Cinema: “Una questione privata” di Paolo e Vittorio Taviani

Giona A. Nazzaro



Una questione privata dei Taviani si presenta come un film di grande urgenza. Al di là delle questioni filologiche, pur rilevanti, e della difficoltà di portare la scrittura di Beppe Fenoglio al cinema di cui ha fatto le spese, ingiustamente, anche Guido Chiesa con il suo ottimo Il partigiano Johnny, resta il risultato di un film che, pur discontinuo, è attraversato da una straordinaria energia.

La rilevanza del romanzo e della scrittura di Fenoglio, per decenni una spina nel fianco dell’accademia e dei ragionamenti sul racconto degli anni della Resistenza, infatti, ha attratto nel corso del tempo intellettuali non organici come Giulio Questi, che sognava di trarre un film dal libro, ma soprattutto l’ammirazione di Italo Calvino. Lo scrittore rifletteva, nella prefazione all’edizione del 1970 de Il sentiero dei nidi di ragno, che “fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo (…), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata”.

Le parole di Calvino colgono implacabilmente la portata del libro di Fenoglio e pretendere che un film possa aderire a essa con la medesima urgenza, per quanto possa sembrare giusto, è tutto sommato una richiesta irrealistica. Una questione privata film, invece, è un lavoro interessante se lo si osserva nella sua specificità filmica perché permette di osservare come il sistema dei Taviani si sia progressivamente andato modificando nel corso degli anni pur conservandosi sostanzialmente fedele a sé stesso. 

Se si escludono i primi minuti del film, davvero un po’ sotto tono, il resto di Una questione privata si offre davvero come teso e sul filo di una narrazione diretta, essenziale. Per troppo tempo i Taviani sono stati identificati un po’ facilmente con un cinema di regime di sinistra che aveva poca voglia di cambiare e che soprattutto aderiva acriticamente a una certa idea di impegno messo per immagini. E se è vero che a partire da Kaos in avanti il loro cinema, pur conservando una dignità formale costante, è andato come ripiegandosi su stesso, Cesare deve morire ha segnalato che le cose nel sistema Taviani si muovono ancora.

Motivo per cui Una questione privata si segue con passione e interesse grazie proprio a questa vitalità nervosa che a contatto con le montagne e giovani attori motivati e generosi (anche nei ruoli di contorno, basti pensare al sempre interessante Guglielmo Favilla) riesce a evocare quel senso di disperata vitalità di chi all’epoca decise di ergersi contro il fascismo. Basti osservare le corse a perdifiato di Marinelli nella nebbia, per esempio, per segnalare che al fondo del film dei Taviani vive un’urgenza sentita e forte. E nel momento a nostro avviso più riuscito del film, quella del fascista catturato che non cessa un solo momento di battere il tempo con la sua batteria immaginaria, il film crea un efficace intreccio fra il territorio, la tensione e il tempo che scorre nei corpi dei partigiani. Insinuando anche l’idea – cinematograficamente molto compiuta – che per i partigiani il compito più arduo è proprio quello di interrompere, letteralmente, il ritmo del tempo dei fascisti.
Anche la fine del film è momento particolarmente riuscito, con la corsa di Milton che si proietta, lui ripreso di quinta, verso un punto perduto verso l’orizzonte, come una prospettiva tutta da immaginare e pensare.

Certo il libro di Fenoglio chiunque l’abbia letto se l’è filmato mille volte nella propria testa. Questo però non vuol dire assolutamente che la versione dei Taviani sia priva di dignità o legittimità. In un momento in cui finalmente, dopo anni di barricate di carta e critiche, riusciamo a ragionare serenamente di Lucio Fulci o di Umberto Lenzi (entrambi antifascisti di provata fede), non si capisce perché ci si dovrebbe ostinare a relegare i Taviani nell’angolo di un cinema inamovibile e politicamente massimalista. Se oggi possiamo apprezzare Fulci o Lenzi riconoscendo i limiti dei loro ultimi film, allo stesso modo si potrebbe apprezzare la vitalità di un tardo film dei Taviani che si presenta a noi con un’energia davvero sorprendente con un desiderio forte di entrare nel discorso delle cose si agitano intorno a noi. E questo desiderio è cosa da non sottovalutare nel momento in cui riesce a farsi avanti anche in forme filmiche non scontate.

Ed è proprio questa vitalità a volte anche scomposta a fare di Una questione privata un’opera che merita di essere scoperta e vissuta con attenzione. L’accusa generica, infatti, che si tratti di un film “vecchio”, qualunque cosa voglia dire, non dovrebbe impedire di notare come molto del presunto nuovo nasca già “vecchio”.

Francamente è uno spettacolo appassionante osservare come il film dei Taviani scalci generoso mentre il montaggio dell’aristotelico Perpignani ricompone attraverso linee geometriche le folgorazioni dei pensieri di Milton tracciandole nello spazio delle montagne, scena primaria della nostra epica e lotta al fascismo.

Il senso del romanzo di una generazione, di cui scriveva Calvino, giunge così sino alle immagini di Taviani. Il senso di quella lotta, di quella resistenza non è affatto una questione privata. Ci riguarda tutti. Anche oggi. E i Taviani hanno ritrovato la forza e l’urgenza dei loro giorni migliori per ricordarcelo. A loro non si può chiedere di più. A tutti gli altri, sì.
Giona A. Nazzaro



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