Cinema: “Veloce come il vento” di Matteo Rovere

Giona A. Nazzaro

Proprio come non ti aspetti un Accorsi così diabolicamente in palla, non ti aspetti che un Veloce come il vento funzioni in tutti i reparti. A partire da 1992, l’attore, confrontato con materiale impegnativo, lontano dalle cose abituali, ha dimostrato una presa drammatica sui suoi ruoli tale da mettere a tacere gli scettici. Muovendosi su uno spettro drammatico opposto a quello di 1992, mette in campo una vulnerabilità e una intelligenza corporea nell’aderire a un personaggio complesso (di quelli che negli Usa interpretano Matthew McConaughey o Woody Harrelson) che permette al film di carburare con un’intensità davvero sorprendente.

Matteo Rovere, produttore di Smetto quando voglio, dopo Gli sfiorati, film per moltissimi versi irrisolto, firma un intenso film d’azione che invece di guardare a Hollywood o ai cloni sfornati dalla Europacorp, cerca nel territorio, e nella lingua, le sue motivazioni drammatiche. L’unico precedente in questo senso è Velocità massima di Daniele Vicari, anche in quel caso un film d’azione sui generis, profondamente intrecciato con quanto resta di quello che una volta era il (sotto)proletariato romano. Una sorpresa e un esito importante restato per troppo tempo senza seguito.

Matteo Rovere innesta una storia senza tregua, che si svolge su più livelli, nel cuore di quella Italia che non solo lavora (in contro tendenza con la bieca retorica leghista), ma che grazie alla sua operosità ha prodotto autentiche mitologie popolari, precipitato di un lavoro condiviso. La “macroregione” dove l’inflessione vernacolare è il romagnolo, a partire da un approccio condiviso alla mitologia di un lavoro partecipato come luogo di narrazione di un’identità non chiusa, è messa in scena come una terra di frontiera, un west(ern) tutto italiano. Le macchine e i motori come i cavalli e le concessioni per le terre da coltivare. Una regione, quindi, determinata prima ancora che geograficamente o industrialmente, da un sentire e da un fare, diventati il serbatoio emotivo di una vicenda di quelle che, sulla carta, stando a certi pregiudizi, non ci appartengono. O che addirittura non siamo in grado di raccontare.

E allora forse è il caso di capire perché un film come Veloce come il vento funziona.
Nel cinema italiano si vede poco il lavoro. Lo si vede, a volte, come assenza (il lavoro che non c’è), o i lavori “fichi”, di quelli dove non ti sporchi mai le mani, dove sembra che il tempo passi fra un caffè, un aperitivo e un brunch. I lavori che si fanno, per intenderci, nelle commedie borghesi. (Quo Vado?, in questo senso, nel mettere in scena ciò che resta del “lavoro” clientelare e la “fuga dei cervelli” se non altro ha il merito di centrare una questione importante).

Rovere, invece, nel suo film, qualifica immediatamente i suoi protagonisti come lavoratori. Sia Loris che Giulia conoscono il loro lavoro. Come il gran genio amico di Lucio Battisti, con un cacciavite in man fan miracoli, regolano il minimo alzandolo un po’
Non è un caso che il film si apra con una gara. Si entra immediatamente nel corpo vivo del lavoro delle corse e delle macchine. E il montaggio di Gianni Vezzosi, preciso e analitico, mai banalmente sincopato, lontano dal modello clip e action movie agli estrogeni, comprende la dinamica, diremmo biologica, del taglio fra un inquadratura e l’altra cucendole secondo un ritmo che è soprattutto lirico, musicale, prima ancora che spettacolare.

Non solo. Delle macchine ci viene spiegato subito che stanno insieme perché c’è qualcuno che stringe vite e bulloni. E, dall’altro lato, c’è un corpo, quello di Loris, che deve essere rimesso insieme. Che deve tornare a svolgere il suo lavoro. Fra le macchine e Loris e Giulia esistono un legame biologico-meccanico che la sceneggiatura di Gravino, Manieri e Rovere coglie alla perfezione (con la stessa precisione con la quale Nicole Kidman accarezza le radiografie di Tom Cruise in Giorni di tuono).

Tutto Veloce come il vento è incastonato in questa consapevolezza che il lavoro è un’etica. E che fare bene un lavoro è già una posizione morale. Uno sguardo. In questo senso, sì, il film di Rovere vanta dei punti di contatto con il cinema americano classico. Non perché imita un modello inesportabile, a meno di non volere fare dei Besson-movie, ma perché ne comprende la motivazione intima e la cala in contesto schiettamente italiano filmandone la reazione.

In questo senso l’obiezione che il film in realtà non faccia altro che snocciolare stereotipi perde valore. Veloce come il vento è un romanzo di formazione e senza andare a scomodare gli strutturalisti, le storie son sempre quelle. Ciò che rende interessante una storia cinematografica rispetto a un’altra sono le modalità con le quali la forma cinematografica s’intreccia con uno o più personaggi. E questo che fa l’interesse di un vero film di genere, non il suo essere più o meno in sintonia con le mode del tempo.

Il lavoro, infatti, resta come memoria del corpo (e in questo Accorsi è strepitoso: il suo evidenziare la lotta strenua fra la i bisogni del corpo e la memoria del suo fare…).
E Rovere, proprio perché intuisce il rispetto che si deve al lavoro, non bara. Non si vince facile. Mai. E sovente si perde. Ed è anche questo un merito del film. Avere il coraggio di mettere in scena dei personaggi che perdono. Certo, alla fine la famiglia si ricompone, e forse riottengono la casa. Ma i sogni sono sfumati (forse). Bisogna ricominciare. Proprio come milioni di concittadini, che ricominciano a volte ogni giorno, ogni mattina. (non si tratta di retorica, ma semplicemente di capire perché poi certe storie parlano di più a chi compra un biglietto per il cinema e altre meno o per niente). Se il protagonista vince sempre, allora è chiaro: siamo al cinema. Se ogni tanto perde pure, beh siamo ancora e di sicuro al cinema ma forse il film racconta e tocca qualcosa che ci sta un tantino più a cuore. Veloce come il vento compie proprio questo piccolo ma significativo spostamento di equilibri drammatici.

Questo processo di ricostruzione, dunque, di cui siamo testimoni attraverso la vicenda di Loris e Giulia (ma c’è anche chi resta per strada, come la struggente Annarella interpretata da Roberta Mattei), affonda le sue radici in un’idea di lavoro, e di passione, che le trasformazioni dell’economia hanno tentato di cancellare, di fatto l’hanno “precarizzata”, un’idea di lavoro che contiene in sé un’idea altrettanto forte di “classe” (anche se lontana dai codici identificativi tradizionali).

Certo, il film di Rovere è soprattutto intrattenimento ma in questa sua schiettezza risiede la possibilità per un cinema autenticamente di genere di mettersi definitivamente alle spalle modelli ed esorcismi, nostalgie e imitazioni, lavorando trasversalmente, a tutto campo, intrecciando mitologie e spettacolo, territorio e linguaggi, invenzione e sguardo.

Veloce come il vento, proprio come la splendida Matilda De Angelis, è a tratti un film anche fragile, ma che convince sempre grazie alla sua adesione ai personaggi che gli permette di ricreare un mondo che gli spettatori possono abitare come se lo avessero conosciuto da sempre. 

(14 aprile 2016)



MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.