoluzione sospeso pànicamente fra terra e cielo. La libertà della sua macchina da presa nel tracciare sinuosi piani sequenza, che inevitabilmente evocano Béla Tarr, ma rimandano ancor di più, soprattutto verso il finale, quando le carovane dei contadini s’intersecano all’orizzonte, alle geometrie di Miklos Jancso, non ha eguali nel cinema contemporaneo.
Le modalità attraverso le quali Reitz cala i corpi nel paesaggio, oppure organizza i primi piani quando più personaggi si ritrovano ad affollare il perimetro dell’inquadratura, rimandano alle strategie di un cinema schiettamente epico che pur non dimenticando mai che quanto si vede sullo schermo è il risultato di un lavoro, conferisce a essi la dignità di un vero e proprio “Sitz im Leben”, ovvero traduce alla perfezione l’ambiente nel quale il testo è cresciuto, fornendone così la chiave per comprenderlo.
La costante proiezione del protagonista verso un altrove, identificata con la lingua degli Indio, il desiderio di una fuga sempre negata, è la presenza di un tedesco anomalo come Werner Herzog, fanno di L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, un trattato cosmogonico su ciò che significa essere tedeschi oggi.
E che questo avvenga proprio quando l’Europa – e la Germania in testa – chiedono alla Grecia il conto delle politiche neoliberiste che l’hanno messa in ginocchio, è un elemento nient’affatto trascurabile.
L’altra Heimat – Cronaca di un sogno racconta, fra le altre cose, di quando i tedeschi erano poveri, di quando la Germania era stretta fra miseria, povertà e mancanza di qualsiasi ipotesi e prospettiva di futuro. Una Germania lontana solo tre generazioni da quella attuale ma tre generazioni che sembrano essere distanti anni luce da quella descritta nel film di Reitz.
E in questa vertigine storica, il titolo, L’altra Heimat (ossia l’altra patria) assume le coloriture di una Sehnsucht (traduzione letterale nostalgia, ma la polisemia del tedesco resta imprendibile) che cortocircuita distanze e desiderio.
Ed è in questo vortice-vertigine che Jakob, il protagonista, si eleva alla quintessenza degli eroi reitziani. Ancorato alla forza di gravità di un qui ed ora implacabile, si tende sino all’infinito. In una tensione ideale e utopica tanto più generosa e violenta in quanto radicata ineluttabilmente nel suo esserci storico. Nel saggio Del tragico, Karl Jaspers afferma: “La molteplicità del vero, la sua non-unità, è la scoperta fondamentale della coscienza tragica”.
“La coscienza tragica non può approfondirsi senza che l’uomo divenga più grande”, afferma ancora Karl Jaspers. “Non essendo Dio, l’uomo &egra
ve; piccolo e va in rovina; ma il fatto ch’egli spinga all’estremo le sue umane possibilità e s’infranga consapevolmente contro di esse costituisce la sua grandezza”.
L’altra Heimat – Cronaca di un sogno ci sembra si tenda perfettamente nell’arco di un sentire schiettamente tragico così come l’ha delineato Jaspers. E che questo si sposi ad una forma filmica così modern(ist)a non è la minore delle sorprese e delle meraviglie di un film davvero memorabile.
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UN’EPOPEA CINEMATOGRAFICA
È passata solo una settimana dalla fine delle riprese. Sono in sala di montaggio col mio montatore Uwe Klimmeck. Ancora una volta, do a me stesso le risposte a questa domanda: “Perché il film si lascia scappare tante occasioni di drammatizzazione?”. Di fatto, so benissimo di rifiutare questo modello del cinema “che vi tocca nelle viscere”, questa drammaturgia del suspense che si ritrova nella maggior parte delle produzioni, e dalla quale mi sono tenuto lontano per tutta la vita.
Gli strateghi della drammaturgia ad effetto fanno passare i loro concetti prima delle immagini della vita e rimandano la realtà all’ambito del banale. Sono decenni che me ne infischio completamente di sapere quali successi si possono ottenere con questi metodi. Quello che mi interessa è completamente diverso: il cinema è per me una “scuola di sguardo”. Una scena di film riuscita ci fa capire che inganniamo i nostri occhi ogni giorno e in ogni situazione della vita. Ciò che fa veramente agire la gente, non lo si vede mai, o lo si vede molto raramente. Che sia nelle famiglie, nelle imprese, nella politica o anche nell’amore, le giornate scorrono meglio quando le persone nascondono i loro veri motivi ed evitano per quanto possibile qualsiasi drammatizzazione. Vedo in questo l’espressione di una saggezza di vita, perché è così che la vita resta possibile, anche nelle contraddizioni violente. Allo stesso modo, in questo Schabbach del 1840 che descrivo, la gente non mostra ciò che succede dentro di sé. Al contrario, evitano al massimo la drammatizzazione.
Perché – ci si potrebbe chiedere – il film non usa la rivalità dei due fratelli per Jettchen per farne una storia di contesa mortale che eppure sembra così evidente? Perché la madre non muore per via del suo attacco il giorno della grande partenza, cosa che renderebbe più drammatica la scena degli addii? Perché il padre non picchia suo figlio al punto di renderlo infermo sin dalla prima sequenza, il che renderebbe ancor più scandalosa l’ingiustizia subita da Jakob?
Potrei citare migliaia di occasioni in cui la drammatizzazione mi spalancava le braccia e dove mi sarebbe solo bastato buttarmi ci al volo per fare il film che i drammaturghi accademici avrebbero accolto con gioia. Ma perché non lo faccio? La risposta è semplice e mi ha accompagnato per tutta la vita: perché con i miei film voglio imparare a capire meglio la vita reale. Ciò che conta di più, per me, è l’osservazione esatta, la conoscenza degli uomini e dei loro comportamenti. So, semplicemente, come si sistemano le cose in una famiglia contadina dell’Hunsrück. Lì non funziona come al cinema o come nella psicanalisi. Questa gente segnata dalla miseria vera e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza vive le storie d’amore, la sete di conoscenza, le rivalità tra fratelli come “problemi di lusso”, dei quali si può fare ameno.
La malattia mortale della madre o quella di un bambino minaccia l’intera famiglia, e ogni ora guadagnata in cui il malato è ancora vivo e può lavorare, conta. Ecco perché non faccio morire Margarethe, ma, al contrario, la faccio rialzare e andare a lavorare nella stalla. Ecco perché non consento al film, in quel momento, di finire più velocemente, perché la vita stessa non permette che le cose succedano diversamente. Perché lo zio simpatico muore così presto e in modo così poco spettacolare? Perché il suicidio del padre di Jettchen è così poco drammatico? Perché durante le nozze, non si presta quasi per niente attenzione all’apparizione e poi alla scomparsa di Jakob? Perché Gustav non finisce il suo lavoro sulla macchina a vapore? Perché Jakob scappa quando Humboldt arriva? Perché Olm abbandona le sue aspirazioni rivoluzionarie e finisce semplicemente con l’emigrare? Perché la lotta di Lena contro le zizzanie sulle religioni non è più sviluppata? Se qualcuno dieci volte più furbo di me sostenesse che non ho pensato a tutto questo, mi arrabbierei tantissimo. Per me le lezioni della vita sono sacre, e troverei imperdonabile sacrificare alla drammaturgia del cinema commerciale queste verità per la rappresentazione delle quali mi batto.
Rivendico il diritto di introdurre il racconto epico al cinema, anche se per questo devo stancare un po’ un certo numero di spettatori. So che molta gente non va al cinema e non guarda neanche i programmi di intrattenimento in televisione, perché pensano che sia una perdita di tempo con i problemi che ci sono ndella vita che ci sono. È pietoso che si sia arrivati a questo punto. E questo è legato al fatto che al cinema, la vita si incontra solo di rado. Non voglio sembrare qui un puritano, perché riconosco molto volentieri il mio gusto per i piaceri dei sensi – e, prima di tutti, per la bellezza delle immagini! Ma nel nostro film c’è una frase che è sempre interpretata come uno scherzo mentre esprime la mia professione di fede solenne nei confronti della verità. È la frase di Jakob: “Gli indiani non lo fanno”. Lo dice a Jettchen quando lei poggia il braccio sulla sua spalla e contemporaneamente propone a me, narratore e regista, di sistemare una focosa scena d’amore puberale di notte, sulla riva della Mosella. Ma gli indiani non lo fanno! Il regista, in quel momento, è anch’esso un indiano. Un ragazzo dell’Hunsrück come Jakob sente in modo molto netto le frontiere reali della sua vita. Quindi quella scena non si sarebbe potuta svolgere altrimenti.
Già sin dai miei primi film ero circondato da consiglieri che, con una bella regolarità, mi mettevano sotto il naso le occasioni drammaturgiche e mi spingevano a coglierle – per amore di un maggior successo pubblico. E poi non potevo far altro se nonche seguire la strada delle ambivalenze e delle contraddizioni. Per amore della verità? Forse anche perché sentivo che in questo campo della drammaturgia ad effetto altri registi erano più dotati e più privi di scrupoli di me. Seguivo il mio talento, tutto qui. E questo talento risiede nella forma epica, nella relazione tra storia individuale e grande storia. È in HEIMAT che questa strada mi è stata chiara per la prima volta. Il mito è nato dall’uguaglianza tra la descrizione dei personaggi e la descrizione degli eventi storici. In questo quadro, una relazione extraconiugale non scatena un dramma, perché un dramma più importante, la guerra, si è abbattuto sugli uomini. Ma la pioggia di bombe su Berlino non è più determinante della storia della vecchia prostituta che riesce, nel bel mezzo di un bombardamento, a parlare per l’ultima volta al suo fidanzato morente.
DIE ANDERE HEIMAT (L’altra Heimat) obbedisce allo stesso modo al principio narrativo epico: l’emigrazione, in quanto grande movimento storico, attraversa tutto il film e non &egrav
e; utilizzata come elemento decorativo o sfondo. La storia di Gustav e Jakob raggiunge questi elementi storici. Perché lascio che Jakob accompagni il convoglio? Perché non ci sono più conflitti prima della partenza? Perché la madre, gravemente malata, è seduta in cortile e sorride, nel momento degli addii? Ovvio che conosco tutti i mezzi per forzare una storia! Ma mi sarei considerato come un falsificatore e un truffatore e un comico se avessi messo in scena un conflitto – anche giusto – in quel momento. Le immagini del grande convoglio sono immagini storiche che devono ricordarci che tutte queste persone non sono più di questo mondo da tempo. La certezza della morte – me ne rendo conto sempre di più, a forza di raccontare questa storia – aleggia su tutti i personaggi e tutte le immagini. Ed è questo che dà loro la bellezza, il pathos ed è anche una verità cinematografica che rivendico!
(31 marzo 2015)
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