“Sangue del mio sangue” di Marco Bellocchio

Giona A. Nazzaro

Cosa significa, oggi, lavorare per la cultura e per la differenza in un paese dove qualsiasi ipotesi di discontinuare il degrado passa ormai quasi esclusivamente attraverso una comunicazione tarata sui tempi e le modalità di un sistema spettacolare autoreferenziale? Soprattutto: cosa significa resistere con gli strumenti del linguaggio e dell’estetica, della forma, in un sistema dove il contenutismo è lo specchio deformante di un devastante vuoto politico? E, cosa più importante di tutte, come recuperare al proprio agire estetico e politico il piacere del gioco? Dove ritrovare il gusto dell’insurrezione – spietata – del ludico contro le trappole del consenso tese solo per perpetuare l’esistente?

Il cinema di Marco Bellocchio, in una continua sfida a se stesso, si rinnova tentando consapevolmente di dimenticarsi di se stesso. Come se il regista avanzasse cancellando dietro di se le tracce del proprio lavoro pur restando fedele a un mondo e a una poetica. Una fedeltà, quella bellocchiana, che si produce e si verifica sempre come differenza e mai ripetizione. Una differenza modulare. Di tono e formale.

Sangue del mio sangue, nel cui titolo è dichiarata la consustanzialità fra lo sguardo dell’autore (il pensiero) e la materia (che è anche forma) del suo fare, permette di viaggiare dietro le quinte di un pensiero che nel suo darsi assume le articolazioni di un discorso politico. Bellocchio, nel cinema contemporaneo italiano, è l’unico che continua a imprimere, potentemente, uno scarto politico al suo gesto filmico. In un equilibrio libero, sempre schiettamente metastabile, in continua reinvenzione, il dialogo fra forma e pensiero si offre come tensione che mette in discussione la natura dell’immagine.

Cosa accade, dunque, nel film di Bellocchio? Un soldato torna per assistere al processo intentato dall’inquisizione a una suora accusata di avere indotto al suicidio il fratello sacerdote per amore. Ciò che manca, elemento sul quale si costruisce il discorso del consenso e dell’accusa è la mancanza dell’immagine. Sia del suicidio che dell’atto sessuale. Come dire che il consenso è sempre un discorso fondato sulla mancanza di immagini (meglio: l’immagine non verificata; l’immagine data per vista ma mai veramente vista… immagine quindi che forse non esiste nemmeno…). Il potere, di conseguenza, è la gestione di questo vuoto d’immagine, inteso, paradossalmente, come immagine-origine, immagine prima.

La mancanza di immagini (mancanza di discorso), in definitiva, ed è un discorso che pertiene a tutte le religioni, è l’immagine della verità unica, indiscutibile. Non è un caso che quando Federico fingendosi sacerdote per strappare la confessione a Benedetta, letteralmente evade dall’inquadratura per baciarla. Il fuoricampo è versione politica della mancanza di immagini: la possibilità di un altro rapporto con l’immagine.

Quella di Bellocchio non è banalmente una polemica tardiva contro il potere di repressione dell’istituzione ecclesiastica nei confronti della sessualità, quanto la messa in scena di quanto Jean-Luc Nancy evoca nel suo saggio Il «c’è» del rapporto sessuale. “Le figure chiaramente rivali – che non vuol dire opposte – dell’amore e del desiderio si chiamano fedeltà e fulmine (quello del colpo). Per più di un aspetto, una esclude l’altra. La fedeltà non consiste nel mantenere vivo un fuoco la cui essenza è di consumarsi: per questo motivo, non c’è transizione dall’una all’altra e si possono distruggere a vicenda, mentre, se coesistono, restano comunque eterogenee tra loro. Il fulmine e la fedeltà sono però anche due figure dell’infinito in atto – cioè di quel che chiamiamo eternità: una secondo la consumazione, l’altra secondo l’assunzione. Un’eternità presente nell’istante, un’eternità come fede promessa al di là di tutti gli istanti. E forse non c’è eternità senza il rapporto intimo e diviso tra le due figure: l’eterno ritorno è l’affermazione del presente al di là di ogni sua presenza”. [1]

Perché meravigliarsi quindi della presunta cesura esistente nel film di Bellocchio quando esso si regge chiaramente su un architettura che rielabora il tempo nel segno di una costruzione vertiginosa che è quella della seduzione? La discontinuità del presente politico, come hybris della seduzione, diventa un rifiuto giubilante del discorso dominante e della trasmissione temporale e culturale. Il tempo non è più quello del desiderio, le cui leggi di produzione e riproduzione sono sin troppo simili a quelle del capitale, ma quello della seduzione; ossia creazione di un orizzonte dell’artificio che incrina la rappresentazione del tempo e di conseguenza del potere che esso veicola. La seduzione, dunque, come ultimo atto resistenziale, teatro di una possibilità, perché “la seduzione non si arresta mai dinnanzi alla verità dei segni, si arresta dinnanzi al doppio illusionistico e al segreto, inaugura un modo di circolazione a sua volta segreto e rituale, una sorta di iniziazione immediata che obbedisce soltanto alla propria regola del gioco. (…) La seduzione è immediatamente reversibile, e la sua reversibilità è costituita dalla sfida che implica e dal segreto in cui si inabissa” [2].

Marco Bellocchio, in maniera acutissima, gioca, perfidamente gioioso e leggero, con le forme di un film che annulla il tempo, osando una rappresentazione spaziale del tempo (bisogna prestare attenzione agli anacronismi musicali…). Il tempo, in Bellocchio, cede allo spazio: Bobbio è il centro del mondo come afferma, senza alcuna punta di ironia il conte. Negando il tempo, il cinema torna a essere disposto come su una tela, torna a essere discorso e rappresentazione dello spazio. Uno spazio dove una cesura di montaggio non significa un avanzamento o un arretramento, quanto uno spostamento, possibilità di ripensare il mondo come luogo e racconto piuttosto come successione lineare di eventi. Il tempo, in quanto luogo del potere, viene negato dallo spazio. Un mondo nel quale il passato e il presente sono intrecciati e si seducono instancabili secondo dinamiche viste per esempio all’opera in un film potentissimo come La visione del sabba. “Cerco sempre un’immagine” dichiara Vittorio Mezzogiorno ne La condanna, nel cui finale, proprio come in Sangue del mio sangue, la penetrazione fra passato e presente, nel segno del femminino insurrezionale, si manifesta come epifania di uno spazio inaudito, mai visto.

La felicità e la leggerezza di questo straordinario poema cubista che è Sangue del mio sangue, nel quale riverbera l’anarchia autunnale dei fantasmi libertari e libertini di Don Luis, sta, al di là delle implicazioni politiche e filosofiche cui abbiamo tentato sommariamente di accennare, proprio nella ferocia determinazione ludica con la quale il regista, pur facendo appello a tutto il suo lavoro precedente, sfida e mette in crisi il sistema del consenso e del linguaggio, restituendo così al cinema la possibilità di continuare a pensare strategie in grado di discontinuare il reale. Così, mentre crolla il muro che incarcera suor Benedetta, lei risorge più bella e seducente che… mai. Come se Bellocchio, in un ultimo definitivo atto di disubbidienza, scatenasse contro i normali da legare l’irriducibile “no!” della seduzione e del ling
uaggio che non ne vuole sapere di mediazioni e di ragioni.

Sangue del mio sangue spinge davvero in territori nuovi il cinema insurrezionale di Bellocchio. Un attentato visionario e lirico, non cruento e non violento, contro il criminale consenso del silenzio, lo svilimento del linguaggio, la resa della parola, le connivenze del pensiero. Cinema, quello di Marco Bellocchio, che mentre osa ri-pensare il presente, reinventa se stesso come possibilità di dire il mondo.

[1] Jean-Luc Nancy, Il «c’è» del rapporto sessuale, Milano, SE, 2002, pag. 48-49
[2] Jean Baudrillard, Della seduzione, Milano, SE, 1997, pag. 86

(15 settembre 2015)



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