“Pasolini” di Abel Ferrara

Giona A. Nazzaro

Un progetto coltivato da moltissimi anni, questo Pasolini secondo Abel Ferrara. Un film che il regista ha visto concretizzarsi sempre di più man mano che la frequentazione con Roma si è andata intensificando.

Pasolini vede la luce quando il cinema ferrariano ha raggiunto ormai un grado di libertà formale talmente radicale da rendere lontanissimo il ricordo delle luci stilizzate di Bojan Bazelli e di film come China Girl, King of New York o Ultracorpi – L’invasione.

Il cinema di Abel Ferrara, nel rispetto dei codici di genere e produttivi, è come se nascesse già compiutamente manierista. È la violenta visceralità del suo sguardo e del suo approccio alla materia del noir a scavalcare la forma al punto da incrinarla e a insinuare che anche in opere non perfettamente bilanciate come Fear City pulsasse dell’altro.

Quest’equilibrio fra forma e performance giunge al suo primo entusiasmante punto di rottura con Il cattivo tenente nel quale il controllo della macchina da presa è assunto da Ken Kelsch, operatore molto meno dotato del formalistico Bazelli in grado però, rispetto al suo predecessore, di assecondare il desiderio di slabbrare i margini delle inquadrature e soprattutto catturare il respiro della performance attoriale anche nei momenti di apparente silenzio e dilatazione del tempo.

Coloro che imputano anche a Pasolini un mancato controllo formale da parte di Ferrara, accennando a momenti estremamente riusciti e ad altri che sembrano invece quasi improvvisati nella loro crudezza e approssimazione, pur centrando quello che è ormai il cuore stesso del gesto filmico ferrariano, non riescono a coglierne il senso e di conseguenza faticano ad accettare che è esattamente in questo spaesamento che si colloca il fare cinema di Ferrara.

Osservando come Ferrara ne Il cattivo tenente giunge dal noir urbano classico di orientamento dassiniano e hathawayiano alle porte di Cassavetes, permette di comprendere come il regista abbia progressivamente provato a liberarsi di quelli che Roberto Rossellini definiva gli “artifici del cinema”.

Se The Addiction – Vampiri a New York è il film crinale fra il prima e il dopo, bisogna tornare a Occhi di serpente, Blackout, New Rose Hotel, Il nostro natale, Mary e Go Go Tales per osservare come il conflitto con le forme imposte del cinema volga, film dopo film, in una direzione come libera(ta) dal cinema stesso.

E non è un caso che il più virtuosistico dei film ferrariani, Fratelli, con la sua struttura a flashback incastrati, senz’altro la cosa più wellesiana di Ferrara, lavoro pensato come un assedio di matrice teatrale, sia anche il film che coloro che non apprezzano l’attuale direzione del regista considerano il suo ultimo, vero capolavoro.

Lavorando nel solco della lezione cassavetesiana, iniettandovi però l’essenzialità e la velocità dei B-movie della Republic o della Monogram, Ferrara, rinunciando alla stilizzazione noir, è diventato un vero e proprio regista di attori.

Non nel senso di regista letterario, attaccato al testo di una sceneggiatura immutabile e/o intoccabile, quanto di uno sguardo che filma soprattutto il farsi del processo della realizzazione del film.

Ciò che sta al cuore del film è quanto emerge dall’interfacciarsi del corpo dell’interprete con il set. La differenza fra il corpo dell’attore e lo spazio del set diventa così il luogo-narrazione stesso del film. Diventa il luogo dove il film accade e si rivela come lavoro. Come testimonianza di un lavoro. Segno di un lavoro come processo collettivo. E anche come pensiero.

Non è un caso che in Welcome to New York, Gerard Depardieu, già calato nei panni del suo personaggio, lo commenti in termini di lavoro attoriale per poi trascolorare senza alcuna soluzione di continuità nella “finzione” del film. Chi parlava dunque? Depardieu? Il suo personaggio? Ferrara?

Questa fertilissima indeterminazione è esattamente il luogo nel quale oggi il cinema di Ferrara si rivela compiutamente.

Ed è da questo punto in avanti che bisogna necessariamente osservare Pasolini se si desidera comprendere come s’articola il discorso formale del film.

Rispetto alla regola del biopic hollywoodiano e di quello del cinema civile italiano, Ferrara non si presenta né con rivelazioni inedite né tantomeno offre il suo film con i crismi di un’operazione filologica.

Pasolini secondo Ferrara è soprattutto un luogo. Una pura creazione filmica. Ed è in questo luogo, nel quale si accede da diverse strade, essendo questo un luogo aperto, poroso, che Ferrara costruisce un racconto lirico, come un saggio in forma di poesia.

Abbracciando senza alcuna remora i precetti pasoliniani del cinema di poesia, Ferrara non rinuncia certo a dichiarare che quanto vediamo sullo schermo non è il poeta friuliano ma l’immagine che di lui ha creato un regista e che per tanto va letta e giudicata non rispetto ai suoi presunti indici di realtà ma in funzione del lavoro necessario a crearla.

Purissimo e commovente film saggio, nel quale a tratti si ha quasi l’impressione di percepire il respiro di Ferrara dietro le immagini, Pasolini gioca audacemente lo scarto fra immagine e verosimiglianza lasciando che sia sempre lo spettatore a organizzare le fila delle immagini. Ferrara, lui apre tutte le finestre e il mondo entra da ogni parte. E quest’invasione è proprio una delle ragioni portanti del film. Il film non è solo proprio come non lo è il mondo e come non può esserlo il regista. Nel fare, nel lavorare, ci si contamina. Si diventa altro. E anche Pasolini non è più Pasolini.

Intitolandosi semplicemente Pasolini, e spingendo così sino al limite estremo l’identificazione fra il film (in quanto oggetto) e il poeta, Ferrara è come se spostasse il tentativo di un ritratto non rispetto alla storia messa in scena quanto al lavoro necessario a realizzarlo. Come dire che è il processo stesso ad aspirare a essere pasoliniano. Lì e non altrove vive la lezione e la voce non conciliata del poeta.

Non si tratta quindi di mimetismo, nonostante l’altissima prova di Willem Dafoe, apice di una carriera esemplare, ma di comprensione e compassione.

L’attore, infatti, spingendo verso una somiglianza quasi mimetica, aiutato anche dai consigli e dai ricordi di Ninetto Davoli, arricchendo la performance dell’attore di dettagli come la catenina visibile al collo, è come se invocasse non una sospensione dell’incredulità ma rivelasse chiaramente l’artificio della creazione attoriale. Willem Dafoe, infatti, interpreta Willem Dafoe che si cala nel ruolo di Pasolini.

Pasolini, il poeta ucciso a Ostia, è l’assenza. L’immagine non vista ma sempre evocata. Pasolini, il film, assume lucidamente su di sé questa assenza e la erge a fulcro sul quale far muovere tutte le figure che concorrono al gioco del sortilegio e dell’incanto: rendere visibile l’invisibile.

Ed è solo in quest’angolo di mondo, apparentemente sottratto alle regole riconosciute e condivise del cinema, che la libertà stessa del fare cinema torna genuinamente a provocare scandalo, ossia a essere sottratta all’influenza dei linguaggi dominanti. Scelta, questa, inutile sottolinearlo, essenzialmente pa
soliniana.

Solo in un luogo dove si discontinua il “parlare-cinema” maggioritario è possibile ipotizzare un’altra parola in grado di tracciare differenze significative.

Ferrara, come mettendo in scena un paradossale analfabetismo di ritorno – tanto radicale, infatti, è lo scarto del suo film rispetto al panorama cinematografico attuale – filma il suo Pasolini come da un luogo virtualmente privo di cinema, ritrovando in questo modo una struggente purezza cittiana.

(28 settembre 2014)



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