Cinema: “Riccardo va all’inferno” di Roberta Torre
Giona A. Nazzaro
Quando ci capita di scoprire un bel film italiano la prima reazione – un riflesso condizionato si direbbe – è di argomentare immediatamente che in fondo il film in questione non sembra affatto un… “film italiano”. Come a dire che – in fondo – cinema e l’aggettivo italiano rappresentano una contraddizione in termini. Come se, dopotutto, l’avvento della generazione cinematografica due “stanze e una cucina” avesse eroso la memoria di un cinema italiano che ha osato pensare in grande (come si diceva una volta) rischiando e percorrendo sentieri poco battuti.
Di fronte a Riccardo va all’inferno, in assenza di un modello immediato di riferimento, si preferisce affermare che Roberta Torre abbia realizzato un film non italiano (come se l’aggettivo italiano non dovesse essere utilizzato che al ribasso, in negativo).
In realtà Roberta Torre con il suo film scoppiettante di sontuoso eros barocco e insurrezionale (gustare la geniale uccisione di Zio Angelo [Mirko Frezza] da parte di Stella Pecollo…) compie una straordinaria torsione fra decenni cinematografici intrecciando le ultime ghirlande funebri rimaste nei magazzini di Piero Tosi con l’urgenza degli sconcerti rock dei primissimi anni Ottanta, conservando negli occhi le immagini di quella geniale macchina del desiderio che fu il cinema sperimentale italiano degli anni Settanta. Il mondo – scespirianamente – è trasformato in una scena, della quale non si cela né si nega la frontalità. Il mondo trasformato in uno spettacolo. O meglio: lo spettacolo come destino ultimo del mondo. E non c’è molto da ridere, al massimo si può danzare sulle sue rovine: siamo riusciti a rovinare tutto un’altra volta…
Con una precisione quasi scolastica, Roberta Torre struttura il suo anti-musical come “racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente”. Perché, è evidente, al di là della maschera c’è ancora il mondo. Il film di Roberta Torre è proprio questa opposizione fra mondo e maschera, in questo caso quella del sublime Riccardo III di Massimo Ranieri, trascendentale nel suo presentarsi come mutazione genetica ottenuta incrociando i geni di James Cagney con quelli di un Till Lindemann (il frontman dei Rammstein).
Ultima delle quattro opere teatrali nella tetralogia minore di William Shakespeare sulla storia inglese, il Riccardo III (al di là del dibattito storico che ne è scaturito intorno alla figura del sovrano) permette a Roberta Torre da un lato di confrontarsi con le rappresentazioni che ne sono state fornite nel corso dei decenni al cinema e non solo, e dall’altro riportare al presente la parola scespiriana. L’apparato carnascialesco che la regista mette in scena – troppo facilmente ridotto alla sola categoria del kitsch – è come una fantasmagoria funeraria alla fine della storia. Il grande spettacolo cannibalico del potere che divora sé stesso. E il sesso ridotto a valuta di scambio per ottenere il potere o dare la morte.
Riccardo va all’inferno crea – a partire dalla lettera scespiriana – una sorta di anti-mondo che – osservando con attenzione – si rivela essere il doppio documentario del nostro, non banalmente il suo alter ego mostruoso. I numeri musicali, messi in scena provocatoriamente come se fossero stati coreografati da un mediocre fallito espulso da un talent show, funzionano con la medesima aggressività disfunzionale di una comunicazione ridotta al suo solo valore promozionale. Balletti e coreografie posseggono un disturbante valore spastico (a volte si pensa al geniale e compianto Ian Dury, anche se nella cadenza del passo di Ranieri), come di un corpo colto nelle agonie di una crisi di nervi un attimo prima di morire. Non si tratta di una metafora, ossia banalmente il brutto del kitsch utilizzato come atto d’accusa, quanto della creazione di un altro reale, di un mondo che esiste secondo regole proprie.
Reinventando la pulsione del volere essere visti a tutti i costi, i numeri musicali sono strutturati come delle parate, delle affermazioni di identità ed esistenza (la fase terminale dei talent show). Si esiste perché ci si può mostrare (ancora). E in fondo il Riccardo di Roberta Torre è l’immagine di un mondo che teme di scomparire senza essere stato visto sino in fondo. D’altronde “non esiste un’arte che consenta di scoprire le costruzioni della mente nel volto di un uomo” e quindi la regista crea sul set un vero e proprio territorio mentale: un terrain vague dell’immaginario dove le luci brillano fosche come le luminarie nel giorno della festa del santo patrono di turno.
Riccardo va all’inferno è – a ben vedere – l’immagine di un paese che ha tradito per l’ultima volta sé stesso e chi avrebbe dovuto proteggere. La Regina Madre ha tradito tutti noi. Se non si riesce a reggere lo sguardo, sappiate che quello che luccica non è sangue, è vernice. Perché in fondo, ed è la cosa che fa più male, Roberta Torre dichiara che siamo stati defraudati anche della tragedia. Che una volta, invece, se non altro, ci spettava di diritto. Quindi non resta che ballare, ancora una volta, perché, tanto per cambiare, è “showtime!”.
Riccardo va all’inferno è il grande corteo funebre di un paese che si perde nelle tenebre abbracciando per sempre il buio. A suo modo è uno “spettacolo” grandioso. A Roberta Torre, come al Ken Russell più amaro, non resta che il piacere di un virulento bricolage con quelli che furono i segni dell’immagine dei saperi di una volta.
Una tristezza ludica ed euforica, una fantasmagoria isterica.
Riccardo va all’inferno è decisamente il film di Roberta Torre all’apice del suo talento.
(4 dicembre 2017)
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