CINEMA: “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli

Anna Maria Pasetti



Autonoma nel giudizio, emancipata nel pensiero e consapevolmente contraddittoria nelle scelte personali. La coscienza di Eleanor “Tussy" Marx vibrava di limpida complessità, donna dentro al suo tempo ma rispetto ad esso profetica per nota eredità paterna. La figlia minore del sommo filosofo, nata e vissuta in Inghilterra per quasi tutta la vita, portava infatti in dotazione genetica le stigmate del progresso squisitamente umanista (e socio-economico in termini filosofici) di Karl ma in forma estesa ed articolata sui vari “fronti” sociali, a partire da quello femminile in materia di diritti. Ed è proprio sulla linea sottile che separa la sfera pubblica da quella privata nella condizione della donna nord-europea ottocentesca che s’innerva lo sguardo di Susanna Nicchiarelli nel suo tratteggio cinematografico di “Miss Marx”. Una figura straordinariamente variegata di chiaroscuri che non poteva sfuggire all’attenzione della cineasta romana, giunta al suo quarto lungometraggio di finzione, e ab origine interessata alle pieghe del fuori campo nelle esistenze di donne radicalmente moderne, necessariamente incongrue e contraddittorie, vittime e carnefici alternativamente di sé o di altri.

Se l’artista musicale Nico, a cui Nicchiarelli ha dedicato nel 2017 “Nico, 1988” vincendo come miglior film nella sezione veneziana di Orizzonti, soffriva intimamente della propria incapacità di crescere il figlio della cui morte peraltro si considerava colpevole, la colta Eleanor si tormentava per la propria fragilità di fronte all’amore verso un uomo sbagliato, parassita e infedele. Il parallelismo fra queste due figure femminili a loro modo estreme, entrambe realmente esistite e tragicamente morte prematuramente, è naturale e molto ci rivela degli universi sondati da una filmmaker colta e avvertita come Susanna Nicchiarelli, che ricordiamo laureata in filosofia con dottorato alla Normale di Pisa, diplomata successivamente in regia al Centro sperimentale di cinematografica e agli esordi collaboratrice di Nanni Moretti.

Laddove Nico nascondeva sotto la voce possente e un look aggressivo (sopra un corpo segnato di trascuratezza negli ultimi anni) il suo dolore acuto, Eleanor detta Tussy celava sotto l’austero aspetto vittoriano un ardore rivoluzionario, mai tradito dagli occhi accesi su un’intelligenza aperta, curiosa del mondo e delle sue novità. E se la musica era la valvola di pubblico sfogo per Nico, la letteratura a lei contemporanea (fu la prima a tradurre in inglese Madame Bovary, a scrivere un pamphlet che modificava il finale di Casa di bambola) era la luce attraverso cui Eleanor osservava e (si) traduceva: non a caso scelse di sposare il divorziato attivista comunista e drammaturgo Edward Aveling che rispondeva “sulla carta” ai suoi ideali. Peccato l’uomo riempì di tossicità la relazione, evidenziando la polarizzazione comportamentale di Miss Marx fra la sua vita pubblica e quella privata.

Come si anticipava, dunque, è su tale polarizzazione che Susanna Nicchiarelli informa il ritratto della giovane Marx, contaminandolo audio-visivamente di significanti coerenti al suo character, qui inteso sia come personaggio che carattere: in esso coabitano le criticità di un animo geneticamente sovversivo dentro alla fragilità di un corpo che desiderava solo essere amato. In tal senso la giustapposizione fra il rigore nella ricostruzione storica e scoppiettanti elementi pop, che arrivano alla “rottura” delle regole del cinema classico con l’estrema ratio dello sguardo in macchina ad interpellare vigorosamente lo spettatore, non stride, ma anzi mette in campo l’organicità di un testo allineato al tessuto esistenziale della protagonista.

Il crescendo del successo pubblico della donna fa da contraltare alla sua tragedia privata ed è ben veicolato nel film su un finale dove l’auto-esibizione nel senso etimologico di uscita da sé esprime il ricongiungimento della giovane con la propria identità profonda, originaria. Miss Marx infatti, secondo Nicchiarelli, non poteva che essere una romantic-punk inside, uno spirito wild capace di rientrare istantaneamente nei ranghi del rigore laddove la formulazione della “giustezza” dei diritti sociali e civili è richiesta. Ed è assai appropriata la scelta di un’interprete versatile come la britannica Romola Garai dal volto e dal corpo mutevolmente antichi e moderni in un battito d’ali. Insieme hanno studiato in profondità gli scritti e gli epistolari di Tussy elaborando su di lei un portrait quasi archetipico e che di certo resta nella memoria. Con questo suo quarto lungometraggio appassionato e spericolato nella forma – imperfetta ma ricca di idee – la sceneggiatrice regista sembra confermare una cifra stilistica precisa verso un cinema mai derivativo, bensì libero e coraggioso di guardare in faccia al proprio pubblico accendendone domande e stimolandone lo stupore.

(16 settembre 2020)





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